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mercoledì 11 gennaio 2023

L'Alleanza Atlantica offre garanzie a Finlandia e Svezia, anche per rafforzare l'Unione Europea

 La questione dell’adesione all’Alleanza Atlantica, da parte di Finlandia e Svezia, continua ad essere un problema per l’avversione della Turchia, che richiede contropartite da parte di Helsinki e Stoccolma, che non possono essere garantite dai vertici dell’Alleanza; nonostante questa consapevolezza il Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Stoltenberg, si è detto ottimista e fiducioso al riguardo della conclusione positiva del processo di adesione. Le dichiarazioni di ottimismo sono avvenute durante il vertice con la Presidente della Commissione e del Presidente del Consiglio dell’Unione Europea, nell’ambito della firma della terza dichiarazione di aiuto a favore del sostegno militare all’Ucraina; tuttavia, nonostante la fiducia nell’inclusione nell’Alleanza di Finlandia e Svezia, la situazione di stallo non è stata sbloccata. La conclusione positiva del processo di adesione all’Alleanza Atlantica viene vista in un’ottica di importanza storica e politica molto rilevante, per la tradizione di neutralità dei due paesi e per la loro posizione strategica, all’interno della contrapposizione alle velleità russe contro l’Europa: proprio per queste valutazioni la ratifica dell’adesione è stata firmata da 28 membri e rifiutata soltanto da Turchia ed Ungheria. Le ragioni dei due stati contrari sono differenti: Ankara non gradisce il rifugio fornito dai paesi nordici ad esponenti curdi, andando, quindi, a sindacare ragioni di politica interna degli stati candidati, mentre su Budapest il sospetto è l’atteggiamento favorevole al presidente russo, più volte manifestato ed origine di profondi dissidi anche in ambito dell’Unione Europea. La Svezia e la Finlandia hanno cercato di compiere atti che potessero soddisfare la Turchia: come la limitazione delle attività dei curdi sui loro territori, inoltre Stoccolma ha revocato il divieto della vendita di armi ad Ankara ed ha preso la distanza dalle milizie curdo-siriane, come richiesto dalla Turchia, nonostante il ruolo riconosciuto dai paesi occidentali per la lotta contro lo Stato islamico; tuttavia queste aperture non bastano al presidente Erdogan, che, probabilmente, non può fare concessioni invise al proprio elettorato fino a dopo le elezioni del prossino Giugno. In ogni caso, come ribadito dai vertici della NATO, il rischio di attacco militare russo contro Finlandia e Svezia non è ritenuto possibile proprio per le garanzie fornite fintanto che i due paesi non saranno membri dell’Alleanza; di fatto, quindi, le due nazioni godono già della protezione dell’Alleanza Atlantica a tutti gli effetti come se ne facessero parte in maniera formale ed un eventuale attacco militare implica già una automatica risposta della NATO. L’ultima dichiarazione congiunta tra Unione Europea ed Alleanza Atlantica, ribadisce gli intenti di quelle firmate nel 2016 e nel 2018, ma avviene nel contesto della guerra di aggressione perpetrata dalla Russia e rafforza la posizione di Finlandia e Svezia nel settore euro-atlantico, portando una sostanziale novità politica che, nell’immediato è in funzione anti russa, ma nel futuro promette di avere ulteriori sviluppi oltre quelli militari. La dichiarazione del 2023, quindi, conferma il concetto strategico dell’Alleanza Atlantica, che definisce l’Unione Europea come alleato unico ed essenziale e, su queste basi, ne richiede una integrazione ancora più potenziata, soprattutto nel quadro della strategia comune della difesa e della sicurezza internazionale. Molto importante è il giudizio favorevole verso uno sviluppo autonomo delle strutture di difesa militare dell’Unione Europea, pur sempre all’interno dell’Alleanza Atlantica, tema più volte messo in discussione dal precedente presidente degli Stati Uniti, Trump. Se queste considerazioni hanno un carattere funzionale maggiormente attinente alla situazione contingente, relativa al conflitto della Russia con l’Ucraina, sono stati espressi anche giudizi, in special modo dalla presidente della Commissione dell’Unione Europea, Ursula Von der Leyen, relativi a potenziali situazioni già presenti, ma, che, per il momento, si limitano a conflitti di tipo commerciale, come i rapporti con la Cina. L’evidente volontà di Pechino di rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio, deve mettere in allarme i paesi democratici, che potrebbero rischiare di vedere alterate le loro peculiarità del modo di governare. Solo una maggiore integrazione politica e la creazione di una forza militare autonoma dell’Europa può garantire una capacità di deterrenza da minacce armate o anche da ribaltamenti della politica americana, non più stabile come una volta, possa provocare un decremento del proprio preso all’interno dell’Alleanza Atlantica, dovuto a tendenza isolazioniste già viste nel recente passato statunitense.

giovedì 15 dicembre 2022

Per Schengen ammessa solo la Croazia, escluse Romania e Bulgaria

 La conclusione dell’iter di adesione all’area di Schengen, iniziato nel 2016, termina un processo che è stato contraddistinto da crisi causate dall’attraversamento della via balcanica da oltre un milione di migranti. Il comportamento dei croati, particolarmente violento, ha provocato le critiche della Commissione europea, oltre che di numerose associazioni per i diritti umani. Zagabria deve controllare il secondo confine terrestre più esteso dell’Unione con mezzi limitati, ma questo non giustifica un approccio basato su metodi repressivi, che non giustificano, secondo ben otto organizzazioni non governative molto rilevanti, l’ammissione allo spazio di Schengen, inoltre viene condannata la scarsa sensibilità di Bruxelles per la protezione ed il rispetto dei diritti civili. L’ammissione all’area di Schengen dovrebbe portare benefici sostanziali nel campo del turismo e dei trasporti al paese croato e sarebbe auspicabile che la Commissione europea chiedesse espressamente, in cambio di queste facilitazioni un maggiore impegno nel campo della tutela dei diritti dei migranti ed anche una maggiore disponibilità verso l’accoglienza di quote di migranti, temi verso i quali Zagabria non si è mostrata troppo sensibile fino ad ora.  Se la Croazia ha ottenuto la tanto agognata ammissione a Schengen, Romania e Bulgaria risultano ancora bloccate da veti determinati da motivi funzionali ad altri stati e che sono influenzati da esclusivi interessi di parte, mascherati da ragioni di interessi superiori. La Presidentessa del parlamento europeo e la Commissaria per gli affari interni si sono pronunciate in maniera molto delusa sull’esclusione di Bucarest dall’area di Schengen, richiesta dal paese romeno da undici anni. I grandi responsabili del rifiuto stanno a Vienna e a L’Aja, anche se l’Olanda sembrava più propensa ad un parere favorevole, poi negato all’ultimo. La Romania pareva soddisfare i criteri per l’ammissione a Schengen, come era stato, effettivamente giudicato dalla Commissione ed anche dai deputati del parlamento europeo.  In realtà i veri motivi del rifiuto austriaco sarebbero economici, il governo di Vienna ha denunciato, già in passato, pressioni da parte delle autorità romene sulle aziende austriache ed anche la questione della compagnia di stato petrolifera di Bucarest, che appartiene alla compagnia austriaca è causa di tensione tra i due paesi. In realtà i motivi che sono stati presentati per giustificare il rifiuto di Vienna sono stati relativi ai migranti illegali presenti in Austria nel numero di 75.000, ina quantità dichiarata ingestibile; tuttavia i traffici migratori verso il paese austriaco arrivano per lo più da Croazia e d Ungheria, ma Romania e Bulgaria vengono incolpati per ragioni di politica interna, cioè per soddisfare l’elettorato di destra e per fare notare all’Unione che l’Austria ha molte più richieste di asilo di quante può sostenere. Ancora una volta, quindi, l’Austria si distingue per praticare una politica egoista, che rischia di compromettere i già precari equilibri della coesione europea, piegando gli interessi comunitari ai propri singoli tornaconto; così anche il veto alla Bulgaria, sempre responsabilità di austriaci ed olandesi, rischia di indirizzare il paese bulgaro verso posizioni sempre più vicine alla Russia. L’Olanda motiva il suo no per la mancanza delle condizioni minime del funzionamento dello stato di diritto, un difetto più volte rilevato e segnalato dagli olandesi, per cui l’opposizione all’ingresso della Bulgaria nell’area di Schengen, da parte di Amsterdam, era un fatto atteso; quasi inaspettato, al contrario, il veto proveniente dall’Austria, che ha associato le ragioni relative alle questioni migratorie valevoli per la Romania anche alla nazione bulgara. A questo rifiuto il governo di Sofia ha minacciato ritorsioni contro i due paesi, evidenziando, ancora una volta, come il meccanismo dell’unanimità sia oramai non solo superato ma evidentemente dannoso per la politica dell’Unione. Dal punto di vista strategico, la mancata ammissione della Bulgaria a Schengen, rappresenta un errore grossolano, perché avviene in un paese profondamente bloccato da una crisi istituzionale, dovuta al mancato accordo per la formazione del governo, fin dall’esito elettorale dello scorso ottobre, da parte delle forze di maggioranza filoccidentali e ciò non può che favorire le forze contro l’Unione Europea, che, nello stesso tempo, simpatizzano apertamente per Putin. Austria ed Olanda, quindi, con il rifiuto verso Bulgaria e Romania si assumono la responsabilità del rischio di fare diminuire le simpatie europee in territori contigui al conflitto: una conseguenza non valutata attentamente o soltanto superata da banali interessi di parte. 

mercoledì 7 dicembre 2022

Il difficile processo di ammissione dei paesi balcanici nell'Unione Europea

 La strategia dell’Unione Europea avanza piano e con diversi dubbi circa l’ammissione dei paesi balcanici all’interno della propria organizzazione. L’intenzione principale è quella di sottrarre le nazioni balcaniche dalla potenziale influenza russa, che costringerebbe l’Europa ad una ulteriore presenza di Mosca sui propri confini; dall’altro lato, però, continuano i dubbi sull’esistenza delle condizioni richieste da Bruxelles ed anche sulla reale opportunità di allargare i membri dell’unione a paesi non troppo convinti dei principi europei e ambiziosi principalmente di entrare nel mercato più ricco del mondo e di usufruire delle ricche sovvenzioni dell’Unione Europea. Il rapporto costi benefici dell’ammissione di Bosnia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia si concentra proprio sul dilemma tra l’esigenza di sottrarre all’influenza russa paesi dove la simpatia per Mosca è comunque presente ed elevata e la gestione di paesi che potrebbe assomigliare al rapporto con quelli del patto di Visegrad. Con le attuali norme europee basate sull’unanimità delle decisioni, consentire l’ingresso di nuovi membri, dei quali non si hanno le più complete garanzie, appare un rischio tale in grado di indebolire ancora di più i precari equilibri che governano l’Unione; diverso sarebbe il caso dove il criterio dell’unanimità fosse superata da quello della maggioranza, in grado di rendere impossibile il blocco delle decisioni e consentire una governabilità dell’ente sovranazionale più veloce e non bloccato da esigenze contingenti, anche e soprattutto politiche, dei singoli soggetti statali. Per il momento, quindi, si procede lentamente, con aiuti per combattere la crisi energetica ed altre concessioni pratiche, ma di importanza minore, come l’estensione del roaming telefonico; oltre ad una dichiarazione formale in cui l'Ue ha ribadito "il suo impegno totale e inequivocabile per la prospettiva europea di tutte le paesi dei Balcani occidentali». Tuttavia questi piccoli progressi devono essere visti con un’ottica positiva, perché il vertice tra i paesi candidati e la presidente della Commissione ha prodotto una intenzione di affrontare insieme le difficoltà prodotte dalla guerra ucraina e buone prospettive, seppure nel medio periodo, sul futuro dei rapporti tra le parti. Anche il Presidente del Consiglio europeo ha usato parole di ottimismo per l’entrata in Europa dei paesi baltici, ma con una tempistica non immediata, confermando ancora l’ipotesi di un iter non certo breve, ma, apparentemente, ineluttabile. Per alcuni paesi l’integrazione potrebbe essere più vicina ed, effettivamente, per Albania, Montenegro e Macedonia del Nord, il fatto di essere già membri dell’Alleanza Atlantica costituisce un fattore preferenziale per l’ammissione a Bruxelles, anche se sono ancora presenti ostacoli circa i requisiti richiesti dall’Unione e sui quali queste nazioni si sono impegnate a lavorare per raggiungere gli standard richiesti. Il percorso della Bosnia appare più lungo a causa della sua instabilità costituzionale, che ha assunto una cronicità, che costituisce un motivo di rallentamento decisivo per il percorso di ammissione. La questione del Kosovo risulta ancora più complicata, perché il paese balcanico al momento è conscio di non potere neppure avviare un processo di ammissione perché deve risolvere i problemi del riconoscimento internazionale per la sua dichiarazione di  indipendenza unilaterale ed il mancato riconoscimento di Serbia, la Federazione Russa e, soprattutto di 5 membri dell'UE (Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania), e la Repubblica Popolare Cinese; in Europa l’ostacolo maggiore è rappresentato da Madrid, che rifiuta il riconoscimento paragonando la secessione del Kosovo a quella tentata dalla catalogna. Il caso più complesso è però rappresentato dalla Serbia, che afferma di volere procedere verso l’ammissione all’Unione, ma, nel contempo, mantenere i propri legami con la Russia, che non sono solo politici, ma anche culturali e religiosi. Con la svolta della guerra ucraina e l’atteggiamento già da lungo mantenuto da Putin, di profonda contrarietà nel rispetto dei diritti civili e politici ed il profondo contrasto al dissenso, per Bruxelles la condotta di Belgrado non è accettabile e la profonda distanza che si è creata tra l’Unione, profondamente filoatlantica, e la Russia, al momento appare come un ostacolo insuperabile. Senza un allineamento alla politica estera europea la Serbia non ha alcuna possibilità di entrare in Europa, ma questo risultato sarebbe fortemente sfavorevole per l’Unione, che potrebbe vedere sorgere nel centro del mare adriatico perfino una base per la flotta russa: cosa che non deve assolutamente accadere. 

martedì 8 novembre 2022

Il difficile dialogo tra Russia ed Ucraina

 Secondo quanto riportato dal quotidiano statunitense “Washington Post”, l’amministrazione della Casa Bianca avrebbe esortato, in maniera informale, l’esecutivo di Kiev a dimostrarsi disponibile affinché l’Ucraina possa iniziare un percorso che possa portare a colloqui con il governo russo. Secondo l’esecutivo americano esisterebbe il concreto pericolo, per il paese ucraino, di perdere il sostegno e gli aiuti di altre nazioni; secondo alcuni analisti la sollecitazione statunitense è solo propedeutica ad un eventuale diminuzione del volume degli aiuti, soprattutto militari, in previsione di possibili cambiamenti degli assetti politici e di indirizzo di alcuni paesi ed anche degli stessi Stati Uniti, che con le prossime elezioni di medio termine, potrebbero cambiare la composizione del potere legislativo. Insieme alle preoccupazioni di natura politica, vi sono anche quelle di natura economica, per i costi indotti dalla guerra e dal suo prolungamento, specialmente nel comparto energetico, ma non solo: infatti se i maggiori costi di produzione influiscono sull’andamento della crescita dei paesi ricchi, nei paesi poveri la preoccupazione è relativa alla mancanza di cibo, provocata dal blocco delle esportazioni del grano ucraino. Per ora queste tendenze, pur emergenti, restano minoritarie, ma le difficoltà economiche, unite al cambiamento della tendenza di alcuni governi, malgrado le smentite, potrebbero favorire una diminuzione degli aiuti in armi, anche in nome di una idea pacifista distorta, perché indirettamente nettamente favorevole a Mosca. Il presidente ucraino finora, però, non si è mostrato disponibile a cambiare il suo atteggiamento di chiusura totale a meno di non dovere trattare con un nuovo governo russo, insediato dopo la deposizione di Putin; questa eventualità appare molto remota, se non del tutto irrealizzabile, per il ferreo controllo che il presidente russo mantiene sull’apparato burocratico e di governo della Russia. La posizione ucraina, peraltro, è comprensibile: il paese è stato invaso e bombardato e trascinato in un conflitto che prodotto morte e distruzione all’interno del suo territorio, di cui ha perso porzioni consistenti; le condizioni di Kiev non riguardano solo il rifiuto di trattare con l’inquilino del Cremlino, ma comprendono anche il ritiro e la restituzione dei territori occupati con un congruo risarcimento dei danni subiti dalle azioni militari russe. Lo stesso Putin, che aveva mostrato buone intenzioni, a parole, sulla possibilità di un negoziato, mantiene un atteggiamento del tutto opposto a quello di Kiev e pretende, come punto di partenza, di mantenere i territori conquistati ed annessi con i falsi referendum e lasciando gli attuali confini inalterati. La situazione appare senza via di uscita, le posizioni sono troppo contrapposte e, tuttavia, il solo fatto che si inizi a parlare di dialogo, ancorché per ora impossibile, può significare una piccola speranza. Se l’Ucraina ha necessità di tutto il sostegno possibile ha comunque dimostrato di avere maggiore determinazione rispetto alle forze armate russe ed ha costretto Mosca a, praticamente, esaurire il suo arsenale, che necessita di essere ricostituito; la situazione interna del paese russo non è delle migliori: la crisi economica ed il malcontento, pur non sfociando in grandi proteste, non consentono di costituire una forza combattente con una convinzione pari a quella ucraina, questa guerra non è sentita come propria dal popolo russo, che ne rifugge o la accetta con rassegnazione. Questi elementi uniti anche al fatto che il Cremlino sta iniziando a subire le pressioni della Cina, contraria al proseguimento di un conflitto che comprime la crescita economica globale e quindi anche le esportazioni cinesi, indicano che la via del dialogo può essere più probabile di quanto le condizioni attuali ne consentano uno sviluppo positivo. Fermare le armi dovrà essere il primo passo necessario, ma ciò non sarà sufficiente se non sarà creata una rete mondiale capace di fare recedere le due parti dalle rispettive posizioni, sempre, però, tenendo presenti le ragioni dell’Ucraina che è il paese che è stato aggredito. Occorre che la Russia si renda conto di essere uno stato sempre più isolato ed in questo sarà fondamentale l’azione di Pechino, che, finora ha sostenuto politicamente Mosca: se ciò avverrà Putin dovrà accettare un suo ridimensionamento sul piano internazionale, recuperabile soltanto cedendo davanti alle richieste di Kiev. Il percorso non agevole e nemmeno breve, ma, al momento, pare l’unica via percorribile.

giovedì 3 novembre 2022

L'Iran potrebbe attaccare paesi stranieri per distogliere l'attenzione dai suoi problemi interni

 Lo stato di allerta mondiale potrebbe presto vedere affiancato allo scenario di guerra del fronte ucraino, anche un potenziale conflitto che coinvolgerebbe Iran, Arabia Saudita, Iraq e gli Stati Uniti. Teheran, alle prese con una delle più gravi interne della storia della repubblica islamica, a causa della morte di una sua cittadina, di origine del Kurdistan, conseguente all’arresto da parte della polizia religiosa, per avere indossato il velo in modo non corretto, avrebbe individuato in una azione militare il metodo per potere distrarre l’opinione pubblica interna dalle proteste in corso. Risulta chiaro che se ciò fosse vero, il regime teocratico disvelerebbe tutta la sua debolezza in un azzardo il cui risultato, oltre a non essere affatto scontato, potrebbe addirittura essere la causa dell’aumento delle manifestazioni di dissenso. Il governo iraniano ha più forte accusato l’Arabia Saudita, l’Iraq, gli stati europei, Israele e, naturalmente, gli Stati Uniti, di fomentare le proteste, che stanno aumentando sempre di più contro le regole imposte dal clero sciita. Nella regione del Kurdistan iraniano oltre la metà degli abitanti seguono le regole dell’islam sunnita, mentre nel Kurdistan irakeno i sunniti sono quasi la totalità: di fatto, quindi, sono nemici degli sciiti, di cui l’Iran si considera il principale rappresentante. Erbil, capitale del Kurdistan irakeno, è la sede di truppe USA ancora presenti in Iraq, ed è già stata oggetto, in passato, di attacchi iraniani tramite droni e missili, in un caso sventato proprio dagli stessi americani. Per ciò che riguarda l’Arabia Saudita, i rapporti tra i due stati sono da sempre compromessi a causa di motivi religiosi, in quanto Riyad è la massima rappresentante dei sunniti e Teheran degli sciiti ed entrambe rivendicano la supremazia religiosa nell’ambito del credo islamico. Nonostante Riyad e Washington abbiano avuto recentemente dei dissidi per la volontà saudita di ridurre la produzione del greggio, una decisione senza dubbio favorevole a Mosca, questa minaccia sta riavvicinando i due paesi, dopo una fase in cui il presidente Biden aveva espressamente affermato di volere effettuare una revisione dei rapporti bilaterali. Il pericolo di un attacco iraniano non permette agli USA di abbandonare i propri interessi strategici nella regione, incentrati sul presidio della politica antiterrorismo e della volontà di integrare sempre maggiormente Israele con i paesi dal Golfo. Washington ha già specificato pubblicamente, in caso di attacco iraniano non esiterà a rispondere direttamente in prima persona. La presa di posizione con le minacce iraniane segnano uno sviluppo ulteriore nell’alleanza tra Teheran e Mosca, dove l’Iran risulta sempre più impegnato a rifornire di armi il paese russo; tatticamente i droni di Teheran sono risultati fondamentali contro le difese ucraine ed ora la possibile fornitura di missili con gittata in grado di coprire 300 e 700 chilometri, potrebbe portare un vantaggio indiscutibile per Mosca, che, ormai, dispone di vettori troppo vecchi, imprecisi ed inefficaci. Questo fattore rischia di essere determinante per aumentare la spaccatura mondiale e l’ulteriore avversione degli USA verso il paese iraniano. In questo scenario dove il mondo appare sempre più diviso in blocchi, sarà interessante vedere come vorrà posizionarsi la Cina: se, da un lato, l’alleanza strategica con la Russia ha una funzione prettamente antiamericana, una espansione dei conflitti armati, significa una diminuzione della capacità di creare ricchezza a livello mondiale: un tema a cui Pechino è molto sensibile, per mantenere i propri livelli di crescita tali da assicurare un avanzamento del paese nella sua globalità. Un conflitto che possa coinvolgere paesi che sono compresi tra i maggiori produttori di petrolio, vuole dire uno stop praticamente sicuro per l’economia mondiale e con una contrazione notevole della capacità di spesa dei paesi più ricchi. Pechino, presumibilmente, dovrà abbandonare la sua avversione per gli USA ed impegnarsi in prima persona in negoziati, verso i quali ha finora mantenuto un atteggiamento troppo timido per non dare segni di debolezza nei confronti di Washington. Resta comunque la possibilità che la minaccia iraniana sia soltanto verbale e che Teheran non intenda mettere in pratica un uso delle armi da cui avrebbe tutto da perdere: infatti neppure questa soluzione sembra che possa essere in grado di distrarre un opinione pubblica mai così determinata, ed, anzi, un conflitto potrebbe solo peggiorare la percezione che i cittadini iraniani hanno del proprio governo; piuttosto il governo iraniano sembra volere distogliere più gli osservatori internazionali da quelli interni, ma così facendo favorisce la coalizzazione di esecutivi che non attraversavano reciproci momenti positivi, ottenendo un sempre maggiore isolamento.

giovedì 20 ottobre 2022

Il pericolo nucleare e l'evoluzione del conflitto

 La sola minaccia di una soluzione, che possa prevedere l’utilizzo dell’arma nucleare, apre a scenari completamente nuovi per la guerra ucraina, con fasi che potrebbero spostare il conflitto dai combattimenti tradizionali. L’Alleanza Atlantica ritiene remota una risposta diretta con l’utilizzo delle armi atomiche, in risposta ad un eventuale di bombe nucleari tattiche, cioè con un raggio di circa un chilometro e mezzo, seppure promette conseguenze molto gravi per Mosca; d’altra parte il Cremlino ha specificato più volte che l’utilizzo di ordigni atomici è previsto soltanto in caso di invasione del suolo russo, anche se i referendum farsa lo hanno ampliato, inglobando il territorio conteso con Kiev. L’attuale fase del conflitto vede, da una parte l’avanzata terrestre delle truppe ucraine, che procedono in maniera sistematica nella riconquista di quanto conquistato dai russi e dalla parte di Mosca l’utilizzo massiccio di missili a lunga gittata, che sono dirette per lo più contro infrastrutture civili, con il chiaro obiettivo di stancare ulteriormente la popolazione. Dall’esame dei razzi che hanno colpito l’Ucraina sembra però, che Mosca stia esaurendo il suo arsenale di questi armamenti e ciò, se da un lato può essere interpretato come notizia positiva, dall’altra parte apre alla possibilità che la Russia possa utilizzare altri tipi di armamenti; per ora insieme ai razzi a lunga gittata vengono usati i droni kamikaze di fabbricazione iraniana, che consentono di ottenere grandi risultati, che grazie al loro costo ridotto, ne permettono un grande utilizzo con un raggiungimento degli obiettivi pressoché sicuro. Per ora l’Ucraina ha potuto poco contro queste due armi usate insieme, ma le forniture di batterie antimissili da parte di alcuni paesi europei e di dispositivi in grado di alterare le frequenze di funzionamento dei droni, hanno concrete possibilità di ridurre le potenzialità offensive di Mosca sul suolo di Kiev. Sul terreno per ora la Russia ha soltanto messo in campo i coscritti, soggetti ad arruolamento forzato, con pochissimo addestramento e senza esperienza di combattimento, il cui sacrificio ha il solo scopo di preservare le truppe più addestrate. Questo aspetto crea profondo malcontento in Russia e nelle caserme si moltiplicano i casi di insubordinazione, che rischiano di compromettere il potere centrale. Questo fattore, unito allo sviluppo negativo del conflitto ed anche alle difficoltà dovute alle sanzioni, potrebbe portare all’uso degli ordigni atomici, tuttavia questa decisione, oltre ad implicazioni militari, avrebbe ancora di più conseguenze politiche di ordine interno ed esterno. Si può inquadrare in questo contesto l’annunciata fine del reclutamento forzato, una volta raggiunta la cifra di 300.000 uomini e quella che è sembrata l’intenzione di dare una sorta di stop al conflitto, avente come scopo il mantenimento delle posizioni attuali, fatto tutt’altro che scontato. L’attuale obiettivo russo sembra essere  quello di guadagnare tempo e mantenere le posizioni in attesa di una necessaria riorganizzazione delle forze armate e del loro arsenale, l’introduzione della legge marziale nei territori annessi, deve essere letta in questo senso: creare le condizioni per retrocedere il meno possibile, anche nella speranza dell’arrivo del clima rigido, che non favorirebbe l’avanzata ucraina. L’impossibilità di negoziati per la chiusura di entrambe le parti non deve scoraggiare l’azione diplomatica, comunque difficile, che deve procedere per piccoli obiettivi, come lo scambio dei prigionieri e la ricerca di fasi di tregua del conflitto: si tratta di una base di partenza necessaria per permettere un colloquio indiretto tra le parti, che, in questa fase, non può che essere percorsa da Organizzazioni internazionali o da paesi ed istituzioni neutrali ed in grado di favorire qualsiasi rapporto tra i paesi belligeranti. Il rischio nucleare resta il pericolo maggiore, ma disinnescare le rivendicazioni di paesi che entrano in aperta violazione del diritto internazionale appare una esigenza altrettanto fondamentale per perseguire la pace mondiale, che deve essere l’obiettivo principale. La soluzione della crisi ucraina sembra sempre più lontana, anche perché l’uso delle armi e della loro fornitura è una esigenza irrinunciabile sia per Kiev, che per tutto l’occidente, che con una sconfitta del paese ucraino vedrebbe arrivare pericolosamente vicino alle su frontiere il pericolo della Russia di Putin. Una situazione in grado di allargare a tutta l’Europa un conflitto disastroso. 

venerdì 9 settembre 2022

Gli USA e l'occidente aumenteranno gli aiuti militari a Kiev per favorire la riconquista dei territori perduti

 Nonostante la potenziale supremazia russa, lo scenario del conflitto ucraino appare in una costante evoluzione, che sta diventando meno positiva per Mosca. Secondo Washington l’offensiva di Kiev è costante e pianificata, grazie ai progressi ottenuti dai militari dell’Ucraina nelle azioni compiute nel sud del paese contro le truppe della Russia. Parallelamente a questi successi per Kiev la buona notizia sono i rinnovati aiuti militari, provenienti non solo dagli USA, ma anche da quei paesi che temono l’invasione russa. Dopo l’inizio delle ostilità, risalente a sei mesi prima, l’occidente intravede segnali positivi sul terreno, grazie alla riconquista di alcune città ucraine sottratte all’occupazione di Mosca; ciò permette di intravvedere uno scenario diverso da quello finora presente, dove Kiev si era limitato a resistere all’invasione russa, ma con una evoluzione verso una possibile riconquista del terreno perduto. Questa prospettiva è stata certificata dal Segretario della Difesa statunitense di fronte ai ministri della difesa dei paesi aderenti all’Alleanza Atlantica ed ai rappresentanti di cinquanta nazioni che appoggiano gli sforzi ucraini. Il teatro della riunione è stata la base militare di Ramstein, dove sono stati formalizzati gli aiuti per 675 milioni di dollari relativi ad armamenti speciali, veicoli blindati ed armi leggere; in particolare i razzi, gli obici ed i sistemi anticarro, che si stanno rivelando fondamentali per la riscossa di Kiev. Questa forniture sono necessarie per rifornire le armerie di ucraine, dopo che gli arsenali di produzione sovietica e russa stanno terminando. Gli USA hanno anche sostenuto la necessità di una maggiore partecipazione negli aiuti per l’Ucraina per conseguire l’obiettivo di sconfiggere Putin. Dal punto di vista della durata del conflitto gli analisti ipotizzano uno scenario che può contemplare una durata di più anni, ben lontano dalle previsioni di una conclusione rapida, proprio per questo è necessario implementare ed ammodernare la dotazione delle armi per l’Ucraina e formare grandi riserve di munizioni leggere e pesanti. Questo fattore è ritenuto strategico, non solo per il contenimento della Russia, ma anche per continuare il processo di riconquista dei territori ucraini sottratti da Mosca ed arrivare a condizioni favorevoli per chiudere il conflitto. Gli Stati Uniti si confermano il paese maggiormente impegnato nello sforzo finanziario per il sostegno di Kiev, l’attuale amministrazione della Casa Bianca ha sottoscritto un impegno per la fornitura di circa 13,5 miliardi di dollari di armamenti compatibili con i sistemi di artiglieria dell’Alleanza Atlantica, armi ritenute più moderne di quelle usate dai russi e che stanno fornendo i risultati sperati contro Mosca. Certamente il solo rifornimento di armamenti non è sufficiente, occorrono anche attrezzature contro il clima rigido, che i combattenti dovranno affrontare il prossimo inverno e l’addestramento, sempre più intenso dei militari ucraini all’utilizzo dei nuovi sistemi di armi, così diversi dall’impostazione degli armamenti sovietici e russi. Questa nuova svolta del conflitto, che evidenzia concrete possibilità di ribaltare un pronostico che era tutto a favore della Russia, investe tutta una serie di riflessioni a livello militare e geopolitico, sui possibili comportamenti di Mosca, che dovranno essere tenute in grande considerazione, sia dagli strateghi ucraini, che occidentali. Putin non può più tornare indietro: il suo prestigio e quello della sua cerchia di governo, sarebbe fortemente compromesso: una sconfitta in Ucraina non è stata nemmeno preventivata e già non avere risolto l’operazione militare speciale a proprio favore in poco tempo appare come un mezzo fallimento. Mosca ha sempre l’opzione nucleare, le cui conseguenze non sono prevedibili, se non in una guerra totale, in cui i cinesi difficilmente darebbero il loro appoggio. Le forniture di armi americane sono di gran lunga qualitativamente maggiori e la determinazione dei soldati russi non è paragonabile a quella degli ucraini; le sanzioni mettono a dura prova l’occidente, che tuttavia dal punto di vista energetico, seppure lentamente, stanno operando una riorganizzazione dei loro sistemi di approvvigionamento, mentre Mosca, già in default, tra poco proverà la che carenza di prodotti occidentali, sarà difficilmente rimpiazzabile con prodotti analoghi provenienti da altre zone del mondo: non si tratta di generi voluttuari, ma di prodotti senza i quali le aziende non potranno funzionare, inoltre i blocchi finanziari e la vendita delle materie energetiche a prezzi scontati ridurrà la disponibilità di manovra di una economia già in affanno prima della guerra, come quella russa. Queste prospettive rischiano di indurre Putin a gesti estremi capaci di riportare il mondo indietro di molti anni, per evitare ciò occorre accostare alle misure attuali una strategia diplomatica che possa essere una scorciatoia per consentire di terminare il conflitto.

mercoledì 7 settembre 2022

Cina e Russia useranno yuan e rublo per le loro transazioni di materie prime energetiche

 L’atteggiamento cinese verso la Russia, circa l’invasione del paese ucraino, è stato finora ambiguo dal punto di vista politico, ma più netto dal punto di vista economico. Questa riflessione, infatti, spiega il comportamento adottato da Pechino fin dall’inizio delle ostilità verso Kiev, circa il rifiuto delle sanzioni a carico di Mosca, inteso come occasione inattesa di benefici economici per la Cina. Certo la vicinanza politica con la Russia esiste comunque, ma è da inquadrare più in funzione antiamericana, piuttosto che con motivazioni realmente condivise, se non come fatto che ha creato una sorta di precedente per una eventuale invasione di Taiwan. Questa possibilità, seppure concreta, è comunque ritenuta ancora lontana dalla maggior pare degli analisti. Tutto parte dalla necessità di Mosca di trovare altri mercati per le materie prime, dopo che, di fatto, ha perso per ritorsione, quello europeo. La Cina è sempre stata alla ricerca di forniture energetiche per sostenere una crescita necessaria ad innalzare il paese a livello di grande potenza ed a creare la ricchezza interna necessaria ad evitare troppe contestazioni al suo sistema di governo. Il paese cinese è così il mercato che serve a Mosca per vendere le sue materie prime, anche se fortemente scontate, per assenza di domanda. I due paesi hanno trovato un accordo sulle valute di cambio che esclude sia l’euro, che il dollaro, a favore di yuan e rublo: con un sistema di pagamento che prevede l’utilizzo di metà delle due valute per ogni transazione. Se per la Russia l’intento è quello di dare un segnale politico all’occidente, evitando l’utilizzo delle valute dei paesi ostili, che hanno congelato le riserve di Mosca all’estero, per la Cina l’incremento dell’uso dello yuan sul piano internazionale ha un significato economico molto rilevante, perché permette alla sua moneta di raggiungere il quinto posto dopo dollaro, euro, sterlina britannica e yen giapponese, nella classifica delle valute più utilizzate. L’ambizione è quella di superare la moneta giapponese ed avvicinarsi al podio, come strumento funzionale alla sua politica estera, nell’ottica di favorire la sua espansione nei mercati emergenti di Asia ed Africa e quindi esercitare una quota ancora maggiore di soft power in queste regioni. Il rublo, al contrario, è uscito perfino dalle venti monete più usate e, con questo accordo, potrebbe cercare di risalire la graduatoria, anche, se al momento, con il paese sottoposto alle sanzioni questa possibilità più che remota, appare irrealizzabile, anche se l’intenzione di Mosca è di stringere un accordo analogo con la Turchia, che, pur essendo membro dell’Alleanza Atlantica, non ha aderito alle sanzioni. Ankara ha motivi pratici per approfittare della svendita del gas russo perché la sua economia è in forte difficoltà ed avere accesso in maniera favorevole a materie prime energetiche potrebbe favorire uno sviluppo del suo sistema produttivo. Attualmente la posizione della Russia nei confronti della Cina, sulle forniture di materie energetiche si colloca come primo fornitore, avendo superato anche l’Arabia Saudita sulle forniture del comparto petrolifero. La bilancia commerciale, trai due stati è nettamente a favore di Mosca che esporta verso Pechino beni per 10.000 milioni di euro, di cui l’ottanta per cento è relativo al settore energetico, mentre la Cina verso la Russia esporta soltanto beni per 4.000 milioni di euro. Pechino non sembra patire questo sbilanciamento perché gli permette l’accesso a condizioni favorevoli alle risorse energetiche russe e, nello stesso tempo, non giudica anche potenzialmente conveniente l’esportazione dei suoi prodotti verso il paese ex sovietico. L’accesso agevolato alle risorse russe, favorisce invece una maggiore produttività delle aziende cinesi, che potrebbe favorirne la competizione nei confronti delle imprese occidentali, statunitensi ed europee, generando una conseguenza indiretta delle sanzioni molto pericolosa. D’altra parte interrompere la politica delle sanzioni e degli aiuti, anche militari, all’Ucraina è senz’altro impossibile, malgrado alcuni politici di schieramenti di destra, in occidente, abbiano manifestato questo proposito. L’unione e la compattezza dell’occidente è anche una tutela contro l‘espansionismo cinese, che teme più di ogni altra cosa il blocco delle sue merci ai mercati più ricchi, che continuano proprio ad essere quelli dell’occidente schierato contro la Russia.

giovedì 25 agosto 2022

La Commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite, denuncia pressioni da parte cinese per non pubblicare un rapporto sugli uiguri

 Praticamente alla vigilia della fine del suo mandato come Commissario per i diritti umani, che scade il 31 agosto, Michelle Bachelet, già presidente del Cile, ha rivelato di avere ricevuto pressioni per non pubblicare un rapporto già pronto, che denuncerebbe gli abusi di Pechino contro la minoranza musulmana uigura, che conta una popolazione di circa dodici milioni di persone presenti nella regione settentrionale dello Xinjiang. La Cina avrebbe inviato una lettera, firmata anche da altri quaranta paesi di cui non sono stati rivelati i nomi, dove l’intento era di dissuadere il Commissario per i diritti umani a non pubblicare il rapporto. L’elaborazione del rapporto in questione è in corso da tre anni, ma comprende anche i risultati della visita del Commissario effettuata lo scorso maggio, che ha provocato pesanti critiche da parte di Amnesty International, Human Rights Watch ed anche del Dipartimento di Stato USA, per l’atteggiamento ritenuto troppo accomodante da parte dell’inviata delle Nazioni Unite verso le autorità cinesi, che sono state fatte oggetto di critiche con toni ritenuti troppo moderati. Malgrado il periodo di lavorazione piuttosto ampio per l’elaborazione del rapporto, la pubblicazione è stata rimandata più volte per ragioni ufficiali non conosciute, anche se si ipotizza che Pechino ed i suoi alleati, abbiano operato materialmente in questo senso. Una giustificazione fornita dalla stessa Commissaria è che il ritardo è dovuto alla necessità di integrare al rapporto i risultati della visita contestata di maggio, in ogni caso l’obiettivo della pubblicazione sarebbe entro la fine del mandato della Commissaria, cioè entro la fine del mese di agosto, anche se mancano conferme ufficiali in tal senso. Molti paesi occidentali hanno richiesto espressamente la pubblicazione del rapporto ma il governo cinese avrebbe espresso richieste per esaminare più attentamente i risultati della ricerca; a complicare la situazione è intervenuta una ricerca da parte di quattordici testate giornalistiche internazionali, che sono riusciti ad esaminare documenti ufficiali cinesi che avrebbero confermato la persecuzione degli uiguri, attraverso continue e sistematiche violazioni dei diritti umani subite da almeno più di due milioni di persone con la pratica dell’internamento, anche patita da minorenni, in centri di rieducazione, dove oltre la somministrazione di violenza fisica e psicologica, gli uiguri vengono utilizzati come forza lavoro senza retribuzione, in una condizione paragonabile alla schiavitù. Pechino nega queste ultime accuse definendo i centri di detenzione come istituti di formazione professionale. L’accusa a Bachelet da parte del Segretario di Stato degli USA è quella di non avere chiesto conto alla Cina notizie sugli uiguri scomparsi e su quelli deportati in altre regioni cinesi, sradicati dai loro luoghi di origine, anche alcune Organizzazioni per i diritti umani hanno definito la gestione della Commissaria come troppo arrendevole verso la Cina e chiedendone la sostituzione con persone più determinate. La volontà di dimettersi dal suo ruolo di Commissaria per i diritti umani si sarebbe materializzata proprio dopo il suo ritorno dalla missione in Cina e sarebbe stata giustificata con motivi personali. La coincidenza appare quanto meno sospetta, potrebbe essere proprio stato il caso di una pressione cinese troppo forte a determinare la vera ragione delle dimissioni e la consapevolezza di non sapere affrontare una prova del genere, cioè di non essere in grado di affrontare le conseguenze di un rapporto troppo poco severo da parte dei paesi occidentali o il contrario da parte dei cinesi. In ogni caso una fine ingloriosa per il suo mandato di Commissario dei diritti umani, che in un modo o nell’altro segnerà la figura politica della Bachelet.

mercoledì 24 agosto 2022

I dubbi sull'attentato di Mosca

 Sull’attentato che ha ucciso la figlia del principale ideologo della supremazia russa sull’Eurasia, non possono non venire dubbi circa la sua strumentalità a sostegno della rivitalizzazione del consenso alla guerra contro l’Ucraina. Contribuisce a rafforzare questi dubbi anche la quasi immediata risoluzione del caso, da parte dei servizi segreti russi, avvenuta con una rapidità, che poteva essere utilizzata per sventare l’accaduto in maniera preventiva. Ad essere colpita è l’area più estremista che sostiene il presidente Putin, quella che risponde al padre della vittima he si richiama alla teoria, sviluppata con il crollo dell’impero zarista e messa da parte nel periodo comunista, di una Russia contrafforte dell’occidente liberale. Sebbene al padre della vittima, a cui poteva essere diretto l’attentato, sia stato da più parti indicato come l’ideologo di Putin, non esistono prove concrete di questo legame, tuttavia all’inquilino del Cremlino la presenza attiva di questa parte estremista dei suoi sostenitori è direttamente funzionale a quello che è sempre stato il suo programma elettorale, basato sul riportare la Russia a quello che è ritenuto il suo ruolo di grande potenza ed, attualmente, al programma militare e geopolitico di riconquistare il paese ucraino e riportarlo direttamente sotto la sua influenza, per mettere in pratica di ristabilire la zona di influenza che già apparteneva all’Unione Sovietica. La guerra contro Kiev, che doveva andare in tutt’altro modo, è anche una guerra contro l’occidente, ma per importanza Putin la ritiene obiettivo primario come più funzionale a diventare un esempio per tutti i popoli e le nazioni di quella che è ritenuta da Mosca la propria zona di influenza esclusiva: sottomettere l’Ucraina è un monito per tutti quei paesi che nutrono ambizioni di staccarsi dal dominio russo e, magari, andare verso l’occidente. Certo l’obiettivo è anche fermare l’espansione e la presenza occidentale sul confine russo, ma gli obiettivi, per forza di cosa vanno di pari passo. Il consenso generale dei russi verso l’operazione militare speciale appare sempre meno convinto, nonostante il divieto alla pubblica protesta, ci sono segnali di malessere per le sanzioni, che hanno provocato un abbassamento della qualità della vita della popolazione, e, soprattutto, la difficoltà di reperire i combattenti necessari per portare avanti il conflitto in Ucraina. L’obbligo di rivolgersi alle popolazioni più povere che forniscono militari impreparati, provenienti dalla parte orientale del paese è un segnale eloquente del rifiuto di arruolarsi e, quindi di condividere la guerra di Putin, da parte delle popolazioni russe più abbienti e colte; inoltre cresce l’ostilità dei familiari dei caduti e dei militari fatti prigionieri degli ucraini, che sempre più spesso ricorrono ad ogni mezzo per avere notizie dei loro congiunti. Putin si trova in una situazione senza via di uscita: un eventuale ritiro equivarrebbe ad una sconfitta ed una sconfitta potrebbe fare cadere tutto l’impianto di potere della Russia, questa valutazione porta a due considerazioni sull’attentato: malgrado Mosca abbia fin da subito accusato l’Ucraina, appare difficile che Kiev avere portato a compimento una operazione così difficile, senza, poi neppure rivendicarla. Esiste anche l’eventualità che l’ordigno possa essere stato collocato da terroristi russi contrari al regime di Putin, ma questa possibilità appare ancora più difficile in un regime dove il controllo degli apparati di sicurezza è molto stringente ed utilizza strumenti tecnologici di alto livello, come il riconoscimento facciale. Se si escludono queste ipotesi, quindi, non si può che presupporre un attentato provocato dallo stesso apparato russo per sollecitare un maggiore risentimento verso il paese ucraino, del resto le dichiarazioni minacciose dei sovranisti e nazionalisti presenti al funerale sono state particolarmente violente verso Kiev. Se ciò, però, dovesse essere vero, vorrebbe dire che Putin avverte cedimenti anche dalla parte più nazionalista e favorevole alla guerra dei suoi sostenitori: un fatto tanto preoccupante perché denuncia la distanza dal presidente russo dai suoi seguaci più convinti della giustezza dell’operazione militare, tanto da dovere avere bisogno di un atto provocatorio per suscitare lo sdegno necessario per il sostegno al conflitto. L’altra ipotesi è che con l’attentato si dia concretezza alla speranza di assicurare un maggiore sostegno nelle fasce di popolazione più restie alla guerra, ma comunque sensibili al nazionalismo russo. In ogni caso un gesto disperato del regime del Cremlino che segnala una crescente difficoltà sul terreno di battaglia e su quello del gradimento in patria, che potrebbe rappresentare l’inizio della fine per il capo del Cremlino e della sua banda. 

mercoledì 10 agosto 2022

Le esercitazioni cinesi su Taiwan mettono in pericolo la pace mondiale

 Sebbene Pechino non si sia mai allontanata dalla retorica di “una sola Cina”, che considera Taiwan parte della propria nazione, i limiti ufficiosi delle acque territoriali e dello spazio aereo, fino ad ora erano stati più o meno rispettati in modo continuativo. L’occasione della visita non concordata della speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, a Taipei ha scatenato la reazione della Cina, che ha intrapreso la simulazione dell’invasione dell’isola con esercitazioni che, è stato annunciato, proseguiranno in maniera regolare. L’uso  volontario di proiettili veri aumenta il rischio di un incidente militare, che comprende la tattica volontaria di scatenare una reazione dalla parte delle forze di Taiwan, che fornirebbe a Pechino l’alibi per il tanto annunciato attacco. Nel frattempo le intenzioni cinesi sono sempre più evidenti, dato che l’annunciata fine del blocco militare dell’isola, protratto già per 72 ore e mai accaduto finora, è stato prolungato con ulteriori esercitazioni che rappresentano una dimostrazione di prova di forza e mettono in pericolo la pace in maniera consistente. La giustificazione cinese di queste esercitazioni, che, secondo Pechino, avvengono nel rispetto delle normative internazionali, risiedono nell’obiettivo di mettere sull’avviso chi nuoce alle mire di Pechino, in sostanza gli USA, ed intensificare le azioni contro quelli che sono considerati secessionisti. Le esercitazioni lambiscono il territorio della Corea del Sud ed alcuni missili cinesi sono entrati nella zona esclusiva del mare del Giappone, indirettamente l’intenzione è quella di intimidire gli alleati degli americani e dimostrare a Washington di non temere le forze armate statunitensi presenti nei paesi limitrofi alla Cina. Da parte di Tokyo ci sono state proteste ufficiali ed è stato coinvolto anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, in visita nella capitale giapponese; il pericolo di uno scontro nucleare è tornato concreto dopo decenni e la massima carica delle Nazioni Unite ha pubblicamente invitato gli stati che sono dotati dell’arma atomica ad astenersene dall’uso, per evitare una escalation nucleare. Anche Taiwan, però, ha condotto esercitazioni per la sua artiglieria, utilizzando armamenti fabbricati negli USA: ancora un fatto ulteriore che mette a rischio la pace nella regione per la possibilità che questi lanci possano colpire obiettivi di Pechino. Dal punto di vista diplomatico Pechino ha interrotto con Washington il dialogo comune sulla sicurezza, instaurato proprio per evitare incidenti militari, potenzialmente in grado di portare le due potenze al conflitto; secondo il ministero della Difesa cinese, questo fatto è la diretta conseguenza della condotta americana, che con la visita di Nancy Pelosi, ha contravvenuto ai patti tra i due paesi. In realtà la mossa americana è stata effettuata come un preciso calcolo politico, che testimonia la volontà di proteggere Taiwan da una invasione militare, che potrebbe avvicinarsi pericolosamente e che la Cina potrebbe intraprendere per l’impegno americano maggiormente concentrato sulla guerra ucraina: anche in questo caso potrebbe trattarsi di un calcolo pericoloso perché  gli USA hanno più volte dichiarato, che in caso di  invasione di Taiwan l’impegno militare di Washington sarà diretto, al contrario di quello verso Kiev, che si è limitato a forniture, anche ingenti, di armamenti. La Casa Bianca, per il momento, continua a non riconoscere ufficialmente Taiwan, anche se la visita della Speaker della Camera è un riconoscimento implicito, così come, per ora, non ha ancora messo in dubbio il principio cinese di una sola nazione, comprendente anche Taiwan; tuttavia un riconoscimento formale potrebbe essere un argine diplomatico alle mire di Pechino, anche se esistono una serie di ragionamenti da fare circa le implicazioni economiche dei rapporti tra occidente ed oriente. Anche l’Europa dovrebbe assumere un ruolo più deciso sulla questione, anziché restare sempre nelle retrovie. Interrompere i commerci dalla Cina sarebbe una decisione certamente più svantaggiosa per Pechino, soprattutto in un momento come l’attuale dove al crescita economica è fortemente contratta; è chiaro che lo sforzo diplomatico dovrebbe essere enorme, specie se affiancato alla questione del conflitto ucraino, ma Bruxelles deve trovare il modo di recitare un ruolo da protagonista in questa vicenda, se vuole aumentare il suo peso politico a livello globale. E’ giunto il momento che l’invadenza cinese venga in qualche modo contenuta e la strada diplomatica ed economica è quella che appare più percorribile.

venerdì 22 luglio 2022

Perchè è caduto il governo italiano

 La crisi politica italiana, che ha visto le dimissioni del primo ministro Mario Draghi, ha origini, che risiedono in una classe politica ed anche sociale inadatta ed incompetente, nel populismo e nel sovranismo e non ultime in una situazione internazionale dove gli amici della Russia sono stati tacitati dall’estrema violenza usata da Mosca contro la popolazione civile ucraina. La classe politica italiana è ulteriormente scesa di livello dopo le elezioni del 2018, che hanno visto il successo di un movimento che ha portato in parlamento una serie di persone assolutamente inadatte a ricoprire il ruolo di rappresentante del popolo italiano, tuttavia questo risultato si è poi rivelato analogo in gran parte degli eletti anche negli altri partiti: un insieme di inesperti con l’unico obiettivo di cercare una alternativa ad un lavoro che non sapevano trovare. Risulta significativo che alcun rappresentante eletto sia riuscito a ricoprire la carica di presidente del Consiglio e si sia dovuto cercare al di fuori di Camera e Senato. Per ovviare alla mediocrità della classe politica, come ultima soluzione il Presidente della Repubblica è dovuto ricorrere ad una personalità che costituiva una eccellenza mondiale per la carriera fino ad ora percorsa. Il prestigio dell’Italia è accresciuto e così i vantaggi economici e politici per il paese italiano ed il governo, seppure in un contesto di difficoltà interno, per la presenza di partiti di tendenze opposte, ed internazionale per il contesto attuale, è riuscito, almeno in parte, a portare avanti riforme essenziali. Certamente non tutte le parti sociali potevano dirsi soddisfatte, ma era la soluzione migliore, tuttavia la necessità di rincorrere l’unico partito all’opposizione “Fratelli d’Italia”, formazione di estrema destra a portato al dissesto del governo: prima l’ex premier Conte alla guida dei populisti di sinistra ha sottoposto al governo una lista di richieste, anche corrette, ma non ricevibili dai partiti di centro destra al governo. L’intenzione era evidentemente quella di esasperare una situazione già complessa proprio per cercare di migliorare dei sondaggi fortemente negativi facendo appello ad uno spirito del movimento che è sempre più ridotto. Questo tentativo ha provocato la rincorsa ai sondaggi dei partiti del centro destra al governo, che già temevano le stime troppo positive dell’estrema destra ed hanno scelto di non appoggiare più il governo, senza avere il coraggio di votare palesemente contro, per migliorare il loro gradimento in forte discesa. Si è così sacrificato un governo che aveva in programma riforme ed aiuti a famiglie ed imprese soltanto per consentire, forse, l’elezione dei soliti noti e con la minaccia di avere in tempo di pandemia, guerra inflazione e siccità una premier di estrema destra che ha solo una esperienza come ministra della gioventù, una esperienza non certo sufficiente a guidare un paese in un momento come questo. In più si deve rilevare che i partiti che hanno fatto cadere il governo Draghi, a parte Forza Italia, Lega e Movimento cinque stelle hanno sempre simpatizzato per la Russia e questo sospetto non può che essere considerato. Non che sia stata una azione deliberata in tal senso, ma le posizioni contro le forniture di armi all’Ucraina venivano proprio da queste parti politiche, in nome della pace, in realtà a favore di convinzioni a favore di Mosca e di Putin. L’Italia esce molto male da questa vicenda a livello interno ed internazionale e perde una occasione importante per tornare a contare in Europa e nel mondo, il futuro del paese italiano si annuncia molto difficile con le sfide autunnali che si prospettano sia per la pandemia, che, soprattutto, per le sfide economiche che rischiano di disgregare definitivamente un tessuto sociale afflitto da una profonda diseguaglianza.

giovedì 21 luglio 2022

Iran, Russia e Turchia si incontrano in un vertice trilaterale

 La Russia esce dall’isolamento internazionale da quando ha iniziato la guerra di aggressione contro l’Ucraina. Nella capitale iraniana Putin ha incontrato Erdogan ed il padrone di casa, il presidente dell’Iran Raisi. Oltre la scusa del negoziato per sbloccare il trasporto del grano, i tre capi di stato hanno parlato di temi circa la cooperazione tra i tre paesi per debellare definitivamente le organizzazioni terroristiche per garantire la popolazione civile nel rispetto del diritto internazionale. Risulta curioso che proprio tre paesi che continuano a violare il diritto internazionale da diverso tempo si richiamino proprio al suo rispetto. In realtà i tre paesi hanno una visione particolare del rispetto delle norme internazionali, cioè quella funzionale ai loro singoli interessi; in questa fase la Russia vuole prendere parte dell’Ucraina, se non tutta, perché la considera come zona di propria influenza, la Turchia vuole debellare le milizie curde in Siria e l’Iran sconfiggere lo Stato islamico, non in quanto tale, ma perché formato da sunniti. Erdogan e Putin hanno fatto un incontro bilaterale, che aveva come tema principale il grano, ma dove il presidente russo ha lamentato la presenza delle sanzioni, in questo caso sui fertilizzanti, che bloccano la produzione agricola, contribuendo ad aumentare i problemi della denutrizione mondiale, tuttavia la presenza della Turchia appare oltremodo singolare perché è pur sempre un componente dell’Alleanza Atlantica: è chiaro che la strategia di Erdogan ha come obiettivo una rilevanza internazionale ma è un comportamento che non può essere stato concordato con la NATO e che qualifica la Turchia come un membro sempre meno affidabile.  Nel frattempo l’Iran ha sottolineato la legittimità dell’invasione del paese ucraino da parte di Mosca, motivandola con la necessità di fermare l’avanzata occidentale e l’obiettivo americano di rendere più debole Mosca. Per l’Iran l’organizzazione di questo vertice trilaterale è la risposta alla visita di Biden ad Israele ed Arabia Saudita, storici nemici di Teheran. Uno degli altri motivi dell’incontro è stata la Siria: Russia ed Iran sostengono il regime di Assad, mentre le ambizioni della Turchia sul Kurdistan siriano sono ormai tristemente note: l’obiettivo sarebbe quello di fare terminare la guerra siriana, che, ormai, è in corso da undici anni e, proprio a questo scopo, Mosca e Teheran hanno fatto pressioni su Ankara affinché Washington non fornisca più aiuto ai ribelli che controllano le aree dove Assad non riesce a ristabilire il suo dominio. L’obiettivo minimo per la Turchia è quello di avere una striscia di territorio di trenta chilometri tra il confine turco e la zona occupata dai curdi, per raggiungere questo scopo Erdogan ha minacciato un intervento armato, a cui, però sono contrari sia la Russia, che l’Iran, favorevoli ad un ritorno nella zona della sovranità di Assad e perché sono stati entrambi sollecitati dai curdi per avere protezione da eventuali attacchi da parte di Ankara. I tre paesi formano il comitato di garanzia per la Siria, detto di Astana, e riconosciuto dalle Nazioni Unite; secondo il regime siriano la Turchia starebbe approfittando di questo ruolo per perseguire i propri fini, anziché operare per la fine del conflitto siriano. L’incontro è servito anche per cercare di aumentare di quattro volte gli scambi commerciali, da 7.500 a 30.000 milioni di dollari, tra Turchia ed Iran. Occorre ricordare che Ankara ha decisamente cambiato in positivo i suoi rapporti con l’Arabia Saudita, dopo l’omicidio sul suo territorio di un giornalista arabo di opposizione, tralasciando la questione e sviluppando accordi commerciali con i sauditi, per risollevare l’economia turca in crisi. La ripresa di queste relazioni aveva causato la protesta iraniana, che il recente vertice ha avuto come scopo anche il ristabilire contatti positivi tra i due paesi. In effetti lo sviluppo di una espansione commerciale serve ad entrambe le parti: per l’Iran è una maniera di aggirare le sanzioni e per la Turchia costituisce l’ennesimo tentativo di risollevare un’economia in grave crisi, tuttavia dal punto di vista geopolitico non si comprende se Ankara è un alleato inaffidabile dell’occidente o se questi contatti, sia con l’Iran, che con Mosca, non siano il tentativo di mantenere una sorta di collegamento con questi paesi su mandato ufficioso proprio da parte occidentale. La differenza, ovviamente, è molto rilevante e può determinare il futuro politico della Turchia.

martedì 12 luglio 2022

Evitare la crisi delle democrazie per evitare l'avanzamento dei regimi autocratici

 Aldilà della potenza bellica della Russia o della Cina, esiste un fattore molto più preoccupante per l’occidente: la scarsa convinzione e determinazione delle sue popolazioni a contrastare una idea alternativa in senso negativo, mediante l’elemento fondante su cui si basa tutta la costruzione occidentale, circa la democrazia. Non sono in discussione le prassi attraverso cui si esercita e si mette in pratica il sistema democratico, quanto il suo mancato rinnovo e la mancanza di vitalità della pratica democratica, che, viene data come dato acquisito, senza un necessario rinnovo. Uno dei segnali più evidenti è la sempre maggiore mancata partecipazione al voto, fattore già ben presente negli Stati Uniti, che si sta imponendo anche in Europa, eleggendo i rappresentanti istituzionali con percentuali di votanti sempre più ridotte. Il fenomeno è in forte aumento e deriva dalla scarsa fiducia verso i politici, che non hanno saputo affrontare con la dovuta perizia i tempi attuali, dove le trasformazioni economiche, tecnologiche hanno portato ad un peggioramento generale delle condizioni, grazie al mancato contrasto di una diseguaglianza sempre più aumentata. La disparità economica ha portato disparità sociale con un risentimento comprensibile a cui non si è voluto mettere riparo e che rappresenta la questione centrale nel peggioramento dei sistemi democratici. Se il populismo ha avuto delle oggettive facilitazioni ad affermarsi, lasciando però più che percezioni negative dovute all’incapacità di esercitare adeguate politiche di governo, i partiti e movimenti che si sono mossi in senso opposto a questa tendenza, non hanno saputo imprimere una spinta positiva per la risoluzione dei problemi. Si è determinata una sorta di immobilità, che spesso ha costretto a collaborazioni contro natura, compromessi che non hanno fatto altro che favorire immobilità e sostanziale rinvio dei problemi. Al contrario nelle situazioni contingenti appare necessaria una velocità di decisione che è necessaria contro regimi dittatoriali o autocratici. Quando, poi questa necessità di velocità di decisione si trasferisce dall’ambito statale a quello sovranazionale i rallentamenti addirittura aumentano, bloccati da regolamenti orami superati dai tempi, con regole assurde come quelle relative all’unanimità circa ogni decisione. Certamente già in condizioni normali ciò costituisce una percezione di mancato funzionamento del sistema democratico e la sospensione, seppure leggera, dettata dalla pandemia ha evidenziato come le regole democratiche non hanno offerto alternative per affrontare l’emergenza sanitaria a decisioni prese, forzatamente, in ambiti ristretti. Con un confronto militare in atto non si può non notare come Putin ed il suo sistema autoritario sia più efficiente contro una miriade di stati con regole proprie e che necessitano di continui dibattiti parlamentari. Il problema è che si è arrivati impreparati ad una situazione come quella del conflitto ucraino, una guerra in Europa, senza una organizzazione capace di mantenere l’efficacia democratica unita alle esigenze dalla situazione. Putin ha scommesso molto su questo aspetto, in realtà ottenendo l’effetto opposto sul versante politico, mentre per l’aspetto militare il risultato appare differente, anche la Cina ha cercato, come politica funzionale ai suoi scopi, di dividere l’Unione mantenendo una critica costante ai sistemi democratici, entrambe le due potenze hanno agito anche in maniera non ortodossa mediante i sistemi informatici e finanziando gruppi populisti e contrari all’ordine democratico. Questi segnali sono stati recepiti dai governi occidentali, ma sono rimasti nel campo ristretto degli addetti ai lavori, senza diventare allarmi veri e propri per i ceti sociali, soprattutto i medi e quelli bassi, sempre più alle prese con le difficoltà economiche. Ecco perché una riduzione delle diseguaglianze insieme con il miglioramento dei servizi e quindi della qualità della vita, possono essere un metodo valido per fare apprezzare maggiormente la democrazia a chi se ne sta allontanando sempre di più ed essere propedeutica ad una azione a livello di stati per il rafforzamento dell’idea libertaria contro le dittature sempre più emergenti.

venerdì 8 luglio 2022

Il ministro degli esteri russo, per la prima volta dall'inizio del conflitto, presente ad un grande evento internazionale

 Come prologo al G20, che si terrà il prossimo novembre a Bali in Indonesia, in questi giorni, nella stessa località si tiene il G20 che riguarda i ministri degli esteri delle prime venti economie del mondo. Si tratta di una occasione notevole, soprattutto per la Russia, che può ottenere una visibilità che gli sta mancando con il progredire del conflitto ucraino. Il ministro degli esteri di Mosca, dopo l’inizio dell’invasione chiamata operazione militare speciale, avvenuta il 24 febbraio, ha compiuto diverse missioni diplomatiche che, però, sono stati quasi esclusivamente vertici bilaterali, senza avere mai l’occasione di potere frequentare un evento multilaterale di portata mondiale. Essere presente per la Russia rappresenta un’occasione imperdibile, anche se ha sollevato parecchie critiche da parte dei paesi occidentali, che hanno boicottato i colloqui con il massimo rappresentante di politica estera di Mosca, sottolineando la necessità di non firmare alcuna dichiarazione congiunta ed arrivando ad esprimere pareri favorevoli all’esclusione della Russia da tutte le riunioni del G20. La ragione è quella di non fornire una platea così importante e che fornisce ampia risonanza internazionale ad un paese che, invadendone un altro, ha violato ogni regola del diritto internazionale. Questa opinione, largamente condivisa dai paesi occidentali non è condivisa da nazioni come Cina, Indonesia, India e Sud Africa, che hanno assunto atteggiamenti più concilianti verso Mosca, soprattutto sul tema delle sanzioni. La Russia in questo è affiancata in maniera esplicita dalla Cina nel negare la legittimità delle sanzioni economiche e politiche contro Mosca, adottate dall’occidente, perché decise al di fuori delle Nazioni Unite. Questa obiezione non pare degna di un possibile accoglimento, anche aldilà della palese violazione russa e per avere compiuto crimini di guerra contro la popolazione civile, proprio perché il meccanismo di funzionamento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prevede che i membri permanenti, tra i quali ci sono Cina e Russia, possano esercitare diritto di veto sulle risoluzioni, in questo caso in aperto contrasto sull’obiettività del giudizio e sul conflitto di interessi di Mosca. Malgrado le resistenze dei colleghi occidentali il ministro russo è stato capace di attirare l’attenzione, non solo per la sua presenza, ma per l’incontro con il suo omologo cinese, dove sono stati trovati diversi punti di convergenza, soprattutto contro gli Stati Uniti, accusati di praticare una politica espressamente diretta al contenimento di Mosca e Pechino, anche mediante il sovvertimento dell’ordine mondiale. Il ministro cinese ha sottolineato come, nonostante le difficoltà, rappresentate dal peso delle rispettive sanzioni, i due paesi restino uniti in una prospettiva strategica comune, Questa dichiarazione, aldilà dell’obiettivo rappresentato dagli Stati Uniti e, quindi, di riflesso da tutto l’occidente, pone seri interrogativi sull’atteggiamento cinese circa il proseguimento del conflitto e sulla posizione di Pechino. La Cina, pur contraria, per tutelare i propri interessi commerciali, allo stato di guerra non gradisce l’invadenza di Washington circa Taiwan, un caso molto analogo ai territori dell’Ucraina orientale o della Crimea ed inoltre l’avversione è aumentata dopo gli USA hanno nuovamente accusato in modo esplicito i cinesi di praticare spionaggio industriale. Il problema, peraltro, è concreto ed ha costretto gli Stati Uniti a contrastare anche quelle aziende occidentali che collaborano con Pechino. La Cina vede in questo atteggiamento un comportamento americano analogo a quello praticato contro la Russia con l’espansione dell’Alleanza Atlantica e quindi dell’influenza USA nei paesi ex sovietici, che Mosca considerava aree di propria influenza: l’arrivo potenziale americano sui confini russi, giustifica, almeno in parte, la reazione russa. L’analogia con l’attività americana in Russia, per la Cina ha una doppia valenza e riguarda sia Taiwan che l’espansione commerciale che permette la crescita del prodotto interno lordo, ritenuta una necessità irrinunciabile per il governo della Repubblica Popolare. Se si comprendono le ragioni statunitensi per una analoga crescita dell’economia nel contesto globale, in evidente competizione proprio con la Cina, alcune ragioni potrebbero essere mitigate in ragione di togliere un sostegno, che sembra in incremento, da parte di Pechino verso Mosca. Togliere, almeno in parte, l’appoggio cinese, costringerebbe Putin a rivedere le sue posizioni nella guerra ucraina e potrebbe essere la via più veloce verso una tregua e la conseguente fine del conflitto.

mercoledì 6 luglio 2022

Biden visiterà l'Arabia Saudita invertendo il suo giudizio

 La riapertura dei pellegrinaggi alla Mecca, dopo la sospensione di due anni per la pandemia, precede la visita del presidente americano Biden in Arabia Saudita. Il numero di pellegrini previsto è di circa un milione e la visita alla città santa dell’Islam risulta obbligatoria per i fedeli musulmani almeno una volta nella vita. Il pellegrinaggio di questi giorni è il più importante dell’anno e per la ricorrenza, il principe ereditario Mohammed Bin Salman intende sfruttarne tutte le potenzialità che può ricavare soprattutto a livello politico. Se in condizioni di normalità, per il paese arabo la ricorrenza religiosa porta un incremento dei guadagni e fornisce una legittimità maggiore a Riyadh all’interno del mondo islamico, quest’anno il pellegrinaggio potrebbe essere funzionale, se non ad una riabilitazione, almeno ad una sorta di sospensione del giudizio sul principe ereditario relativamente all’omicidio del giornalista dissidente avvenuto in Turchia, di cui Bin Salman è stato accusato di essere il mandante. Proprio per questo fatto lo stesso presidente statunitense Biden aveva descritto l’Arabia Saudita come un paria. Nel frattempo in Arabia Saudita è stato celebrato un processo dove sono stati condannati alla pena capitale per la morte del giornalista alcuni componenti dei servizi segreti, ma ciò non è servito per eliminare i dubbi sul principe ereditario, malgrado un incremento della sua attività pubblica e la concessione di alcune riforme verso le donne, che sono sembrate, per la verità, più apparenti che sostanziali; tuttavia la congiuntura internazionale con la guerra in Ucraina che ha determinato le sanzioni, soprattutto sulle forniture energetiche, impone la necessità di riprendere le relazioni con il regime saudita soprattutto per facilitare l’incremento delle forniture del petrolio di Riyadh verso gli alleati americani penalizzati dal blocco dalle importazioni dalla Russia. Si tratta di un chiaro episodio di realpolitik, che, per raggiungere obiettivi immediati, sacrifica la condanna di uno dei paesi più repressivi del mondo, che, tra l’altro, è protagonista della feroce guerra nello Yemen, dove per gli interessi sauditi sono stati sacrificati civili inermi e che ha creato una situazione igienico sanitaria tra le più gravi del mondo. Del resto un caso analogo è rappresentato dal sacrificio della causa curda, che con i suoi combattenti ha praticamente sostituito i soldati americani contro lo Stato islamico, a favore di Erdogan, un dittatore palesemente in difficoltà all’interno del suo paese, che cerca una riabilitazione internazionale con la sua azione diplomatica per la risoluzione della guerra tra Kiev e Mosca. Gli analisti internazionali prevedono che Biden, proprio per giustificare la sua visita e con essa la riabilitazione del paese arabo, sarà impegnato a lodare le riforme promesse da Bin Salman per riformare il rigido impianto statale di tipo islamista. Se queste giravolte politiche sono sempre esistite e sono state anche giustificate dalle necessità contingenti, occorre però arrivare, anche se non in maniera immediata ma progressiva, ad punto fermo dove certe nazioni che presentano determinate condizioni non possano più rientrare tra gli interlocutori affidabili. Il discorso è certamente molto ampio perché investe diversi settori, se non la totalità, degli aspetti politici ed economici che riguardano le democrazie occidentali. Il caso in questione evidenzia la peculiarità di fornire credito internazionale ad un mandante di un assassinio, un crimine compiuto sul terreno di un paese straniero ed inoltre contro la libertà di stampa, una persona che ha violato una serie di regole che non lo possono qualificare come interlocutore all’altezza degli standard richiesti, tuttavia il momento di necessità, dovuto anche ad una possibile, anche se non probabile, potenziale collaborazione con Stati nemici, obbliga il massimo rappresentante occidentale a convalidare la promessa di eventuali miglioramenti di leggi, che con ogni probabilità, saranno solo operazioni di facciata. Dal punto di vista diplomatico può rappresentare un successo, ma da quello politico, rappresenta una sorta di delegittimazione, non del singolo presidente americano, ma di tutto l’occidente. La necessità di eliminare rapporti di questo tipo, o, almeno, averli da un punto di forza, deve essere elaborata in maniera programmata e progressiva con una politica generale capace di investire sia gli aspetti politici che economici, iniziando proprio dall’interno dell’occidente, mantenendo le peculiarità dei singoli Stati ma trovando punti comuni non derogabili regolati da accordi e trattati internazionali regolarmente ratificati dai parlamenti nazionali.

giovedì 30 giugno 2022

L'Alleanza Atlantica avverte la Russia e la Cina circa la tutela dei propri interessi

 L’incontro di Madrid dell’Alleanza Atlantica ha sancito il cambio di impostazione e finalità dell’organizzazione di Bruxelles, ma ha, soprattutto, permesso di registrare una nuova vitalità dettata dalle contingenze del momento, che vengono assunte come scenario di lungo periodo e di difficile soluzione, per il quale occorre una presa d’atto ufficiale, che obbliga a decisioni pratiche per contrastare gli avversari. Una delle maggiori novità è l’abbandono della neutralità da parte di Svezia e Finlandia per entrare nell’Alleanza Atlantica, appianate le divergenze con la Turchia, con una tempistica piuttosto rapida se messa in relazione ai comportamenti di Erdogan, che consente un allargamento notevole dell’area delle potenziali operazioni, dove è molto rilevante la frontiera che il paese finlandese divide con la Russia, ormai accerchiata ad ovest dei suoi confini. L’importanza del ruolo, involontario, di Mosca come propulsore allo slancio dell’Alleanza Atlantica, ha consentito una presa d’atto forte sulla necessità della tutela dei confini e della conseguente integrità territoriale, nonché della sovranità dei singoli stati che appartengono all’Alleanza. Sebbene la Russia rappresenti l’emergenza più attuale, che obbliga a considerare la crisi presente come la peggiore dalla fine del secondo conflitto mondiale e, che di conseguenza rende necessario un riarmo massiccio e, probabilmente, una grande mobilitazione di militare, la visione dell’Alleanza Atlantica deve essere per forza di cose, ben più ampia. Lo scenario mondiale generale, aldilà di quello europeo, acuisce la concorrenza strategica nel contesto globale e le sfide, presenti e future sull’economia diventeranno sempre più esasperate, ma non solo: la multipolarità della scena diplomatica comprende notevoli rischi per gli assetti geopolitici, la presenza delle emergenze terroristiche e la proliferazione nucleare, costituiscono minacce sempre più concrete a cui rispondere. Se la Russia è il presente più urgente, non viene tralasciato il rapporto con la Cina, con cui necessita di trovare un dialogo per non fare finire il rapporto come con il Cremlino; tuttavia viene riconosciuto che Pechino utilizza metodi violenti e coercitivi per conseguire risultati, al suo interno, in aperto contrasto con i valori occidentali, mentre verso l’esterno utilizza, in analogia con la Russia, sistemi per influenzare i paesi occidentali ed insiste per esportare la propria influenza politica ed economica verso gli stati poveri; mentre sul tema della vicinanza con Mosca rappresenta un oggettivo pericolo per l’occidente sul quale deve essere avvisata sulle relative possibili conseguneze. Il problema dei rapporti con gli stati autoritari accompagnerà senz’altro il futuro, con temi di difficile soluzione, come la proliferazione degli armamenti, non solo quelli nucleari, ma anche quelli chimici e batteriologici ed anche le conseguenze del riscaldamento climatico: se le intenzioni sono quelle di usare la diplomazia, occorre prevedere situazioni di confronto in cui sono necessarie prese di posizione molto dure e che possano comprendere anche il potenziale uso della forza. Anche l’Africa, però rappresenta un’emergenza, perché subisce condizioni favorevoli allo sviluppo dell’estremismo che prospera grazie alle carestie ed alla crisi alimentari ed umanitarie, inoltre investire nel continente nero significa fermare l’espansione e l’ambizione proprio di Cina e Russia, che stanno progressivamente occupando gli spazi vuoti lasciati dagli occidentali. Le conclusioni del vertice riguardano la fine del progetto di instaurare rapporti amichevoli con gli eredi dei sovietici, come enunciato nel 2010 a Lisbona, l’Alleanza Atlantica diventa pienamente consapevole che attualmente Mosca agisce in maniera diretta per alterare la stabilità dell’Europa e dell’Alleanza Atlantica, con modalità, anche subdole, che vanno dalla ricerca dell’instaurazione di sfere di controllo mediante aggressione, annessione e sovversione, con mezzi di guerra convenzionale, per ora, ma anche informatici. La retorica del Cremlino, che infrange in modo sistematico le regole di convivenza internazionale, non può che essere un ostacolo per qualsiasi rapporto con la Russia e la dichiarazione di disponibilità a mantenere aperti i canali di comunicazione, appare come una dichiarazione non programmatica e sostanziale, ma soltanto una formalità dovuta alla necessità diplomatica.

martedì 28 giugno 2022

L'Alleanza Atlantica incrementa la sua Forza di intervento rapido

 Il vertice dell’Alleanza Atlantica di Madrid si annuncia come quello più difficile della sua storia; finito il dualismo della guerra fredda, con un mondo bipolare, che si basava sull’equilibrio del terrore, l’accelerazione dell’evoluzione contingente obbliga l’alleanza militare occidentale a pensare ed agire in maniera preventiva e più incisiva di una volta. La deterrenza nucleare non basta più in uno scenario dove si è tornati a modelli di guerra tradizionale, che non si immaginava più potessero verificarsi. Se sullo sfondo resta la questione cinese e quella del terrorismo islamico, che sta sfruttando la maggiore attenzione sulla guerra ucraina per riguadagnare consensi tra le popolazioni sempre più povere, l’urgenza di contenere la Russia è la questione più urgente, sia dal punto di vista politico, che da quello militare. Una eventuale affermazione di Mosca creerebbe un precedente deleterio per la scena mondiale, con il mancato rispetto del diritto internazionale come metodo di affermazione dei progetti degli stati più forti: significherebbe un concreto pericolo per le democrazie, con governi sempre più obbligati a risposte rapide e non mediate dalla logica parlamentare e, di conseguenza, ancora più delegittimati. La tentazione di esecutivi quasi autocratici sarebbe un logico risultato in una situazione dove l’assenteismo e la sfiducia del corpo elettorale segnalano un progressivo distacco dalle istituzioni. Non è impossibile che all’interno del progetto di Putin, un risultato accessorio al risultato della riconquista dell’Ucraina, sia proprio quello di indebolire le democrazie occidentali, obiettivo, peraltro, percorso più volte con l’intrusione degli hacker russi, sia in fase di ricorrenza elettorale, sia nel tentare di indirizzare verso i sovranismi il gradimento delle opinioni pubbliche occidentali. In questo quadro generale, che è forse meno urgente della guerra in atto, ma è ugualmente importante, l’Alleanza Atlantica intende prendere come ulteriore misura per contenere Mosca, oltre a continuare a rifornire di armi sempre più sofisticate Kiev, cambiare profondamente l’assetto della forza di intervento rapido, che passerà da 40.000 a 300.000 unità; ciò non vuole dire, per ora, che tutti gli effettivi saranno concentrati nelle zone limitrofe alla Russia, tuttavia, la richiesta di protezione attiva da parte dei paesi baltici e di Polonia, Romania e Bulgaria, in questa fase determina un incremento dei soldati dell’Alleanza in questi territori, oltre ad una capacità di mobilitazione maggiore in caso di bisogno. In termini pratici non si tratta di reclutare nuove unità di militari, ma di contribuire con soldati già addestrati, appartenenti agli eserciti nazionali che compongono l’Alleanza Atlantica, e pronti al combattimento con un sistema di presenze a rotazione. Dal punto di vista politico si tratta di un chiaro segnale a Putin, che vede così incrementare la presenza degli avversari proprio sui confini russi: un risultato ottenuto soltanto con i suoi calcoli completamente errati: quello che occorrerà verificare sarà se il Cremlino saprà contenere la propria contrarietà senza eccedere con le provocazioni: la probabilità di un incidente sarà sempre più possibile se Mosca continuerà a sorvolare con i suoi mezzi aerei i cieli dei paesi baltici. Al punto in cui si è sviluppata la situazione militare in Ucraina, la misura adottata dall’Alleanza Atlantica appare necessaria ma avvicina ancora di più un potenziale scontro con le forze militari russe, anche perché da Mosca procedono a fare coincidere gli incontri dei leader occidentali con atti completamente al di fuori delle normali logiche militari, come colpire in maniera indiscriminata obiettivi di esclusiva natura civile, provocando morti e devastazione gratuite, che hanno il solo scopo di terrorizzare la popolazione ucraina, ma anche di rendere pubblica la minaccia verso gli occidentali. Se questa pratica tragica, rivela una debolezza intrinseca della Russia, sia militare, che politica, l’impressione è che Putin si sia reso conto di non potere portare a termine il proprio obiettivo e che quindi intensificherà la violenza malgrado tutto: si tratta di una tattica già sperimentata in Siria, dove però gli avversari erano molto più deboli e meno organizzati; se la forza militare russa è stata sopravvalutata dallo stesso Cremlino, ciò potrebbe portare a rifiutare ogni compromesso verso la pace trascinando l’occidente in guerra in  maniera deliberata, proprio perché Putin, a questo punto, non può permettersi di uscire sconfitto. Agli USA va ascritto, comunque, un errore analogo a quello di non essere intervenuti in Siria, cioè quello di non avere coinvolto l’Ucraina nell’Alleanza Atlantica o in qualche altra forma di protezione: Putin, in quel caso, probabilmente non si sarebbe mosso.

mercoledì 8 giugno 2022

Il problema del grano ucraino usato dalla Russia per i suoi fini.

 La speculazione sul grano ucraino, per diminuire le carenze delle riserve dei paesi africani, nasconde una serie di problematiche che la rendono funzionale ad una serie di interessi contrastanti, non solo delle parti in causa, ma anche di attori internazionali, come la Turchia, che perseguono proprie finalità. La stampa russa dice che Mosca ed Ankara, grazie all’intervento di mediazione delle Nazioni Unite, avrebbero raggiunto un preliminare accordo per permettere l’esportazione del geno di Kiev attraverso un corridoio marittimo con partenza dal porto di Odessa. La prima condizione posta è lo sminamento del porto di Odessa, formalmente per garantire la massima sicurezza alle navi in uscita verso il Mar Nero, tuttavia l’intenzione del Cremlino appare evidente: liberare dalla minaccia degli ordigni marini il litorale di Odessa per preparare e favorire uno sbarco dei militari russi; inoltre un’altra regola imposta da Mosca è quella di ispezionare le navi mercantili per evitare eventuali trasporti di armi per le forze armate ucraine. I timori di Kiev non possono essere altro che fondati, Putin intende usare le future carestie in maniera strumentale per rimuovere le legittime difese ucraine di Odessa, si tratta di un metodo usato più volte dal Cremlino, che ormai è totalmente inattendibile sulle proprie promesse. Anche la Turchia di muove in maniera analoga: la pessima situazione economica impone strategie di distrazione verso il popolo turco, l’attivismo internazionale è funzionale a coprire la pessima amministrazione dell’economia del paese, per cercare una rilevanza diplomatica, che serve anche a coprire la sconfitta morale data dalla volontà statunitense di includere nell’Alleanza Atlantica i paesi di Svezia e Finlandia, a cui Ankara è contraria perché li ritiene rifugio di curdi. L’appoggio turco nel negoziato sul grano è fondamentale per un paese ormai isolato sulla scena internazionale come la Russia e proprio attraverso Ankara, Mosca cerca anche di addossare un eventuale fallimento del progetto all’opposizione dell’Ucraina, certamente non convinta dall’eventualità di sguarnire Odessa dalle difese marittime, in questo caso per il Cremlino sarebbe una naturale conseguenza addebitare la responsabilità a Kiev del mancato rifornimento di cereali verso i paesi africani; anche se l’evidenza dei fatti è sotto gli occhi di tutti occorre ricordare che gran parte dei paesi africani ed asiatici non hanno preso una posizione ufficiale contro Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina e probabilmente non riconoscerebbero la responsabilità russa delle mancate forniture di grano. Insieme a questa tattica, Putin sostiene che non può ricadere sull’operazione militare speciale la colpa del deficit alimentare, ma che ciò, oltre ad essere iniziato con l’epidemia del corona virus, è da addebitare alle sanzioni occidentali a carico della Russia. I numeri delle mancate esportazioni dicono, però, tutt’altro: l’Ucraina, prima del conflitto, deteneva una quota di mercato pari al dieci per cento del totale mondiale di grano e mais, una quota molto rilevante in una congiuntura alimentare globale già difficile a causa di scarsità delle acque per irrigazione e carestie. Attualmente sono 22,5 milioni di tonnellate di cereali, che sono bloccate da quando è cominciato il conflitto. I mezzi che consentono di fare uscire dal paese le derrate alimentari sono soltanto quelli su rotaia, specialmente attraverso la Polonia, ma esistono difficoltà oggettive che ne limitano i quantitativi di trasporto, tra cui la ridotta capienza dei treni e lo scartamento ridotto delle ferrovie ucraine, che costringe ad effettuare il trasbordo dei cereali, una volta arrivati in Europa. Il presidente ucraino ha previsto che, in caso di continuazione del conflitto, la quantità di cereali bloccati, potrebbe salire in autunno a circa 75 milioni di tonnellate ed ha ammesso che sono necessari corridoi marittimi per l’esportazione: al momento i colloqui di Kiev sull’argomento sono in corso non solo con la Turchia e Nazioni Unite, ma anche con Regno Unito, Polonia e nazioni baltiche, proprio per ridurre il trasporto su rotaia. Resta, comunque, l’assenza di un dialogo con la Russia, che, nemmeno, la gravità del problema della fame nel mondo, riesce a sbloccare. Al contrario, proprio questo argomento poteva costituire una base di partenza per sviluppare un discorso comune per avviarsi sulla strada, se non della pace, almeno del cessate il fuoco, ma la tracotanza russa ancora una volta ha mostrato la sua vera intenzione di non fermarsi di fronte a nulla per raggiungere i propri obiettivi illegali, secondo i principi del diritto internazionale.

giovedì 26 maggio 2022

Il mancato rispetto dei diritti umani come possibile legame tra Cina e Russia

 La visita in Cina dell’Alto Commissario per le Nazioni Unite per i diritti umani, l’ex presidente del Cile Michelle Bachelet, ha messo in evidenza come Pechino intende il rispetto per i diritti umani e civili. L’occasione è stata il viaggio per cercare di accertare il trattamento che riceve l’etnia degli uiguri, minoranza cinese di fede musulmana, che è oggetto di rieducazione da parte delle autorità cinesi. L’indagine conoscitiva è stata dovuta alle ripetute denunce delle Organizzazioni non governative, che hanno segnalato ripetuti episodi di violenza e sopraffazione da parte delle forze di polizia; in special modo sono stati segnalati casi di repressione riguardanti numerose persone incarcerate tra cui bambini. Il regime carcerario è improntato ad una durezza inaudita, che comprende violenze psicologiche e fisiche, che, spesso, portano alla morte di persone, la cui unica colpa è quella di non integrarsi con il volere del regime cinese. Le accuse sono spesso pretestuose e costruite e prive di presupposti giuridici, nemmeno quelli della legislazione cinese. Questa lotta di Pechino contro gli uiguri si protrae da tempo e mira ad azzerare la cultura musulmana cinese, interpretata come alternativa alle finalità del partito comunista e della nazione cinese. Pechino giustifica le carceri dove vengono imprigionati gli uiguri, come centri di formazione professionale, dove il lavoro coatto delle persone incarcerate è sfruttato a costo zero per produzioni destinate anche al mercato occidentale. Ufficialmente la Cina sostiene che la gran parte di queste strutture ha cambiato destinazione o, addirittura, è stata chiusa, ma, secondo diverse Organizzazioni non governative straniere, starebbero ancora assolvendo la loro funzione originaria di prigioni per riprogrammare il popolo uiguro. L’affermazione del presidente cinese circa questa situazione, anche lo Xinjiang, la terra degli uiguri, non è stato menzionato è che lo sviluppo dei diritti umani in Cina è conforme alle condizioni nazionali. Questa affermazione implica un relativismo a proprio uso e consumo della Cina, riguardo un tema che non dovrebbe ammettere deroghe, per lo meno sugli standard minimi di base circa le libertà personali, i diritti civili e la libertà di esercitare le proprie idee politiche e religiose. Ovviamente la Cina è una dittatura autoritaria e non può permettere tali libertà, proprio perché minacciano l e basi stesse del potere del paese; piuttosto quello che si deve intendere come condizioni nazionali è la libertà di produrre e consumare, sempre nel rispetto di quanto voluto dallo stato; tutto ciò riporta all’importanza di sussistenza e sviluppo come unici diritti effettivi concessi dal partito comunista. Andare oltre questa visione significherebbe, appunto, arrivare a conseguenze disastrose per l’impianto statale cinese: replicare modelli di altri paesi viene visto come una minaccia per l’ordine costituito. Ora queste affermazioni non rappresentano alcuna novità, la mancata e funzionale considerazione del governo cinese per il rispetto dei diritti civili è risaputa, tuttavia dopo la tragica ed attuale esperienza ucraina, i rapporti con uno stato, che seppure è una superpotenza economica, andrebbero rivisti da parte dei paesi occidentali; in più il progressivo avvicinamento di Pechino a Mosca, nonostante l’aggressione a Kiev in aperta violazione di ogni norma di diritto internazionale, potrebbe favorire un inasprimento ulteriore del Cremlino, proprio sulla instaurazione dei metodi repressivi cinesi collegati alla possibile dichiarazione della legge marziale. Si verrebbero a creare i presupposti, già molto vicini, di due stati, dove i diritti civili sono fortemente trascurati, in grado di sostenersi reciprocamente ed estendere questa contiguità a motivi di ordine internazionale. La questione di Taiwan è già stata accostata per similitudine alle rivendicazioni russe su Crimea e territori ucraini al confine con Mosca. Per Cina e Russia la legittimazione del conflitto contro l’occidente assumerà il significato di giustificare la negazione delle democrazie, non solo in quanto tali, ma proprio come portatrici del rispetto dei diritti civili e politici, che rappresentano gli ostacoli per la legittimazione delle forme di stato autoritario. L’unica alternativa per l’occidente è creare una maggiore autonomia industriale ed energetica, sul lungo periodo ed immediatamente difendere la concezione democratica del rispetto dei diritti civili e delle leggi internazionali, con una difesa più concreta dell’Ucraina e con l’impegno concreto di forzare i blocchi navali che impediscono l’esportazione del grano e che favoriscono la fame nel mondo. Questo può permettere di accrescere un prestigio un poco compromesso per le nazioni occidentali, specialmente con i paesi africani e sottrarli all’influenza russa e cinese, in modo da isolare progressivamente Mosca e Pechino.