Politica Internazionale

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lunedì 21 gennaio 2013

Lo sviluppo in Africa del terrorismo islamico

Il ritorno del terrorismo islamico in Algeria, dove era nato, circa venti anni prima, non costituisce una coincidenza. Malgrado le smentite delle autorità algerine, il fenomeno, pur essendo ancora lontano dall'intensità degli anni novanta, quando il monopolio della violenza era esercitato dai Gruppi Islamici Armati ed il paese era sull'orlo della guerra civile, sta avendo un incremento non irrilevante. Tra il 2001 ed il 2012 sono stati ben 938 gli attacchi terroristici di matrice islamica, concentrati al di fuori delle grandi città, controllate dallo stato, ed in particolare avvenuti nelle montagne della Cabilia ed, in maniera minore nel deserto del Sahara. Ai Gruppi Islamici Armati è subentrato il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, fondato nel 2006 e subito accolto nella galassia delle organizzazioni affiliate a Osama Bin Laden. Si tratta di gruppi di salafiti algerini comandati da Abdelmalek Droukdel, che li dirige probabilmente da qualche valle nascosta nelle montagne della Cabilia. Da lì la sua influenza si è diffusa nella gran parte del territorio del Sahel: in Mauritania, Niger ed in particolar modo nel Mali, dove, nella parte settentrionale del paese, i combattenti islamici sono stati spinti dalle offensive dell'esercito di Algeri. Questo territorio, dove non viene praticamente esercitata alcuna sovranità legale, ha permesso ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico di incrementare notevolmente le proprie ricchezze, grazie ad attività illecite come il contrabbando, l'immigrazione clandestina, il traffico di droga ed, in ultimo, la pratica del rapimento di occidentali, rilasciati dietro sostanziosi riscatti, pagati dagli stati di appartenenza dei rapiti. Nella sua ascesa al potere il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico è stato favorito da fattori esterni alla sua azione, che ne hanno facilitato l'accresciuta influenza, come la guerra in Libia, che ha permesso di liberare notevoli quantitativi di armamenti, nascosti nei depositi di Gheddafi e la spinta autonomistica dei Tuareg del Mali, che ha permesso di stringere tra i due movimenti un'alleanza tattica, unendo le forze contro il debole governo centrale di Bamako. Quest'ultimo fattore ha determinato la conquista del nord del Mali, un territorio molto vasto ma scarsamente popolato, il cui controllo ha consentito una libertà di azione ancora maggiore nelle attività illegali. Proprio la volontà di aumentare la superficie controllata, con un'azione militare sventata dalle truppe del Mali, ha obbligato Parigi ad intervenire e ciò è stata la causa della rappresaglia consistita nell'assalto all'impianto di produzione di gas in Algeria. Il rischio che questi episodi si ripetano è altamente concreto, l'azione dei gruppi terroristici si muove in territori profondamente segnati dalla povertà, dove ottenere il consenso della poplazione è relativamente facile, anche se l'instaurazione della legge coranica, ha suscitato molta contrarietà, per la ferocia della sua applicazione. Ma l'intendimento di estendere a tutto il Shael l'influenza del terrorismo islamico è un programma di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, anche se, proprio a causa della grande estensione territoriale, i gruppi terroristici dovrebbero subire una divisione cellulare, che potrebbe determinare la fine della struttura piramidale di comando; ciò significa andare incontro ad un minore controllo centrale, che in una potenziale fase repressiva potrebbe complicare la lotta al terrorismo, per la maggiore presenza di centri di comando, comunque differenti. Un'altro aspetto è la possibile corsa ad attentati ed azioni dimostrative per ingaggiare una sorta di lotta per avere una qualche supremazia di alcuni gruppi rispetto ad altri. Diventa così necessaria una azione di contenimento, che non può più, purtroppo, essere preventiva e che deve essere coordinata in associazione con i governi legittimi, dagli stati occidentali, per impedire il dilagare dell'estremismo religioso. La caduta del controllo dei gruppi terroristici dovuta al successo delle primavere arabe, con la conseguente caduta dei regimi che detenevano il potere politico nei rispettivi paesi, rappresenta il lato negativo dei processi di democratizzazione dei paesi arabi, non del tutto previsto dai paesi occidentali, che ora devono assolutamente correre ai ripari perchè la zona interessata è situata immediatemente dietro alla sponda meridionale del Mediterraneo.

Israele al voto: favorita la destra

Alla vigilia del voto israeliano, che eleggerà il diciannovesimo parlamento della sua esistenza come stato sovrano, i cinque milioni di cittadini chiamati alle urne potranno scegliere tra 34 partiti. Dopo otto settimane di campagna elettorale le previsioni forniscono un quadro possibile molto simile a quello attuale, caratterizzato dalla predominanza della destra. Se tale previsione risulterà veritiera Benyamin Netanyahu, l'attuale Primo Ministro, sarà riconfermato per la terza volta nella massima carica del paese. La principale novità nel panorama dei partiti israeliani, è costituita dalla potenzialità della nuova lista, che si colloca all'estrema destra, Habait Hayehudi, guidata da Naftali Bennett, ex consigliere di Netanyahu, che presenta un programma basato sulla costruzione del grande Israele basato sui confini della Bibbia, con la conseguente negazione dalla costituzione dello stato palestinese ed il rifiuto del processo di pace con gli arabi. Questa lista, pur essendo parte dell'alleanza che dovrà portare alla riconferma l'attuale primo ministro, ha già eroso consensi elettorali al partito di Netanyahu, presentandosi come un movimento di destra alternativa, contraddistinto dalla rigida intransigenza nei confronti dei rapporti con i palestinesi. Il successo accreditato ad Habait Hayehudi fornisce chiaramente il polso della situazione nel paese della stella di David: la maggioranza della popolazione non è sostanzialmente favorevole ad un processo di pace che sancisca la costituzione dello stato palestinese, la soluzione preferita dagli americani, con i quali si prevede, in caso di vittoria dell'attuale amministrazione insediata a Tel Aviv, rapporti più che pessimi, con sviluppi sulpiano delle relazioni internazionali difficilmente prevedibili. L'impronta data da Obama al suo governo, con le nomine principali non gradite ad Israele, promettono tempi difficili tra i due paesi, con relazioni, che, verosimilmente, subiranno ulteriori raffreddamenti. Tuttavia anche per Israele la questione palestinese sembra passare in secondo piano a causa della difficile congiuntura economica, a parte la parentesi dell'operazione di Gaza, compiuta a Novembre, le questioni economico sociali mantengono il primato nelle discussioni, e perfino la paura di un attacco iraniano è superata in nome della richiesta di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Questo aspetto della campagna elettorale potrebbe aprire margini di prospettiva per il principale partito di opposizione, il Partito Laburista, guidato da Shelly Yachimovich, che punta in special modo sul voto femminile. Ma la crisi potrebbe essere anche una opportunità per Netanyahu, grazie alla quale difendere la sua politica in favore dell'espansione delle colonie nei territori palestinesi, per creare sviluppo a favore degli israeliani. Questa argomentazione usata più volte in modo latente potrebbe salire nell'importanza strategica della campagna elettorale, come dimostrato più volte dall'azione politica del primo ministro, che, a parte le dichiarazioni di facciata, per la verità sempre meno convincenti, ha sempre agito nella direzione opposta del processo di pace, non condiviso e neppure perseguito.

venerdì 18 gennaio 2013

L'occidente diviso di fronte al terrorismo

Un consuntivo sulle ragioni dell'affermazione del movimento terroristico islamico mondiale non è una priorità ma una necessità. I modi per affrontare il fenomeno inaugurati dalla presidenza Bush figlio, non hanno dato i frutti sperati; Obama si è ritrovato a gestire l'Iraq, l'Afghanistan con il corollario della questione iraniana, impostati in una logica già fuori dal tempo presente; ma nonostante l'uscita di scena delle truppe americane, già effettuata, in corso o programmata, la situazione dell'estremismo islamico pare in crescita, i risultati, cioè, sono andati nel verso contrario delle attese, malgrado i tragici bilanci in vite umane e lo sforzo economico sostenuto. L'errore di fondo è stato fatto in partenza: gli USA, nonostante la propria potenza, che resta la prima al mondo, non potevano sostenere da soli il ruolo autoassegnato di gendarme mondiale. La fine dell'equilibrio del terrore, che giustificava il conflitto est-ovest, con la caduta del comunismo ha spostato l'asse del confronto mondiale apparentemente di novanta gradi, creando il confronto nord-sud. Tuttavia questa disamina è troppo semplicistica, se era vero che prima della caduta dell'impero sovietico la monopolizzazione delle relazioni internazionali si poteva racchiudere in modo veritiero tra oriente ed occidente del mondo, la fase attuale, risultato di più sommovimenti internazionali, non può essere inquadrata soltanto nella banalizzazione del confronto tra settentrione e meridione del mondo, dove per settentrione si individuano i paesi ricchi o ad economia avanzata e per meridione i paesi poveri o con economia arretrata ed in via di sviluppo. La molteplicità delle situazioni che si sono venute a creare non può consentire un solo attore principale senza soggetti, che possano almeno coadiuvarlo o rimpiazzarlo in determinate situazioni. La Russia, che forte dell'esperienza internazionale maturata negli anni sovietici e con un apparato militare esteso, supportato da ingenti ricchezze economiche, poteva rappresentare un attore capace di giocare a tutto campo nella diplomazia mondiale, non ha saputo ritagliarsi un ruolo nuovo nel panorama internazionale dopo l'avvento della democrazia; Mosca si è chiusa in una sorta di isolamento tra quelli che erano i confini dell'URSS, limitandosi a diventare una potenza regionale. La Cina, la nuova vera potenza mondiale, è alle prese con la profonda trasformazione tutta puntata sull'economia, ha come linea guida in politica internazionale il principio della non ingerenza negli affari interni a patto che questi non interferiscano con le proprie mire economiche e comunque la statura diplomatica attuale è ancora ben lontana da consentirgli di recitare un ruolo di leadership mondiale. Della UE tanto è stato detto, la composizione dei paesi che la formano potrebbe consentire di ottenere un risultato potenzialmente consistente, se non dal punto di vista militare, certamente in quello negoziale e diplomatico, tuttavia le profonde divisioni sommate all'incapacità e all'inconsistenza di Bruxelles fanno dell'Unione Europea una grande incompiuta, un soggetto senza una autonomia che necessita sempre più della stampella della NATO. Non resta molto altro se non l'ONU bloccato da un Consiglio di sicurezza dove si arena qualsiasi pratica in arrivo, per l'assurda regola dell'unanimità ed ancora più paralizzato dalla mancanza di una riforma che modelli il massimo organismo sovranazionale sulle esigenze attuali e non su quelle del secondo dopoguerra. In questo quadro le tensioni generate dalle condizioni di miseria e povertà di cui soffrono masse enormi di persone hanno trovato sfogo incanalandosi nella religione; l'affermazione dell'Islam non è stata compresa ancora del tutto neppure ora, tra le potenze occidentali; basti vedere quanta speranza, mal riposta, è stata messa nelle primavere arabe che, anzichè democrazie, hanno generato specie di teocrazie riadattate sulle esigenze del paese dove si affermavano. Quello che era il sud del mondo e che il sistema coloniale e di sfruttamento continuato dopo la fine delle colonie aveva relegato ad una considerazione di minore attenzione e quindi isolato dalla crescita, ha covato a lungo un'avversione ed un astio verso l'occidente, che soltanto le dittature hanno potuto tenere a freno con politiche fatte di azioni di allontanamento ed avvicinamento verso i governi occidentali. La strategia di Obama, di seguire un indirizzo di basso profilo, pur giusta è ormai arrivata in ritardo e sopratutto non ha i giusti contrappesi, così in questo quadro vengono lasciate questioni a metà, come la Libia, che genera altri scenari conseguenti, mentre non si fa nulla per risolvere uno degli alibi fondanti, ma usato soltanto in maniera funzionale, dell'estremismo islamico consistente nella mancata creazione dello stato palestinese. I fatti del Mali discendono direttamente da questa situazione e purtroppo l'impressione è quella di essere soltanto all'inizio. La Francia ha cercato, forse maldestramente, di supplire all'assenza di una autorità più forte di quella di Parigi ed ha operato in un contesto di assoluta solitudine, mostrando così la reale debolezza occidentale di fronte al terrorismo: quella di un mondo occidentale che si presenta diviso ed in accordo soltanto a parole, un mondo che, per adesso, è sicuro tra i suoi confini, ma che è incapace di produrre una visione che vada oltre le proprie mura per accordarsi con movimenti sociali con i quali finirà inevitabilmente per scontrarsi.

India: il caso dei marinai italiani ad una svolta

La vicenda dei due italiani appartenenti alla marina militare, accusati in India di avere ucciso due pescatori dello stato del Kerala, durante l'esercizio delle loro funzioni di scorta armata anti pirateria su di una nave commerciale italiana, è ad un punto di svolta. Lo stato indiano, in palese violazione della legislazione internazionale, dato che il fatto era accaduto in acque internazionali, aveva costretto la nave ad entrare nelle acque territoriali indiane ed aveva arrestato i due militari. Sullo sfondo della vicenda, a prescindere da qualunque giudizio di merito sull'accaduto, erano presenti tensioni politiche interne allo stato indiano, che avevano probabilmente mosso il sistema giudiziario a prendere una decisione funzionale ad un uso politico. La questione non era irrilevante, un fatto colposo commesso in acque internazionali compete alla giurisdizione del paese per il quale la nave, teatro del fatto stesso, batte bandiera. Insomma all'Italia veniva sottratta in modo arbitrario una questione giuridica a lei esclusivamente competente. La pericolosità della creazione di un tale precedente, che nell'ambito del diritto internazionale non costituisce cosa da prendere alla leggera, è stata sottovalutata dagli organismi internazionali, che hanno lasciato la contesa ad Italia ed India. Nelle ultime ore la Corte suprema indiana ha, però, rovesciato, seppure in parte, l'indirizzo giuridico dato dal tribunale del Kerala. Intanto è stata dichiarata l'incompetenza della corte dello stato indiano ed il caso è stato trasferito ad un tribunale speciale di prossima costituzione, con sede nella capitale indiana. Questa soluzione si gioca su di un confine giuridico molto sottile: da un lato viene riconosciuto che il fatto è avvenuto in acque internazionali in maniera ufficiale, ma dall'altro lato viene negato il godimento dell'immunità sovrana per l'esercizio della funzione di sicurezza svolta dai marinai italiani sulla nave commerciale, fattore decisivo per l'applicazione della extraterritorialità e quindi l'applicazione della giurisdizione di Roma. Si capisce che l'India tenta di mettere riparo alla violazione palese del diritto internazionale perpetrata dai giudici del Kerala, senza però arrivare a sconfessare in modo toale la decisione, per non incorrere nell'alterazione di equilibri politici locali molto precari. La sensazione è che a Nuova Delhi, sede del tribunale speciale, la prassi del diritto internazionale possa essere ripristinata, ma in attesa del giudizio definitivo sarebbe necessario che a livello sovranazionale le questioni che possono alterare la consuetudine della legislazione internazionale potessero trovare una codificazione normativa più certa. Tale necessità va ben oltre la normale esigenza della certezza del diritto, ma in un contesto sempre più globalizzato diventa una esigenza politica fondamentale, sopratutto in relazione all'insorgenza, sempre più frequente di fenomeni, come la pirateria internazionale, che minacciano, anche indirettamente, la convivenza tra gli stati.

giovedì 17 gennaio 2013

La vicenda del Mali esempio di debolezza della UE

Quello che sta accadendo nel Mali rischia di avere implicazioni maggiori in Europa, all'interno dell'Unione Europea, piuttosto che in Africa, sebbene il conflitto armato sia in corso proprio nel continente nero. La decisione francese di intervenire è stata obbligata essenzialmente da due fattori uno recente, l'aggravamento della crisi locale, che ha portato al rischio concreto di una diffusione a macchia d'olio del terrorismo islamico, l'altro più antico, dovuto alla negligenza dei governi francesi precedenti a quello attuale nella politica verso le ex colonie. Tuttavia esistono anche due difetti di fondo che rischiano di mettere in luce tutta la debolezza politica dell'intervento: la mancanza di una spinta sufficiente al progetto di difesa comune, già evidenziata con Sarkozy che lasciò il comando integrato della NATO senza un progetto alternativo e la decisione, per certi versi precipitosa, di entrare in un conflitto annunciato, che lasciava ampi margini di tempo per la preparazione sopratutto politica, senza concordare una preventiva coalizione che sostenesse a tutti gli effetti l'operazione. In Francia, il dibattito interno si sta indirizzando ancora una volta contro la Germania, accusata di essere contraria al progetto di difesa comune e quindi contro l'unione politica, contrariamente a quanto annunciato più volte dalla Merkel. In effetti, dichiarazioni a parte, al paese tedesco sembra interessare più la parte economica dell'unione europea, ma tale atteggiamento può porre la Germania sotto una luce differente riguardo al processo dell'unificazione dell'Europa. Berlino, fintanto che si è trattato di assumere un atteggiamento dirigista nei confronti del fornire l'indirizzo alla politica economica ha sempre fatto la voce grossa, quella del socio di maggioranza: ne è scaturita una risposta alla crisi finanziaria improntata la rigore più rigido, che ha compresso le economie degli altri paesi, tranne appunto quello tedesco. A posteriori è più facile individuare, invece, una politica economica ad uso e consumo dell'industria tedesca, facilitata nella concorrenza continentale. L'autoisolamento della Gran Bretagna, la sconfitta di Sarkozy e la fine praticamente naturale della legislazione di Monti in Italia avevano già messo in crisi la leadership tedesca sottoposta a critiche fino ad ora provenienti soltanto dalla periferia, ma la vicenda del Mali ha fatto deflagrare il problema della mancanza di condotta univoca e sovranazionale dell'Unione Europea. E' evidente adesso che la Germania è un gigante economico ma si sta rivelando un nano politico, non essendo stata capace di assumere la leadership in un caso di emergenza come quello che sta combattendo la Francia. E' altrettanto vero che molti paesi alleati naturali di Parigi sono alle prese con una crisi economica stringente, che non permette la possibilità di un aiuto concreto, tuttavia si stanno già intravvedendo delle possibilità che possano aiutare la Francia in maniera più concreta del semplice supporto logistico. E' il caso dell'Italia, che dovrebbe offrire le proprie basi ed anche aerei militari e della Spagna, minacciata da vicino dalla possibile escalation del radicalismo islamico. Ma si potrà trattare pur sempre di aiuti limitati, che scateneranno l'euroscetticismo sempre più strisciante all'interno della società francese. Va detto che anche la NATO per il momento è rimasta fredda nei confronti dell'operazione nel Mali, pur essendo direttamente interessata a stroncare l'avanzata dei radicali islamici, su questo fronte probabilmente Parigi potrebbe ottenere maggiori aiuti di tipo militare, ma attualmente il problema pare più diplomatico, Bruxelles, intesa come sede dell'Alleanza Atlantica, ha vissuto con irritazione il precoce ritiro delle truppe francesi dall'Afghanistan e sembra intenzionata a fare pagare lo sgarbo ai francesi. Hollande si trova così imbarcato in una guerra che difficilmente potrà vincere soltanto con l'arma aereonautica, l'impegno sul terreno è qualcosa di più che la peggiore eventualità, ma rappresenta l'unica concreta possibilità di vittoria. Per un governo appena eletto, che metteva al centro del suo programma la ripresa economica, una guerra, che si annuncia lunga e senza il supporto degli alleati, costituisce un enorme problema, sia di consenso che di reperimento delle risorse necessarie. Anche la soluzione di accelerare ciò che era stato previsto dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, appare ormai un ripiego con poche possibilità di riuscita. La perdita di tempo del mondo occidentale di fronte al problema del Shael, la cronica incapacità di coordinamento dell'Unione Europea e le beghe con la NATO, non possono giustificare l'isolamento francese: a prescindere dal risultato del combattimento la perdita di credibilità della UE rappresenta un danno ben più grave, sia per la lotta al terrorismo, che per le speranze di un avanzamento del processo di unificazione.

martedì 15 gennaio 2013

La Francia isolata nella questione del Mali

Nell'operazione di polizia internazionale, che la Francia ha intrapreso contro i ribelli, che hanno occupato il nord del Mali, Parigi è rimasta sostanzialmente isolata. Aldilà di un appoggio politico proveniente da NATO ed UE, l'aiuto materiale si è limitato alla sola disponibilità logistica, nel trasporto di materiali da parte di Germania, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca e Canada. La questione, invece, riguarda tutti i paesi occidentali e sopratutto quelli che si affacciano sul Mediterraneo, dato che si corre il grave rischio, che, immediatamente dietro la sponda meridionale del bacino, si vada creando una entità statale da iscrivere subito alla lista degli stati canaglia. L'insieme di forze eterogeneo che ha occupato il nord del paese africano del Mali è tenuto insieme in maniera molto forte dal comune sentimento religioso, che propende in modo netto verso il fondamentalismo islamico, tanto estremista da potere favorire l'insediamento dei terroristi radicali nel paese. Concretamente potrebbe crearsi una sorta di zona franca per l'estremismo religioso, capace di creare basi militari e logistiche insieme a centri di reclutamento ed addestramento, il tutto relativamente molto vicino all'Europa. Inoltre il ritrovamento di munizioni di fabbricazione iraniana, usate dai ribelli, costituisce un indizio sugli possibili sviluppi delle relazioni internazionali di questa entità, anche se ciò non costituisce una prova; tuttavia per Teheran, sempre alla ricerca di nuovi partner in appoggio alla sua strategia anti occidentale, la necessità di allacciare rapporti con queste forze potrebbe rimpiazzare la sempre più probabile perdita del suo principale alleato, la Siria, dove il regime pare avere ormai il tempo contato. Militarmente già ora gli occupanti del Mali settentrionale hanno dato prova di essere tutt'altro che sprovveduti, potendo contare su parte degli arsenali di Gheddafi, sulla profonda conoscenza del territorio, grazie ai ribelli Tuareg e sull'esperienza militare di Al Qaeda. All'inizio di questa vicenda questi elementi sono stati sottovalutati e nell'indifferenza generale l'autorità legittima del Mali ha perso il suo territorio. Una delle ragioni che ha indotto il governo francese ad agire èstato il tentativo dei ribelli di penetrare nella parte ancora in mano al governo legittimo, tentativo peraltro scongiurato dalla reazione delle truppe regolari; ma la condizione strutturale dell'esercito del Mali non assicura la certezza, che, nel caso di un nuovo attacco, possa reggere di nuovo alla forza d'urto dei ribelli. Tale eventualità potrebbe aprire la strada alla conquista dell'intero paese con ricadute ulteriori sui paesi vicini. Quella che potrebbe venirsi a creare sarebbe una situazione simile all'Afghanistan all'interno del continente africano. Questa possibilità dovrebbe allarmare prima di tutto le Nazioni Unite, l'Africa si trova al centro di uno sviluppo economico in crescendo ed anche la situazione sociale, pur entro i limiti di una difficoltà endemica, sta ottenendo dei risultati significativi. Al contrario un paese in cui vigono le leggi coraniche, applicate in modo ferreo ed ottuso, come accade nella parte settentrionale del Mali, dove le vittime per l'applicazione integrale della sharia stanno crescendo, rappresenta un pericolo ed un ostacolo per il progresso africano. Peraltro il Consiglio di sicurezza ha già approvato una risoluzione che riconosce la necessità dell'intervento militare contro le forze che occupano il Mali del nord, risoluzione che è però insufficiente perchè, innanzitutto non prevede una efficacia temporale, non fissando, cioè, il tempo esatto di intervento e poi perchè affida il compito militare esclusivamente a forze africane da formare ed armare. Dall'altro versante, se si può comprendere la titubanza degli USA, appena in procinto di uscire dalla palude afghana, meno chiara è la posizione dell'Unione Europea, che perde una occasione di dimostrare di essere un soggetto internazionale in modo completo. L'assenza di una politica unitaria, data da divergenze irrisolte su vasta scala, ma in questo caso specificatamente sulla politica estera e di organismi direttivi non coperti dal potere decisionale a causa di norme mai scritte, mette in evidenza come Bruxelles sia sempre più inadatta ad un ruolo internazionale di primo piano. Sulla Francia, per ora, resta così il compito esclusivo di fermare l'avanzata del fondamentalismo islamico vicino ai confini del vecchio continente. Resta la speranza di un impegno della NATO, che potrebbe essere ratificato i prossimi giorni, ma la lentezza con la quale è stato affrontato l'argomento rappresenta un brutto segnale per la tanto decantata lotta al terrorismo.

venerdì 11 gennaio 2013

Il Giappone aumenta il suo budget militare

Nonostante un debito pubblico che sfiora la quota del 240% del PIL il Giappone del nuovo premier Shinzo Abe, interrompe il congelamento della spesa militare, praticamente fermo da un decennio, investendo circa 45.000 milioni di euro nel bilancio per la difesa. Del resto, nelle intenzioni e nei programmi del nuovo capo del governo di Tokyo vi è anche la revisione costituzionale della norma, in vigore dalla fine della seconda guerra mondiale, elaborata con chiari intenti pacifisti imposti dagli Stati Uniti, della trasformazione delle forze di autodifesa in esercito regolare. Il bilancio militare giapponese, pur con i vincoli imposti dalla norma che si vuole modificare, era già il sesto più grande del mondo. Quella che viene impressa dal neo premier, espressione della parte politicamente conservatrice del paese, è una svolta militarista in gran parte annunciata, che, però sta subendo una accelerata sostanziale, in parte dettata per mascherare le grandi difficoltà economiche di natura interna ed in parte per sostenere, con i fatti, la natura nazionalistica del programma di governo, minacciata dalla questione con la Cina per le isole contese nel Mare Cinese Orientale, per il timore dell'escalation nucleare nord coreana e per l'ulteriore contesa territoriale con la Corea del Sud, ancora una volta per un piccolo arcipelago. Il confronto con Pechino è quello che più assilla il governo giapponese, limitato finora a diatribe diplomatiche, che hanno assunto però toni molto intensi, entrambi gli stati hanno, infatti, ribadito la propria sovranità sulle isole Senkaku o Diaoyu. Dalla parte cinese, va detto, che vi è una situazione ed un atteggiamento speculare: a Pechino si è insediato un nuovo esecutivo, che ha individuato nel dominio marino una chiave economica per il suo sviluppo, sia dal punto di vista dell'individuazione e dello sfruttamento dei giacimenti di materie prime, che del controllo delle vie di comunicazione. Per sostenere tale priorità anche la Cina ha imperniato la sua strategia sullo sviluppo delle sue forze armate con un consistente aumento del budget previsto, sopratutto per la marina militare. Questa linea non è sfuggita al Giappone che ha previsto l'ammodernamento del suo arsenale missilistico, degli aerei da combattimento e degli elicotteri da pattugliamento, tutti armamenti volti a contrastare dall'aria lo strapotere che la cina intende mettere in campo. Quella che si prepara è una guerra dei nervi, un equilibrio instabile dietro cui stanno due governi che non pare vogliano impostare le loro relazioni sulla pura dialettica, ma su di un dialogo imperniato sulle rispettive minacce. Per ora la diatriba è vissuta di scaramucce più che altro spettacolari, atti dimostrativi tesi a provocazioni, spesso fine a se stesse, ma l'ultima incursione di navi cinesi nelle acque delle isole contese ha innalzato una pressione già alta dietro le scrivanie dei rispettivi governi. La convocazione dell'ambasciatore cinese a Tokyo segna un nuovo gradino dello sviluppo di una questione dove i due esecutivi non pare vogliano cedere per non intaccare il loro prestigio interno.