Politica Internazionale

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martedì 5 luglio 2011

La Francia spinge per il riconoscimento di Bengasi

La Francia non ritiene più indispensabile il lancio delle armi per rifornire i ribelli libici. La ragione è che è materialmente nato un nuovo soggetto politico, capace di contendere con Tripoli e lottare per la propria autonomia. Questo implica la capacità di instaurare relazioni diplomatiche e contrattare in maniera ufficiale gli aiuti, senza ricorrere a rifornimenti di fortuna, ma passare per gli appositi canali previsti dalle relazioni internazionali. Questo non vuole dire uno sganciamento di Parigi dall'impegno assunto in prima persona per sostenere gli insorti, ma invece vuole essere un tentativo di appoggiare l'accredito sulla scena internazionale degli insorti, per aggirare i dubbi e le questioni, anche di diritto internazionale, che la situazione ha generato. Di fatto, attualmente in Libia, esistono due governi, che combattono una sanguinosa guerra civile e dal punto di vista del riconoscimento internazionale, la situazione appare molto fluida. I rivoltosi, che fanno capo al governo autocostituito di Bengasi, sono stati riconosciuti da diversi stati come interlocutori legittimi, scavalcando l'apparato di Gheddafi, ma non hanno ancora dignità di entità statale sovrana. D'altro canto Gheddafi è formalmente disconosciuto dalla comunità internazionale, dove, in più, risulta gravato di un mandato di cattura da parte della Corte dell'Aja. Conferire dignità internazionale, non solo a parole, ma con gesti concreti, ai ribelli, risulta una mossa per costringere nell'angolo dell'agone internazionale Tripoli, incrementandone ulteriormente l'isolamento.

NATO e Russia: disputa sullo scudo

Tra NATO e Russia ritorna la questione dello scudo spaziale che l'alleanza atlantica vuole disporre al confine con Mosca. La ragione ufficiale è dotare l'europa orientale di uno scudo missilistico per difenderla da eventuali attacchi provenienti dall'Iran, tuttavia i generali russi sono infastiditi dall'estrema vicinanza di questi dispositivi dal proprio confine. Dal punto di vista militare l'operatività strategica dello scudo, praticamente sul confine di Mosca, può sotto intendere una flessibilità di uso notevole, che può prevederne l'impiego anche in casi di frizioni con la Russia ed i suoi paesi satelliti. Il ventaglio delle possibilità è infinito, lo scudo ad esempio può agire come strumento di pressione nel caso si verifichino crisi nella regione caucasica, nodo cruciale per lo smistamento dell'energia. Risulta lampante che la Russia si ritrova uno strumento che può fortemente limitarne la libertà d'azione, sopratutto in quelle regioni che essa ritiene ancora facenti parte della propria sfera d'interesse. La questione, quindi assume particolare risalto dal punto di vista politico, i recenti rapporti tra NATO e Russia potrebbero ritornare di nuovo tesi, aprendo un fronte internazionale che andrebbe ad impattare sulle difficili problematiche in atto sul panorama diplomatico. L'azione in Libia, cui la Russia ha dato l'astensione nel Consiglio di sicurezza, seppure controvoglia, aveva già raffreddato i rapporti con la NATO, ed ora la questione dello scudo nell'Europa orientale fa scendere ulteriormente il termometro della relazione bilaterale. Proprio per questo il segretario NATO Rasmussen ha incontrato il presidente russo Medvedev, per smussare i motivi di attrito in corso. Per la NATO è importante convincere la Russia della bontà delle proprie scelte, reputate strategicamente fondamentali, senza incorrere in complicazioni diplomatiche.

domenica 3 luglio 2011

La Grecia blocca la flottiglia ed Israele resta preda dei propri steccati

La decisione delle autorita' greche di bloccare le unita' navali destinate a cercare di forzare il blocco navale delle autorita' israeliane alla striscia di Gaza, va inquadrata nella politica estera di Atene, ora alleata con Tel Aviv, contro la Turchia. Dopo gli ultimi incidenti occorsi alla nave turca, che cercava di forzare il blocco davanti a Gaza, per portare aiuti umanitari nella striscia, i rapporti tra Israele e Turchia si sono deteriorati, malgrado fino a quel punto fossero stati buoni. Nell'incidente diplomatico seguito alla vicenda si inseri' la Grecia, storica avversaria della Turchia nell'area, sostituendo Ankara nella strategia politica regionale di Israele. La Grecia con quella decisione mise a dura prova gli ottimi rapporti che aveva con gli stati arabi, ma divento' un alleato di primo piano diTel Aviv, che si impegno' ad investire nel paese ellenico, con finanziamenti e scambi militari. Ora l'alleanza non pare subire scossoni ed Israele riscuote in moneta politica i suoi crediti. La flotta di aiuti umanitari conta dodici imbarcazioni con tremila tonnellate di carico destinate alla striscia, la partenza prevista era tra il 30 giugno ed il primo luglio, ma una serie di impedimenti burocratici e di perquisizioni da parte della polizia greca, ne ha impedito l'inizio della traversata. Soltanto due navi sarebbero riuscite a salpare, ma l'impatto con la marina israeliana sarebbe molto difficoltoso senza l'intero effettivo della flotta. Appare chiaro che Israele cerchi di giocare d'anticipo, non potendo permettersi, in questo momento, il fuoco di fila mediatico, che la ripetizione degli incidenti avvenuti con la nave turca, la sottoporrebbe. L'appuntamento di Settembre all'ONU si avvicina sempre di piu' ed i tentativi del governo israeliano per, se non evitarlo, almeno rimandarlo peccano sempre piu' di mancanza di fantasia e di appigli. Dall'altro lato, proprio per la rigida politica fin qui attuata, non vogliono cedere al blocco della striscia nemmeno per fare passare aiuti umanitari, non capendo che il gesto avrebbe un valore enorme sul piano internazionale e potrebbe fare guadagnare simpatie alla causa israeliana. Ma temono fortemente le simpatie che un atto di forza militare, contro attivisti pacifici, si riverserebbero sulla causa palestinese. Il risultato e' un cul de sac politico, un cane che si morde la coda, che denuncia l'inadeguatezza e l'incapacita' del governo israeliano in carica, di sapere gestire la situazione, non essendo capace di uscire da quelli steccati da esso stesso creati.

venerdì 1 luglio 2011

L'Arabia Saudita alza la voce contro l'Iran

L'Arabia Saudita mostra nervosismo per l'azione iraniana di ingerenza nei paesi di Siria, Iraq, Libano e Bahrein e per il sospetto del possesso della bomba atomica. L'annosa inimicizia tra i due stati, entrambi alfieri dell'islamismo, seppure da sponde opposte, vive un nuovo momento di tensione a causa dei rivolgimenti presenti nella regione. L'Arabia Saudita, anch'essa regime fortemente illiberale, ma alleato USA, soffre la crescente attività che l'Iran, sta operando sotto traccia e che attualmente costituisce la base della propria politica estera. Per Teheran la centralità dell'area, sulla cui azione reclama l'Arabia Saudita, fa parte di una strategia che mira a farne la nazione capofila contro il sionismo e l'ingerenza occidentale; ma l'azione tocca anche i potentati vicini a Riyad, di cui l'Arabia è nazione leader. Le rivolte nello Yemen, nel Qatar e nel Bahrein sono state viste come pericolose occasioni di cambiamento dello status quo, basato sulle rigide norme islamiche, e sono state vissute con timore di un'allargamento fin dentro i confini arabi. Non a caso le forze armate saudite sono state direttamente impegnate a sostegno di alcuni governi del'area per sedare le manifestazioni di piazza; il tutto accompagnato dal silenzio degli USA, che, per non urtare il prezioso alleato, non si è mosso con il favore che ha accompagnato la primavera araba. Per i sauditi dietro a tutte queste minacce per il proprio primato nella regione c'è Teheran, che, in modo più o meno velato si è mosso dietro le linee con aiuti materiali e finanziari. Ma vi è un altro motivo di attrito tra i due paesi che rischia di portare ad una proliferazione di armamenti nucleari nella regione: la qestione dell'atomica iraniana. Senza prove certe che Teheran non disponga dell'arsenale militare nucleare, l'Arabia Saudita potrebbe presto cercare di dotarsi, anch'essa, di ordigni equivalenti. Non è una cosa da ritenere impossibile, da un lato le grandi disponibilità finanziarie del paese consentirebbero di colmare velocemente il gap tecnologico, dall'altro lato l'alleanza stretta con gli USA aprirebbe una corsia preferenziale per il dispiegamento strategico di armi atomiche. Occorre però valutare se per gli USA la scelta può costituire una via azzeccata: un conto è portare una propria arma atomica in un paese alleato ed un altro è se favorirne la tecnologia incrementando i paesi possessori dell'arma nucleare. In ogni caso è possibile una decisione unilaterale dei sauditi, che soffrono anche il fatto di essere inferiori, in questo contesto, agli iraniani, non è questo un fattore da sottovalutare, in quanto nel corso della storia è stato più volte determinante. Esiste comunque una alternativa, anche se obiettivamente difficile da percorrere, che viene caldeggiata dagli stessi sauditi: la creazione di una zona comprendente il vicino oriente fino all'Iran, libera da armamenti nucleari sotto la supervisione dell'ONU. In questa area vi è anche Israele, che difficilmente sottoporrà ad un esame, anche super partes, i propri armamenti.

giovedì 30 giugno 2011

Cina: 90 anni di Partito Comunista

La Cina festeggia i primi novanta anni del Partito Comunista. Fondato a Shangai nel 1921 il Partito Comunista cinese guida la nazione più popolosa del mondo dal primo ottobre 1949, quando Mao Tse-Tung proclama la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Nel periodo della sua vita il partito comunista più grande del mondo, attualmente sono circa ottanta milioni i cittadini cinesi con la sua tessera in tasca, ha mantenuto il potere in virtù di una ferrea censura interna e senza indulgere alle posizioni più critiche, stroncandole con metodica violenza. Il dominio sulla società ha assicurato l'esercizio di un potere decisionale totale, che sta alla base della crescita a due cifre del paese. Nonostante le sue dimensioni gigantesche, il partito è comunque una elite in un paese di un miliardo e trecento milioni di persone, ed il suo incremento si aggira sui tre milioni di nuovi tesseramenti annuali a fronte di ventuno milioni di domande d'ammissione. Dato il grande potere di indirizzo del partito, l'ingresso al suo interno è visto attualmente come ascensore sociale in un contesto che richiede la benedizione della casta dominante anche in questo momento di industrializzazione spinta. E' questo l'aspetto più rilevante del panorama internazionale ed anche storico: una contraddizione in termini, dove il partito che più dovrebbe difendere i diritti dei lavoratori è invece lo strumento che ne garantisce la maggiore oppressione in nome di un processo di crescita nazionale sbilanciato a sfavore della manodopera. Lo sfruttamento della forza lavoro è maturato in un contesto di censura ma anche di corruzione, il male che più affligge il partito. Sopratutto nelle province più lontane dell'impero cinese, il potere dell'organizzazione partitica fa sentire ancora maggiormente il suo peso con indirizzi arbitrari e speculativi, che generano proteste e disordini spesso soffocati nel sangue, oltre che nel silenzio. Per i dirigenti cinesi questo anniversario è l'occasione di enfatizzare al massimo l'evento per mettere a tacere l'opposizione interna e fare apparire all'esterno un paese coeso, capace di marciare come un solo uomo. Tuttavia l'organizzazione parallela alle feste ed alle parate, ha preso le misure contro possibili manifestazioni di dissenso, blindando intere zone, come il Tibet, all'ingresso degli occidentali. La Cina, più volte ripresa da altre nazioni ed organizzazioni internazionali, vuole dimostrare con questi festeggiamenti l'unità nazionale, rivendicando la legittimità dei propri ordinamenti, ma essendo ben conscia di non potere sfondare sul piano internazionale senza assicurare quella dose minima di diritti di base al proprio popolo. Allora l'autocelebrazione del partito cinese serve a fortificare quella coscienza interna che giustifica l'autoreferenzialità del potere di fronte alla massa intera del popolo. In realtà dimostra anche la propria debolezza e l'incapacità di reagire, se non con mezzi antiquati, al vento modernizzatore che da tempo striscia nel paese, sebbene alimentato ancora da una minoranza.

martedì 28 giugno 2011

Le sfide della presidenza polacca

Sul tavolo delle questioni chiave che accompagneranno la presidenza polacca alla UE vi sono la ricerca di unitarietà nell'azione diplomatica, che sarà messa a dura prova a settembre con la questione del riconoscimento dello stato palestinese, e la necessità di una forza armata europea capace di sostenere, nei casi necessari, l'azione diplomatica. La questione militare non è nuova ed è all'origine del dibattito fra i fautori della necessità di una struttura militare sovranazionale per adempiere alle necessità comunitarie ed i sostenitori dell'esclusivo monopolio della forza da parte delle singole nazioni, perchè con funzioni esclusivamente difensive. Questa interpretazione parte da ragioni totalmente condivisibili, ma pensate in tempi differenti da quelli attuali, caratterizzati da minore velocità dello scorrere degli eventi, sostanzialmente con posizioni più cristallizzate. La mutazione dello scenario internazionale, con emergenze dilaganti impone un ripesamento dell'impostazione della difesa europea e del suo ruolo. Non occorre dire che alcun esercito straniero tenterà di invadere la UE o singoli stati suoi componenti, ma l'importanza del fattore diplomatico, peraltro da sempre rivendicato dall'Europa, appare zoppo senza il sostegno della gamba rappresentata dalla forza militare. Si tratta di creare una forza armata sovranazionale capace di operare in ambito umanitario, innazitutto una forza di primo intervento capace di interporsi tra fazioni in combattimento per tutelare la popolazione civile ed intanto permettere alla diplomazia di lavorare alle soluzioni più adatte. Senza questo sostegno l'azione diplomatica, per i casi necessari, risulta notevolmente più difficoltosa ed oltremodo lenta. Ma l'azione diplomatica ha anche la necessità di essere univoca e non ambigua, presa in contropiede dall'incalzare degli avvenimenti la politica estera europea è apparsa divisa e frammentata, con azioni spesso in contrasto prese dai singoli stati. E' invece necessario dare unitarietà per acquisire autorevolezza di fronte al mondo, la UE non è più una etichetta di garanzia, che basta da sola per garantire il prodotto diplomatico sulla scena internazionale, ma necessità di un indirizzo univoco, sostenuto da una chiara azione di politica estera. Settembre srà un banco di prova fondamentale per l'indirizzo che verrà assunto di fronte alla questione palestinese, ma da subito la presidenza polacca dovrà sapere dare unitarietà davanti alla guerra libica, alla questione siriana oltre che sapere dare tutto il sostegno necessario allo sviluppo democratico in Tunisia ed Egitto. L'augurio è che si sia preso coscenza della necessità per la UE di ritornare protagonista, senza ripetere gli errori più recenti.

lunedì 27 giugno 2011

Polonia presidente di turno della UE

Dal primo luglio prossimo, il quarto paese ex comunista, la Polonia, assumerà la presidenza della UE. Il momento di avvicendamento alla spenta presidenza ungherese è particolarmente difficile perchè deve affrontare situazione contingenti particolarmente gravose. L'agenda presidenziale polacca dovrà affrontare, sul piano interno, la questione economica, con particolare attenzione alla crisi greca, cercando di preservare al massimo l'unità continentale, sollecitata in maniera dura dalle spinte localistiche, legate proprio alla difficile gestione della prolungata crisi economico finanziaria. Ma non basterà gestire l'emergenza, compito di per se già arduo, giacchè occorrerà pensare a politiche di sviluppo nuove, che permettano, cioè, di ricostruire e rivitalizzare il tessuto connettivo dell'unione. Il presidente Tusk intende accelerare ed incrementare la libera circolazione delle merci, puntando sulle nuove tecnologie, come motore propulsivo del commercio comunitario. Particolare attenzione verrà senz'altro data allo sviluppo commerciale verso i paesi ex URSS, che possono già vantare notevoli collaborazioni con la UE. Sul piano internazionale l'Europa dovrà riconquistare la sua primaria importanza nel contesto diplomatico, impegnandosi ad una maggiore incisività e sopratutto velocità negli interventi non militari, per favorire vie d'uscita non cruente dalle difficili situazioni in corso. Puntare sull'abilità diplomatica ed ottenere successi tangibili, potrà consentire alla UE di trattare da posizioni di ritrovata forza. E' chiaro che il ruolo preminente della presidenza polacca sarà di cercare la massima unitarietà, sia dal punto di vista politico, che normativo, rendendo più snelle le procedure decisionali, sopratutto in tema di politica estera. I recenti tentennamenti sulla crisi libica, hanno depotenziato la forza dell'apparato diplomatico europeo, che va senz'altro rivisto in un'ottica di maggiore coinvolgimento nelle vicende internazionali. La sensazione di apparente distacco e trattamento burocratico delle crisi internazionali, va rivista in maniera da consentire al mondo la percezione di un coinvolgimento fattivo e di grande livello risolutivo. In questo quadro la creazione di una fondazione europea per la democrazia, come caldeggiato da Tusk, può essere solo il primo passo per muoersi nella giusta direzione.