Politica Internazionale

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giovedì 24 gennaio 2013

La strategia inglese per uscire dalla UE

David Cameron, per mascherare i risultati insufficienti del suo governo rinforza il suo atteggiamento euroscettico, che, implicitamente, da le colpe alla UE, o meglio alle sue regole, della mancata realizzazione delle promesse elettorali del premier inglese. La decisione di indire un referendum sulla continuazione della partecipazione del Regno Unito all'Unione Europea, si colloca, quindi, in questo percorso, che ha anche la doppia valenza di cercare di intercettare il sempre più diffuso sentimento contrario all'Europa, presente nel popolo inglese. Il punto nevralgico, al di fuori delle questioni interne del Regno Unito, è però, che tale operazione rischia di portare maggiore divisione all'interno degli altri membri del consesso europeo. Non si può credere che ciò sia soltanto un caso: Cameron, per i suoi interessi di bottega, non esita a mettere a rischio i già precari equilibri di una unione sovranazionale alle prese con una gran quantità di temi da risolvere, senza, peraltro, avere a disposizione gli strumenti necessari. Solleticando gli altri membri che soffrono di scetticismo verso la UE, si può ragionevolmente pensare all'Ungheria o alla Polonia, o soltanto acuendo quelle differenze di visione, presenti nei membri più importanti e fedeli all'idea unitaria, come Francia e Germania, la strategia inglese punta a creare una situazione di caos ed incertezza, che possa permettere al governo inglese di guadagnare tempo per aspettare l'evoluzione della crisi economica ed il conseguente da farsi. L'ambiguità è il tratto caratteristico che da tempo contraddistingue l'azione inglese nei confronti della UE: sganciarsi dagli impegni più gravosi, mantenendo i migliori vantaggi dell'appartenenza ad una unione così vasta, ma mai come in questo periodo questo aspetto è stato esagerato nelle relazioni con Bruxelles. Per adesso Londra ha usato una politica sempre in equilibrio, tale da scontentare molti membri ma non spinta in modo tale da generare situazioni peggiori, tuttavia ora si ha l'impressione che la corda, troppo tirata, stia per spezzarsi. In Francia le speranze di tenere ancora ancorata alla piattaforma continentale l'isola britannica si scontrano, pur nella consapevolezza della necessità di mantenere lo spirito europeo nelle reciproche differenze, con il senso di fastidio per l'attesa delle concrete richieste inglesi, peraltro mai pronunciate. La Germania, viceversa, mostra un atteggiamento più pragmatico, mantenendo inalterata l'intenzione di procedere con il processo di unificazione senza aspettare le intenzioni del Regno Unito. Ma su questo aspetto rischia proprio di cadere la strategia di Cameron: il continuo ondeggiare dell'atteggiamento inglese, che minaccia il referendum, lasciando intendere la volontà di uscire dalla UE, senza presentare le sue richieste a Bruxelles, può creare la fine della pazienza del resto dell'Unione Europea. In realtà questo elenco di richieste non esiste concretamente ma è rappresentato dall'intenzione e probabilmente dalla necessità interna, di rinegoziare il trattato di Lisbona. Dal punto di vista legislativo, questo trattato può essere modificato in qualsiasi momento, a condizione che le modifiche siano approvate da tutte le capitali europee. Si capisce che una tale trattativa è troppo laboriosa, specialmente in un momento come quello attuale, dove la portata della crisi e le necessità politiche europee impongono scelte di veloce esecuzione (che comunque non sono garantite neanche col trattato di Lisbona); impegnare la UE in un tale sforzo significherebbe soltanto togliere energie per processi semplicemente più necessari. Non è possibile che Londra ignori queste esigenze è soltanto che, se venisse imboccata tale strada, le esigenze inglesi avrebbero tutto da guadagnare in un periodo di inevitabile immobilismo delle istituzioni europee. Infatti nessuno vuole riaffrontare quanto già deciso escluso il Regno Unito. La decisione negativa a questa richiesta inglese potrebbe però portare lo stesso ad un blocco dell'attività della UE, nel caso Londra non ne uscisse autonomamente e scegliendo una strada di ostruzionismo interno. Si tratta di una possibilità poco probabile, perchè il lavoro del membro più importate, la Germania e sostenuto dagli altri paesi principali, per cercare una unione maggiore, non potrebbe essere certamente vanificato dalle azion inglesi. A quel punto per Londra non ci sarebbe che l'uscita, per scelta o per esclusione, dall'Unione Europea ed il problema insorgente diventerebbero le relazioni tra Bruxelles e Londra. Alcuni hanno già pensato ad una forma di federazione morbida, che non permettesse un distacco traumatico tra le due parti, tuttavia, tale tipo di rapporto, la cui collocazione legislativa è tutta da pensare, dovrà essere vagliato sulla base del comportamento inglese. La reale intenzione di Cameron è quella di avere mani libere su aspetti che riguardano la finanza, principale fonte di guadagno del Regno Unito, se ciò potesse generare fonti di contrasto con la UE, quest'ultima dovrebbe assumere ritorsioni del caso, come arrivare ad imporre imposte più alte sulle operazioni finanziarie con l'Inghilterra. Si tratta soltanto di un esempio, che può fornire un possibile scenario futuro sui rapporti tra le due parti. D'altra parte, al momento attuale, una permanenza inglese dentro la UE è veramente difficile da pronosticare, i vincoli più stringenti sulla sovranità dei singoli stati saranno l'inevitabile sviluppo dell'avanzamento del processo di unificazione ed, a meno di una svolta totale nella direzione della politica e, sopratutto, dell'impostazione politica della Gran Bretagna, le strade tra Londra e Bruxelles sono destinate a dividersi.

Israele: il nuovo scenario dopo il voto

La maggiore conseguenza della vittoria insufficiente di Benjamin Netanyahu e quindi del risultato elettorale israeliano è lo spostamento dal centro di quella che sarà l'azione politica del prossimo governo israeliano della questione internazionale verso una maggiore concentrazione sui problemi interni del paese, sopratutto di natura economica. L'accresciuto numero di votanti, fenomeno non atteso in queste dimensioni, che ha sostanzialmente determinato lo spostamento della centralità dei temi sui quali viene richiesta maggiore attenzione ha determinato nuovi equilibri all'interno del parlamento del paese. Benjamin Netanyahu, quale leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di voti, sarà ancora il primo ministro di Israele, ma la sua forza politica non sarà la stessa ed i suoi obiettivi dovranno cambiare se vorrà assicurare stabilità alla compagine governativa ed al paese. Yair Lapid, il vero vincitore di questa tornata elettorale, a capo di una formazione di centro che si chiama "C'è un futuro" ha assicurato il suo appoggio al premier uscente per la formazione della nuova coalizione di governo, a patto, appunto, che il nuovo esecutivo si occupi della deriva della classe media, colpita dalla crisi economica, e dia un maggiore impegno sui temi sociali. Nel suo discorso, tenuto dopo la proclamazione dei risultati, Netanyahu ha dato poco spazio ai problemi con i palestinesi, lasciando spazio soltanto alla questione della bomba iraniana, che vede però Lapid contrario a qualsiasi azione unilaterale, ma la maggiore rilevanza è stata per i tre cambiamenti sostanziali, che intende fare in politica interna: il cambiamento dei metodi di governo, una maggiore eguaglianza ed una politica degli alloggi a prezzi più accessibili; questi argomenti ricalcano i punti principali del programma proposto da Lapid, che, a dire il vero, comprendeva anche la leva obbligatoria per i giovani religiosi ultra ortodossi, tenuti finora al riparo dalle formazioni di estrema destra presenti nei governi precedenti. Il risultato del voto, al fine delle alchimie della composizione del governo, ha determinato una situazione in cui non si può governare senza Netanyahu, ma neppure senza Lapid, ed è più il primo che ha bisogno del secondo, come ha già evidenziato la necessità di porre al centro le questioni interne. Il calendario politico dice, che dopo la pubblicazione ufficiale dei risultati, il capo dello stato Shimon Peres, avrà sette giorni per designare colui il quale dovrà cercare la maggioranza per la formazione del governo, verosimilmente Netanyahu, che, a sua volta, dovrà formare il governo entro quattordici giorni. Data la grave immagine internazionale di Israele, una delle possibilità è che proprio Lapid vada a sedere sulla scomoda poltrona di ministro degli esteri, anche se non pare sufficiente un volto telegenico per fare riacquistare credibilità ad un paese che ha ora necessità di compiere degli atti verso cui si è mostrato sempre restio. Israele può uscire dall'isolamento in cui si è andato a cacciare soltanto se intraprende un reale e sopratutto leale percorso di pacificazione con i palestinesi, il cui risultato finale deve essere l'accettazione ed il riconoscimento dello stato palestinese. Ma la presenza probabile di Netanyahu ancora al posto di primo ministro rende scettici gli ambienti palestinesi, anche se l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha dichiarato di essere pronta a lavorare con qualsiasi governo israeliano che riconosca lo Stato della Palestina. Ed in effetti sarebbe questo il primo passo atteso dalla platea del teatro internazionale da parte del nuovo governo di Israele, in modo da fare ripartire in modo concreto e, possibilmente, definitivo l'annoso e problematico processo di pace.

mercoledì 23 gennaio 2013

L'Egitto non approva l'intervento nel Mali

Nel Mali vanno avanti le operazioni militari, con l'avanzata congiunta delle forze governative e di quelle francesi, che hanno registrato la ripresa del controllo delle città di Diabalay e Douentza. Il prossimo obiettivo è quello di riguadagnare la sovranità su Timbuctu, sulla cui area sono iniziati i raid aerei, propedeutici all'avanzata di terra. Il principale effetto delle azioni dal cielo è stato il ripiegamento dei miliziani fondamentalisti islamici, che stanno arretrando le proprie posizioni nella parte più settentrionale del Mali, praticamente molto vicino al confine con l'Algeria. Se, da un lato questo fatto è il segnale dell'inizio della probabile sconfitta dei Jihadisti nel territorio maliano, la nuova situazione potrebbe aprire un nuovo scenario di guerra capace di coinvolgere ancor più direttamente l'Algeria, dopo il sanguinoso episodio dell'attacco al sito per l'estrazione di gas di In Amenas. All'interno dell'opinione pubblica algerina è in corso un dibattito, molto sentito, sui metodi e sulla gestione da parte del governo di Algeri della vicenda, sopratutto in relazione alla concessione, per la prima volta nella storia del paese, dello spazio aereo per l'operazione militare in Mali da parte delle forze armate francesi; si comprende molto bene che l'argomento sia delicato per il significato intrinseco dell'avallo all'intervento di Algeri e per la natura della Francia, quale ex paese coloniale proprio dell'Algeria. Uno dei sentimenti dominanti è il timore di essere coinvolti in una guerra capace di riaprire vecchie ferite nel rapporto con i gruppi oltranzisti islamici, che potrebbero ripetere, sotto forma di attentati, l'attacco terroristico dei giorni scorsi, facendo entrare il paese in una spirale di violenza e di tensione. Questi dubbi, però non riguardano solo l'opinione pubblica algerina, dubbi che, per ora, non riguardano il governo di Algeri, ben conscio che una possibile espansione del fenomeno terroristico rappresenta un pericolo da evitare, ma che sono stati espressi in forma ufficiale dallo stato egiziano. Il Presidente Mohammed Mursi ha espresso la sua contrarietà all'intervento militare, che potrebbe destabilizzare la regione grazie all'aumento della conflittualità e della possibilità della divisione dell'Africa settentrionale da quella centrale, isolate reciprocamente dal conflitto. Nella visione presentata da Mursi, manca, però, un disegno alternativo per dirimere la situazione e ciò rende le dichiarazioni del Presidente egiziano alquanto sospettose. Il legame sempre più stretto della massima carica de Il Cairo con i salafiti induce a pensare che la sua posizione, in relazione alle vicende del Mali, sia funzionale al tentativo di guadagnare influenza nel campo dell'islamismo fondamentalista internazionale adiacente all'estremismo islamico, dopo che le vicende interne del paese delle piramidi hanno dimostrato come si sia sviluppata una tendenza della parte al governo, sempre più affine a movimenti caratterizzati da ideologie teocratiche molto radicali. Un'altra possibilità è che le dichiarazioni di Mursi siano eterodirette dai gruppi che lo sostengono al potere, in ogni caso, una ipotesi non esclude l'altra. Quello che interessa rilevare è la sempre maggiore distanza dall'occidente di quello che è ritenuto il paese arabo più influente nella politica internazionale, anche l'Egitto dovrebbe essere preoccupato di una crescita dei gruppi terroristici operanti, alla fine, a poca distanza dai suoi confini. Ciò, però, non emerge dalla contrarietà dimostrata con le dichiarazioni di Mursi, che hanno riguardato l'operazione in se stessa e non , ad esempio, l'intervento di un paese occidentale che poteva richiamare gli spettri del colonialismo.

lunedì 21 gennaio 2013

Lo sviluppo in Africa del terrorismo islamico

Il ritorno del terrorismo islamico in Algeria, dove era nato, circa venti anni prima, non costituisce una coincidenza. Malgrado le smentite delle autorità algerine, il fenomeno, pur essendo ancora lontano dall'intensità degli anni novanta, quando il monopolio della violenza era esercitato dai Gruppi Islamici Armati ed il paese era sull'orlo della guerra civile, sta avendo un incremento non irrilevante. Tra il 2001 ed il 2012 sono stati ben 938 gli attacchi terroristici di matrice islamica, concentrati al di fuori delle grandi città, controllate dallo stato, ed in particolare avvenuti nelle montagne della Cabilia ed, in maniera minore nel deserto del Sahara. Ai Gruppi Islamici Armati è subentrato il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, fondato nel 2006 e subito accolto nella galassia delle organizzazioni affiliate a Osama Bin Laden. Si tratta di gruppi di salafiti algerini comandati da Abdelmalek Droukdel, che li dirige probabilmente da qualche valle nascosta nelle montagne della Cabilia. Da lì la sua influenza si è diffusa nella gran parte del territorio del Sahel: in Mauritania, Niger ed in particolar modo nel Mali, dove, nella parte settentrionale del paese, i combattenti islamici sono stati spinti dalle offensive dell'esercito di Algeri. Questo territorio, dove non viene praticamente esercitata alcuna sovranità legale, ha permesso ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico di incrementare notevolmente le proprie ricchezze, grazie ad attività illecite come il contrabbando, l'immigrazione clandestina, il traffico di droga ed, in ultimo, la pratica del rapimento di occidentali, rilasciati dietro sostanziosi riscatti, pagati dagli stati di appartenenza dei rapiti. Nella sua ascesa al potere il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico è stato favorito da fattori esterni alla sua azione, che ne hanno facilitato l'accresciuta influenza, come la guerra in Libia, che ha permesso di liberare notevoli quantitativi di armamenti, nascosti nei depositi di Gheddafi e la spinta autonomistica dei Tuareg del Mali, che ha permesso di stringere tra i due movimenti un'alleanza tattica, unendo le forze contro il debole governo centrale di Bamako. Quest'ultimo fattore ha determinato la conquista del nord del Mali, un territorio molto vasto ma scarsamente popolato, il cui controllo ha consentito una libertà di azione ancora maggiore nelle attività illegali. Proprio la volontà di aumentare la superficie controllata, con un'azione militare sventata dalle truppe del Mali, ha obbligato Parigi ad intervenire e ciò è stata la causa della rappresaglia consistita nell'assalto all'impianto di produzione di gas in Algeria. Il rischio che questi episodi si ripetano è altamente concreto, l'azione dei gruppi terroristici si muove in territori profondamente segnati dalla povertà, dove ottenere il consenso della poplazione è relativamente facile, anche se l'instaurazione della legge coranica, ha suscitato molta contrarietà, per la ferocia della sua applicazione. Ma l'intendimento di estendere a tutto il Shael l'influenza del terrorismo islamico è un programma di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, anche se, proprio a causa della grande estensione territoriale, i gruppi terroristici dovrebbero subire una divisione cellulare, che potrebbe determinare la fine della struttura piramidale di comando; ciò significa andare incontro ad un minore controllo centrale, che in una potenziale fase repressiva potrebbe complicare la lotta al terrorismo, per la maggiore presenza di centri di comando, comunque differenti. Un'altro aspetto è la possibile corsa ad attentati ed azioni dimostrative per ingaggiare una sorta di lotta per avere una qualche supremazia di alcuni gruppi rispetto ad altri. Diventa così necessaria una azione di contenimento, che non può più, purtroppo, essere preventiva e che deve essere coordinata in associazione con i governi legittimi, dagli stati occidentali, per impedire il dilagare dell'estremismo religioso. La caduta del controllo dei gruppi terroristici dovuta al successo delle primavere arabe, con la conseguente caduta dei regimi che detenevano il potere politico nei rispettivi paesi, rappresenta il lato negativo dei processi di democratizzazione dei paesi arabi, non del tutto previsto dai paesi occidentali, che ora devono assolutamente correre ai ripari perchè la zona interessata è situata immediatemente dietro alla sponda meridionale del Mediterraneo.

Israele al voto: favorita la destra

Alla vigilia del voto israeliano, che eleggerà il diciannovesimo parlamento della sua esistenza come stato sovrano, i cinque milioni di cittadini chiamati alle urne potranno scegliere tra 34 partiti. Dopo otto settimane di campagna elettorale le previsioni forniscono un quadro possibile molto simile a quello attuale, caratterizzato dalla predominanza della destra. Se tale previsione risulterà veritiera Benyamin Netanyahu, l'attuale Primo Ministro, sarà riconfermato per la terza volta nella massima carica del paese. La principale novità nel panorama dei partiti israeliani, è costituita dalla potenzialità della nuova lista, che si colloca all'estrema destra, Habait Hayehudi, guidata da Naftali Bennett, ex consigliere di Netanyahu, che presenta un programma basato sulla costruzione del grande Israele basato sui confini della Bibbia, con la conseguente negazione dalla costituzione dello stato palestinese ed il rifiuto del processo di pace con gli arabi. Questa lista, pur essendo parte dell'alleanza che dovrà portare alla riconferma l'attuale primo ministro, ha già eroso consensi elettorali al partito di Netanyahu, presentandosi come un movimento di destra alternativa, contraddistinto dalla rigida intransigenza nei confronti dei rapporti con i palestinesi. Il successo accreditato ad Habait Hayehudi fornisce chiaramente il polso della situazione nel paese della stella di David: la maggioranza della popolazione non è sostanzialmente favorevole ad un processo di pace che sancisca la costituzione dello stato palestinese, la soluzione preferita dagli americani, con i quali si prevede, in caso di vittoria dell'attuale amministrazione insediata a Tel Aviv, rapporti più che pessimi, con sviluppi sulpiano delle relazioni internazionali difficilmente prevedibili. L'impronta data da Obama al suo governo, con le nomine principali non gradite ad Israele, promettono tempi difficili tra i due paesi, con relazioni, che, verosimilmente, subiranno ulteriori raffreddamenti. Tuttavia anche per Israele la questione palestinese sembra passare in secondo piano a causa della difficile congiuntura economica, a parte la parentesi dell'operazione di Gaza, compiuta a Novembre, le questioni economico sociali mantengono il primato nelle discussioni, e perfino la paura di un attacco iraniano è superata in nome della richiesta di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Questo aspetto della campagna elettorale potrebbe aprire margini di prospettiva per il principale partito di opposizione, il Partito Laburista, guidato da Shelly Yachimovich, che punta in special modo sul voto femminile. Ma la crisi potrebbe essere anche una opportunità per Netanyahu, grazie alla quale difendere la sua politica in favore dell'espansione delle colonie nei territori palestinesi, per creare sviluppo a favore degli israeliani. Questa argomentazione usata più volte in modo latente potrebbe salire nell'importanza strategica della campagna elettorale, come dimostrato più volte dall'azione politica del primo ministro, che, a parte le dichiarazioni di facciata, per la verità sempre meno convincenti, ha sempre agito nella direzione opposta del processo di pace, non condiviso e neppure perseguito.

venerdì 18 gennaio 2013

L'occidente diviso di fronte al terrorismo

Un consuntivo sulle ragioni dell'affermazione del movimento terroristico islamico mondiale non è una priorità ma una necessità. I modi per affrontare il fenomeno inaugurati dalla presidenza Bush figlio, non hanno dato i frutti sperati; Obama si è ritrovato a gestire l'Iraq, l'Afghanistan con il corollario della questione iraniana, impostati in una logica già fuori dal tempo presente; ma nonostante l'uscita di scena delle truppe americane, già effettuata, in corso o programmata, la situazione dell'estremismo islamico pare in crescita, i risultati, cioè, sono andati nel verso contrario delle attese, malgrado i tragici bilanci in vite umane e lo sforzo economico sostenuto. L'errore di fondo è stato fatto in partenza: gli USA, nonostante la propria potenza, che resta la prima al mondo, non potevano sostenere da soli il ruolo autoassegnato di gendarme mondiale. La fine dell'equilibrio del terrore, che giustificava il conflitto est-ovest, con la caduta del comunismo ha spostato l'asse del confronto mondiale apparentemente di novanta gradi, creando il confronto nord-sud. Tuttavia questa disamina è troppo semplicistica, se era vero che prima della caduta dell'impero sovietico la monopolizzazione delle relazioni internazionali si poteva racchiudere in modo veritiero tra oriente ed occidente del mondo, la fase attuale, risultato di più sommovimenti internazionali, non può essere inquadrata soltanto nella banalizzazione del confronto tra settentrione e meridione del mondo, dove per settentrione si individuano i paesi ricchi o ad economia avanzata e per meridione i paesi poveri o con economia arretrata ed in via di sviluppo. La molteplicità delle situazioni che si sono venute a creare non può consentire un solo attore principale senza soggetti, che possano almeno coadiuvarlo o rimpiazzarlo in determinate situazioni. La Russia, che forte dell'esperienza internazionale maturata negli anni sovietici e con un apparato militare esteso, supportato da ingenti ricchezze economiche, poteva rappresentare un attore capace di giocare a tutto campo nella diplomazia mondiale, non ha saputo ritagliarsi un ruolo nuovo nel panorama internazionale dopo l'avvento della democrazia; Mosca si è chiusa in una sorta di isolamento tra quelli che erano i confini dell'URSS, limitandosi a diventare una potenza regionale. La Cina, la nuova vera potenza mondiale, è alle prese con la profonda trasformazione tutta puntata sull'economia, ha come linea guida in politica internazionale il principio della non ingerenza negli affari interni a patto che questi non interferiscano con le proprie mire economiche e comunque la statura diplomatica attuale è ancora ben lontana da consentirgli di recitare un ruolo di leadership mondiale. Della UE tanto è stato detto, la composizione dei paesi che la formano potrebbe consentire di ottenere un risultato potenzialmente consistente, se non dal punto di vista militare, certamente in quello negoziale e diplomatico, tuttavia le profonde divisioni sommate all'incapacità e all'inconsistenza di Bruxelles fanno dell'Unione Europea una grande incompiuta, un soggetto senza una autonomia che necessita sempre più della stampella della NATO. Non resta molto altro se non l'ONU bloccato da un Consiglio di sicurezza dove si arena qualsiasi pratica in arrivo, per l'assurda regola dell'unanimità ed ancora più paralizzato dalla mancanza di una riforma che modelli il massimo organismo sovranazionale sulle esigenze attuali e non su quelle del secondo dopoguerra. In questo quadro le tensioni generate dalle condizioni di miseria e povertà di cui soffrono masse enormi di persone hanno trovato sfogo incanalandosi nella religione; l'affermazione dell'Islam non è stata compresa ancora del tutto neppure ora, tra le potenze occidentali; basti vedere quanta speranza, mal riposta, è stata messa nelle primavere arabe che, anzichè democrazie, hanno generato specie di teocrazie riadattate sulle esigenze del paese dove si affermavano. Quello che era il sud del mondo e che il sistema coloniale e di sfruttamento continuato dopo la fine delle colonie aveva relegato ad una considerazione di minore attenzione e quindi isolato dalla crescita, ha covato a lungo un'avversione ed un astio verso l'occidente, che soltanto le dittature hanno potuto tenere a freno con politiche fatte di azioni di allontanamento ed avvicinamento verso i governi occidentali. La strategia di Obama, di seguire un indirizzo di basso profilo, pur giusta è ormai arrivata in ritardo e sopratutto non ha i giusti contrappesi, così in questo quadro vengono lasciate questioni a metà, come la Libia, che genera altri scenari conseguenti, mentre non si fa nulla per risolvere uno degli alibi fondanti, ma usato soltanto in maniera funzionale, dell'estremismo islamico consistente nella mancata creazione dello stato palestinese. I fatti del Mali discendono direttamente da questa situazione e purtroppo l'impressione è quella di essere soltanto all'inizio. La Francia ha cercato, forse maldestramente, di supplire all'assenza di una autorità più forte di quella di Parigi ed ha operato in un contesto di assoluta solitudine, mostrando così la reale debolezza occidentale di fronte al terrorismo: quella di un mondo occidentale che si presenta diviso ed in accordo soltanto a parole, un mondo che, per adesso, è sicuro tra i suoi confini, ma che è incapace di produrre una visione che vada oltre le proprie mura per accordarsi con movimenti sociali con i quali finirà inevitabilmente per scontrarsi.

India: il caso dei marinai italiani ad una svolta

La vicenda dei due italiani appartenenti alla marina militare, accusati in India di avere ucciso due pescatori dello stato del Kerala, durante l'esercizio delle loro funzioni di scorta armata anti pirateria su di una nave commerciale italiana, è ad un punto di svolta. Lo stato indiano, in palese violazione della legislazione internazionale, dato che il fatto era accaduto in acque internazionali, aveva costretto la nave ad entrare nelle acque territoriali indiane ed aveva arrestato i due militari. Sullo sfondo della vicenda, a prescindere da qualunque giudizio di merito sull'accaduto, erano presenti tensioni politiche interne allo stato indiano, che avevano probabilmente mosso il sistema giudiziario a prendere una decisione funzionale ad un uso politico. La questione non era irrilevante, un fatto colposo commesso in acque internazionali compete alla giurisdizione del paese per il quale la nave, teatro del fatto stesso, batte bandiera. Insomma all'Italia veniva sottratta in modo arbitrario una questione giuridica a lei esclusivamente competente. La pericolosità della creazione di un tale precedente, che nell'ambito del diritto internazionale non costituisce cosa da prendere alla leggera, è stata sottovalutata dagli organismi internazionali, che hanno lasciato la contesa ad Italia ed India. Nelle ultime ore la Corte suprema indiana ha, però, rovesciato, seppure in parte, l'indirizzo giuridico dato dal tribunale del Kerala. Intanto è stata dichiarata l'incompetenza della corte dello stato indiano ed il caso è stato trasferito ad un tribunale speciale di prossima costituzione, con sede nella capitale indiana. Questa soluzione si gioca su di un confine giuridico molto sottile: da un lato viene riconosciuto che il fatto è avvenuto in acque internazionali in maniera ufficiale, ma dall'altro lato viene negato il godimento dell'immunità sovrana per l'esercizio della funzione di sicurezza svolta dai marinai italiani sulla nave commerciale, fattore decisivo per l'applicazione della extraterritorialità e quindi l'applicazione della giurisdizione di Roma. Si capisce che l'India tenta di mettere riparo alla violazione palese del diritto internazionale perpetrata dai giudici del Kerala, senza però arrivare a sconfessare in modo toale la decisione, per non incorrere nell'alterazione di equilibri politici locali molto precari. La sensazione è che a Nuova Delhi, sede del tribunale speciale, la prassi del diritto internazionale possa essere ripristinata, ma in attesa del giudizio definitivo sarebbe necessario che a livello sovranazionale le questioni che possono alterare la consuetudine della legislazione internazionale potessero trovare una codificazione normativa più certa. Tale necessità va ben oltre la normale esigenza della certezza del diritto, ma in un contesto sempre più globalizzato diventa una esigenza politica fondamentale, sopratutto in relazione all'insorgenza, sempre più frequente di fenomeni, come la pirateria internazionale, che minacciano, anche indirettamente, la convivenza tra gli stati.