Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 4 marzo 2011
La Corea del Nord e la paura dei palloncini
La Corea del Sud sta praticando una guerra psicologica con il Nord, che risulta avere tanto infastidito da minacciare rappresaglie militari e surriscaldando di nuovo le relazioni tra i due paesi. Sull'onda delle rivolte dei paesi arabi e nella speranza che un qualcosa di analogo si verifichi anche nella parte Nore della Corea, Seul ha iniziato a bombardare i vicini con palloncini che portano messaggi contenenti esortazioni alla ribellione al regime di Pyonyang. La condizione della vita dei nordcoreani versa in una situazione preoccupante per la mancanza di generi alimentari e la per la carenza di energia, è una popolazione fiaccata da anni di povertà sia materiale che ideologica, dove appare difficile la possibilità che si possa sviluppare un movimento di opposizione al regime. Il clima creato negli anni dai governanti è quello di un perenne stato di assedio del paese, dove alla popolazione viene fatto credere di trovarsi accerchiata da nemici, che vogliono scalzare l'ordine costituito, che è anche il migliore possibile. I mezzi di comunicazione sono in mano all'élite del paese, qui non è come nei paesi arabi, facebook e twitter non sono strumenti diffusi ed i palloncini, od i messaggi in bottiglia, sono ancora l'unica forma di comunicazione possibile, ancorchè in una sola direzione. Tuttavia il regime nordcoreano, in questo comune a tutte le dittature del mondo, teme l'effetto nordafrica. Il grado di isolamento è talmente elevato da temere anche dei bigliettini attaccati a pezzi di plastica gonfiati. Ma il grado di paura della popolazione è tale da escludere forme di ribellione per la paura delle severe punizioni. Soltanto un intervento esterno può migliorare la vita dei nordcoreani.
Se vince Gheddafi?
La tattica attendista di Gheddafi incomincia a dare i suoi frutti. La proposta di mediazione di Chavez, seppur proveniente da un leader con scarso appeal internazionale, rompe di fatto l'isolamento diplomatico del rais di Tripoli. E' un punto a favore di Gheddafi, che mantenendo l'impegno militare per riconquistare terreno, può contare sull'immobilismo occidentale impantanato nelle paludi delle discussioni diplomatiche. Le infinite discussioni sull'intervento e sul non intervento sono, fino ad ora, il miglior alleato per Gheddafi. Da un lato gli consentono una libertà di azione militare che gli permette di tenere in vita il regime, dall'altro lato, conseguenza del primo, guadagna tempo prezioso per elaborare una strategia che gli consenta di presentarsi ad eventuali negoziati con argomenti sostanziosi in mano. Se Gheddafi non cadrà per mano militare non cadrà n alcun altro modo; è da escludere la via politica, non ci saranno mai elezioni e se anche ci fossero, con il rais al comando sarebbero una farsa. Altrettanto da escludere la via diplomatica da concludersi con un fantomatico esilio: se Gheddafi mantiene il controllo su di almeno una parte della Libia non mollerà mai il potere. Una permanenza di Gheddafi apre scenari imprevedibili sia sul piano della politica internazionale, sia su quello della sicurezza ed infine sia su quello economico. Sembrerebbe strano se il colonnello di Tripoli non la facesse pagare all'occidente, che ha operato nei suoi confronti un voltafaccia, seppur timido. Tripoli potrebbe allearsi con paesi come l'Iran, offrendo i suoi porti alle navi della repubblica teocratica, così l'Italia avrebbe davanti a se, ad esempio, un pericolo costante. Da non trascurare una possibile alleanza con Al Qaeda, che potrebbe trovare una base in pieno Mediterraneo. In una situazone del genere sarebbe ingestibile anche il problema dei profughi, che tornerebbero ad essere, ma all'ennesima potenza, strumento di pressione e di ricatto. Anche con una Libia dimezzata Gheddafi sarebbe un pericolo per la stabilità ed anche per la pace della regione e dell'intero Mediterraneo. Sarebbe incomprensibile se queste riflessioni non fossero state fatte dalle cancellerie occidentali: lasciare al potere il cane pazzo, come lo chiamava Reagan, sarebbe una fonte di problemi enormi. Intanto la battaglia è in una sorta di stallo dove se ci potrà essere un vincitore questi, senza intervento esterno, è il rais di Tripoli. Alle organizzazioni internazionali ed alle potenze occidentali il dovere di una risposta.
giovedì 3 marzo 2011
Libia: il paradosso della decisione della zona di non volo
Ancora dubbi e tentennamenti su di un possibile intervento militare in Libia. La paura di turbare il mondo arabo, urtandone la suscettibilità ed incrinando l'immagine che Obama sta cercando di costruire per gli USA, è il principale ostacolo sulla strada per intervenire nella guerra libica. Anche la soluzione dell'adozione di una zona di non volo, ritenuto l'espediente più praticabile per il ridotto impiego di uomini, può essere interpetata, dal mondo arabo, come una possibile invasione. L'avversione alla bandiera a stelle e strisce o anche a quella dell'ONU, se inviata dall'occidente, è ancora troppo forte nei paesi arabi per non generare una gamma di rischi che va dalla caduta di immagine fino a possibili attentati terroristici. Questo timore crea un'impasse che la presenza delle navi militari nel Mediterraneo non frena. La soluzione intravista è quella diplomatica, infatti si cerca l'assenso della Lega Araba per l'applicazione della zona di non volo, che permetterebbe di impedire i bombardamenti da aerei o elicotteri sugli insorti. La stessa Lega Araba cerca l'assenso dell'Unione Africana, presumibilmente per coinvolgere più soggetti ed incamerare il maggior numero di soggetti del panorama internazionale. Ma niente si muoverà finche non sarà l'ONU a promulgare una risoluzione che preveda la zona del non volo. Se opzione militare ci sarà dovrà necessariamente essere sotto l'ombrello delle Nazioni Unite. Ed è proprio in seno all'ONU che si deve vincere la ritrosia di Russia e Cina, preoccupate di creare un precedente, che venga poi impiegato a danno dei loro interessi. Ci si trova in un circolo vizioso di veti incrociati e paure che determinano un immobilismo irresponsabile, mentre Gheddafi cerca disperatamente di passare al contrattacco.
In Libia Al Qaeda in posizione di attesa
La Libia, in caso di vittoria di Gheddafi, rischia di diventare il principale serbatoio di Al Qaeda. Per il momento la spinta del popolo per liberarsi del dittatore ha fatto da antidoto a possibili contaminazioni religiose di tipo estremistico, neppure nella Cirenaica, tradizionalmente più orientata ad una visione meno laicista, l'elemento integralista è riuscito a fare da presa. Al Qaeda, da parte sua, si è limitata a dichiarazioni di circostanza, lanciando invettive contro Gheddafi, che, tra parentesi, è stato il primo capo di stato arabo a lanciare mandato di cattura contro Bin Laden, probabilmente per ingraziarsi gli USA. Al Qaeda ha anche annunciato di portare aiuti ai rivoltosi, ma alle parole non è seguito alcun fatto. Tutti questi elementi dimostrano la scarsa presa dell'organizzazione terroristica, in questo fase del conflitto, sugli insorti. Da qui la tattica attendista: il conflitto si trascina in una situazione di stallo, con Gheddafi che pare destinato a mantenere la Tripolitania, ma se le cose andassero diversamente, alla riconquista dei territori ora sfuggiti al controllo dittatoriale, seguirebbe una feroce repressione, con il conseguente annientamento dei rivoltosi e di tutti quei movimenti che ne hanno fornito membri, organizzazione ed idee. Un terreno di coltura ideale per l'estremismo qaeddista, già pronto e preparato per convogliare il potenziale di rabbia che si potrà sviluppare.
L'assassinio del ministro pakistano Bhatti
L'omicidio del ministro pakistano per le minoranze, Bhatti, unico cristiano nella compagine governativa, pone serie riflessioni sul processo di pacificazione nell'area delicata della zona che comprende il confine con l'Afghanistan. E' un brutto segnale perchè colpisce chi era preposto alla tutela delle minoranze, argomento delicato in una zona di profondo integralismo e fanatismo religioso di matrice musulmana ed inoltre di una fede che la maggioranza religiosa ritiene avversa ed in combutta con le potenze occidentali. La causa scatenante dell'omicidio è ritenuta la posizione del ministro a favore di Asia Bibi cristiana condannata a morte per frasi contro Maometto, ed in generale contro la legge che punisce la blasfemia. Il governo Pakistano è in una posizione delicata perchè schiacciato tra le pressioni occidentali, in prima fila gli USA, e gli integralisti, di cui non riesce ad arginare la forza. Sul piano diplomatico questo assassinio è un brutto biglietto da visita per il governo, ma non è, purtroppo il primo. Ufficialmente il Pakistan è alleato con gli USA nella lotta contro i Talebani, che usano la zona di confine con l'Afghanistan, come base per i loro raid nel territorio di Kabul. Praticamente il governo pakistano non è in grado di controllare la zona, ma non da il permesso alle forze NATO di oltrepassare i propri confini, diventando di fatto complice delle milizie talebane. Inoltre il governo di Islamabad è sospettato dagli USA di contenere delle infiltrati nelle proprie forze, in primis i servizi segreti, che fanno il doppio gioco con i talebani. In questo quadro l'assassinio dell'unico ministro cristiano aggrava sicuramente i rapporti con l'occidente e pone il Pakistan ulteriormente sotto una luce non troppo positiva.
mercoledì 2 marzo 2011
L'Unione Mediterranea: uno strumento già pronto per l'integrazione
Esiste uno strumento finora sottovalutato, che può portare un contributo notevole nel futuro del Mediterraneo. Nel 2008 è stata fondata l'Unione del Mediterraneo con l'intento di promuovere la cooperazione su temi di carattere ambientale, energetico, della logistica, dell'antiterrorismo e della protezione civile. In questa fase storica, quindi è già pronto un organismo che nell'immediato futuro può assicurare la partenza di quell'integrazione per risolvere a livello comune i postumi della primavera araba. Per l'Unione del Mediterraneo potrà configurarsi un ruolo chiave nell'affrontare e risolvere le problematiche dei paesi del Mare Nostrum mediante l'assunzione di un ruolo guida nella fornitura di risorse e conoscenze, razionalizzando energie e processi nell'interesse di tutti i membri. Con l'augurata risoluzione delle emergenze, che non sarà comunque breve, e dell'acquisita stabilità delle nuove democrazie, ancora meno breve, l'attività dell'Unione potrà assumere primaria importanza se si sarà capaci di investire in questo organismo sfruttando le sue potenzialità già presenti. Promuovere le sue competenze potrà permettere da subito di gestire l'emergenza emigrazione mediante un uso ad hoc delle funzioni di protezione civile previste nei suoi obiettivi. Un ruolo attivo immediato è necessario per affermarne l'importanza e generare l'affidabiltà necessaria ad operare. E' chiaro che non sono ammessi sprechi, non deve essere un organismo duplicato di altri enti sovranazionali, ma deve specializzarsi nell'area di sua competenza: quella mediterranea. Potenziando ed usando correttamente questo organismo si possono coinvolgere su di un piano paritario i paesi arabi della costa sud per fare incontrare bisogni e speranze delle popolazioni. L'importanza dell'assenza di una subalternità tra le nazioni permetterà la risoluzione di conflitti religiosi e commerciali, prevenendo anche il fenomeno del terrorismo. Insomma uno strumento da non trascurare ma su cui investire per avere grandi probabilità di successo.
Dopo i paesi arabi toccherà all'Africa
Quello che la primavera araba ci sta mostrando è soltanto l'inizio di trasformazioni politiche che riguarderanno il futuro mondiale. Finito il tempo del colonialismo, sta finendo anche il postcolonialismo basato su regimi fantoccio o su dittature di comodo all'occidente. Le rivolte arabe hanno preso di sorpresa la diplomazia e gli analisti, non dovrà più succedere per il futuro. Per i prossimi appuntamenti non dovrà esserci impreparazione. Dietro la fascia dei paesi del sud Mediterraneo vi è immediatamente tutta l'Africa, che la fine del colonialismo ha lasciato con stati inventati di sana pianta, fonte continua di lotte tribali ed etniche. Spesso i regimi che si sono alternati in questi stati sono stati governi di comodo per asservire interessi di altri stati o, addirittura di multinazionali. Negli ultimi tempi vi è un risveglio favorito dall'introduzione di forme di democrazia, che seppure inquinate da corruzione e malgoverno, hanno introdotto nelle coscenze nazionali la presa d'atto della necessità di un autogoverno che vada a determinare le sorti delle nazioni in maniera autonoma. L'esempio arabo non tarderà ad arrivare e l'onda della richiesta dei diritti, in un continente di profonde diversità e diseguaglianze come quello africano, potrà generare fattispecie pericolose per un mondo occidentale che non saprà farsi trovare preparato all'appuntamento. Pur con tutti i distinguo possibili l'esempio da seguire c'è già: la nascita dello stato del Sud Sudan ha, infatti, segnato un punto di svolta nella martoriata storia degli stati africani. Nonostante tutte le lotte armate, che hanno generato migliaia di morti, alla fine si è riusciti, tramite un referendum, ha dare vita ad un nuovo stato omogeneo per la sua cultura comune e quindi fuori dai canoni di creazione postcoloniali, basati essenzialmente sull'aspetto puramente territoriale. Il distacco pacifico del nuovo stato va salutato ed incoraggiato come metodo da seguire e favorire sopratutto da parte occidentale con appoggio materiale di know how democratico. La fase nuova del mondo va sfruttata per riparare torti antichi.
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