Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 23 agosto 2011
Estendere l'aiuto militare a tutti i popoli in rivolta contro le dittature?
La vittoria su Gheddafi, ottenuta anche grazie all'aiuto dei paesi occidentali, potrebbe indurre altri soggetti, in rotta con i propri governi, a richiedere formalmente soccorso per uscire da regimi dittatoriali. La questione è spinosa e riguarda diversi punti caldi del mondo, di cui, al momento, il più importante è la Siria. L'aiuto fornito, sotto l'ombrello delle Nazioni Unite inizialmente da Francia e Regno Unito, seguiti dalla NATO, è stato concesso in ragione della prevenzione di una carneficina, che Gheddafi avrebbe senz'altro attuato, per reprimere la rivolta. Praticamente, quindi, l'aiuto occidentale si può inquadrare, secondo la definizione di "guerra umanitaria", al pari di precedenti esperienze come le azioni sulla Serbia o nel Kossovo. Moralmente non pare vi sia nulla da eccepire, la difesa della popolazione civile dovrebbe essere il motivo fondante dell'intervento. Basandosi su questi precedenti e su questo presupposto ulteriori interventi non sarebbero da escludere, essendosi creato un precedente così evidente. In realtà il meccanismo di intervento è più complesso, almeno se si vuole avere la copertura ONU. Per quanto riguarda la Libia occorre dire che l'appoggio cel Consiglio di sicurezza appare una eccezione, in quanto ottenuto con l'astensione di Russia e Cina, tradizionalmente ostili all'ingerenza negli affari interni di altri stati. Inoltre sul piano del panorama internazionale, Gheddafi non godeva di alleanze particolarmente salde, tali da scoraggiare un intervento. Questo fattore ha senz'altro favorito la manovra anticipata della Francia, che ha iniziato le operazioni militari ancora prima della delibera ONU. Ancora un'altra ragione è poi di ordine economico, la presenza in Libia di grossi giacimenti di greggio ha favorito la predisposizione all'aiuto militare in ragione di evidenti causali di convenienza; quello che si rischiava era che il petrolio libico sfuggisse all'approvigionamento per l'occidente, prendendo altre destinazioni. Tuttavia queste considerazioni potrebbero non interessare una persona, ad esempio siriana, che aspira ad un cambio di regime. Quello che rischia di innescarsi è un processo di avversione verso un occidente che fa figli e figliastri. Quello a cui aspirava l'Unione Europea, di essere una guida morale, per i paesi in via di sviluppo o il ruolo di poliziotto mondiale, che gli USA si erano ritagliati a loro misura, stanno naufragando precipitosamente nell'immaginario di diverse popolazioni che ricercano, in un modo o nell'altro, una via per la democrazia. Ma a parte l'immagine, resta il problema concreto, di non potere applicare indistintamente i criteri di un eventuale aiuto, in maniera univoca. Una soluzione, di non facile percorribilità, sarebbe sancire già a livello ONU, una forma di applicabilità dell'intervento militare valida per ogni evenienza. Ma la struttura attuale delle Nazioni Unite non permette tanto facilmente questa modalità proprio per il sistema di voto che regola il Consiglio di sicurezza; anche in quest'ottica, di creare cioè uno strumento che riesca a stare al passo dei tempi, si è resa necessaria una riforma dell'ONU, che cambi i suoi organi e le sue finalità. Viceversa, stante così le cose, non resta rassegnarci ad interventi studiati volta per volta, che, inevitabilmente, scontenteranno qualcuno.
L'incapacità di Israele ne determina l'isolamento
La situazione diplomatica di Israele sta precipitando. Il paese ha scelto la via della durezza nel confronto ed il suo errore, più che pagarlo sul piano militare lo sta scontando su quello internazionale. Tel Aviv non ha saputo interpretare i sentimenti del popolo egiziano e si è da subito schierata con il vecchio faraone che gli garantiva la rendita di posizione della tranquillità della frontiera con Il Cairo. Non intercettando la volontà popolare egiziana, ha acuito i sentimenti avversi di quel popolo per l'eterna questione palestinese; i militari al potere in Egitto, hanno dovuto cedere qualcosa e la frontiera con Hamas è stata aperta. Oltre che una politica miope sulla questione palestinese, il governo israeliano in carica ha mostrato una totale imperizia sui rapporti internazionali, che, di fatto, ne hanno determinato l'isolamento diplomatico. I recenti fatti alla frontiera con l'Egitto e le mosse seguenti del ministero degli esteri di Israele, dimostrano che il paese sta conducendo una tattica suicida, che mette a repentaglio il popolo israeliano. L'escalation negativa ha messo i pericolo anche i rapporti con la Giordania, che temendo l'allargamento della tensione fin dentro i propri territori, non è stata affatto rassicurata dal governo di Tel Aviv. Se si guarda la carta geografica si comprende facilmente che Israele ha deteriorato i rapporti con tutti i vicini. Di Egitto e Giordania si è già visto, resta il Libano, con cui i rapporti erano già difficoltosi ed ora risultano aggravati per la disputa dei confini marini, la Siria è in subbuglio ed ha usato i profughi palestinesi sul suo territorio per distogliere l'attenzione dai propri problemi. Oltre i confini continuano i pessimi rapporti con la Turchia ed il silenzio americano parla più di ogni dichiarazione. La mancata disponibilità a risolvere il problema palestinese, ed anzi aggravandone la situazione ha già fatto perdere ad Israele numerose simpatie ed il paese è precipitato di nuovo nel timore totale degli attentati. Anche la reazione agli atti terroristici, nonostante la smentita di Hamas, ha dimostrato che Israele non è capace di deviare dalla solita ottica: attentato uguale Hamas, senza dimostrare la capacità di capire altre direttrici terroristiche. Senza un cambio di rotta politica, la nazione israeliana e con esso tutta la regione, è destinata ad un gramo destino.
lunedì 22 agosto 2011
La Libia che potrebbe essere
Con l'imminente fine del regime di Gheddafi, sarà ora interessante vedere come si svilupperà il futuro della Libia. E' una grande occasione per i vincitori di dimostrarsi all'altezza per la costruzione di una nuova nazione e di presentarsi al mondo con i giusti attributi per entrare nel consesso internazionale da nazione democratica. La sfida che si presenta per il popolo libico è quella di diventare un laboratorio per la creazione di una democrazia compiuta e fare da apri pista per i popoli arabi ed anche africani. Nonostante l'aiuto della NATO, importante ma non del tutto determinante, i ribelli stanno conquistando da soli la libertà, senza importatori di democrazia, e possono, quindi essere padroni del loro destino. All'euforia, nell'immediato, della liberazione, potrebbe seguire l'ora della vendetta: è indispensabile che i vertici degli insorti mantengano più possibile la legalità, non permettendo atti di vendetta o saccheggi ed applicando ai vinti trattamenti corrispondenti a quelli prescritti dai trattati internazionali. Imporre da subito la legalità deve essere l'obettivo principale nelle prime ore, senz'altro convulse, della vittoria; il nuovo stato deve partire e proseguire su un binario di assoluta legalità che tracci il solco profondo della distanza con il vecchio regime. In questa ottica sarebbe auspicabile una apertura ad ispettori ONU che verifichino la situazione di Tripoli e certifichino la condotta dei vincitori. Sarà interessante vedere come sarà il futuro del rais. Senza augurarsi soluzioni tragiche le due strade più consone ad una soluzione pacifica sono il processo in terra libica o il processo presso la Corte dell'Aja, in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla corte stessa. Se nel secondo caso la procedura sarebbe lineare e codificata nel primo caso l'aspetto nebuloso della normativa e della stessa procedura da applicare rientrerebbe in una sorta di interrogativo di non chiara definizione. Certamente un processo giusto, con tutte le assicurazioni legali per l'accusato, celebrato in Libia darebbe al nuovo esecutivo un elemento in più di apprezzamento internazionale. Durante la guerra si ci è più volte domandato quali formazioni fossero dietro al movimento della rivolta, peraltro l'aspetto confessionale non è mai risultato ne preponderante ne determinante, connotando così l'azione dei ribelli come un moto scaturito dalla necessità di affermare i propri diritti civili. Naturalmente il pericolo di una infiltrazione di gruppi religiosi estremi esiste, tuttavia questa evenienza non sembrerebbe attecchire su di un movimento che pare essenzialmente fondato sulla ricerca della democrazia. In chiave internazionale un avvento della democrazia in Libia dovrebbe aprire ad un rapporto, specialmente con i paesi vicini, più improntato a forme di collaborazione reciproca su problemi come l'energia, i flussi migratori e lo sviluppo interno del paese. La Libia è indiscutibilmente un paese di grandi potenzialità sia per le risorse energetiche, che quelle turistiche, dove dovrebbe registrarsi un notevole incremento. La presenza di una forma di governo democratico dovrebbe infine favorire gli scambi e gli accordi a livello politico, che in un futuro neanche tanto prossimo, potrebbero concretizzarsi in forme di collaborazione ed integrazione, in special modo con la sponda nord del Mediterraneo.
sabato 20 agosto 2011
Hamas interrompe la tregua
Hamas rompe la tregua con Israele. Nonostante le assicurazioni dell’organizzazione della striscia di Gaza di non essere responsabile degli ultimi attentati, Tel Aviv la ritiene, invece, colpevole ed ha dato il via ad una pesante rappresaglia. Entrambi i soggetti sono caduti nella trappola di chi non vuole la pace in Palestina, è verosimile, infatti che Hamas non sia responsabile degli attentati, perchè non ha alcun interesse in questo momento, nell’imminenza, cioè del dibattito all’ONU sul riconoscimento ufficiale dello stato palestinese, ad alzare la tensione e dare così motivo ad Israele di motivare la sua perplessità circa l’argomento. Il governo israeliano sarà ben felice di questa interruzione della tregua perchè potrà così portare avanti il suo programma di contrasto al riconosimento della Palestina in modo più concreto, ma così non farà l’interesse della propria nazione che tornerà a vivere in un clima di terrore schiacciante, dato che sarà dato il via ad una serie di azioni uguali e contrarie, con la violenza come comune denominatore. Il piano di chi voleva il ritorno della tensione sta riuscendo pienamente, facendo leva sulla bellicosità dei due contendenti, l’interruzione della tregua è stata facile e la messa in discussione del difficile lavoro di ricucitura risulta ora azzerato. Anche per l’OLP si tratta di una sconfitta, dopo l’alleanza con Hamas, per puntare alla costruzione dello stato palestinese, ora l’organizzazione di Abu Mazen si trova in una posizione difficile, perchè dovrà infatti cercare una nuova mediazione quasi impossibile. Dall’altro lato è anche in grosso pericolo proprio il legame con l’organizzazione della striscia, che si basa su equilibri precari, per l’ovvia differenza di vedute. Ma anche Israele ha difficoltà enormi: il rapporto con l’Egitto è completamente deteriorato, dopo l’uccisione, per errore, da parte dell’esercito israeliano, di tre militari egiziani; Il Cairo ha richiamato il proprio ambasciatore e convocato quello israeliano, la reazione che rischia di innescarsi è una pericolosa alleanza tra Hamas ed egiziani, che potrebbe portare addirittura ad una riedizione della guerra dei sei giorni. Il momento è veramente pericoloso tutta l’area sta diventando una polveriera: il Libano è alleato di Hamas, la Siria in piena guerra civile e l’Egitto, praticamente in mano ai militari. Tel Aviv senza lo scudo di Mubarak rischia di essere preso in mezzo e dietro il tutto si intravede l’ombra di Al Qaeda e dell’Iran a soffiare sul fuoco.
Turchia ed Iran violano il territorio iraqeno contro i curdi
Esiste una insolita alleanza in Asia, che non è sancita da alcun trattato, ma si basa su una comune linea d'azione. Nella zona Iraqena del Kurdistan, dove gli abitanti godono di autonomia politica, si fanno incessanti le azioni militari di Turchia ed Iran contro i villaggi curdi.
Si tratta di vere e proprie violazioni del diritto internazionale perchè condotte su territorio straniero, quello dell'Iraq, tra l'altro senza alcuna dichiarazione di guerra ne altri contatti di tipo diplomatico.
Sia la Turchia che l'Iran, approffittano dello stato di disorganizzazione dello stato iraqeno per violarne impunemente i confini. Gli USA, che dovrebbero fornire una qualche garanzia per lo stato per cui si sono impegnati per la democratizzazione, osservano in silenzio lo svolgersi degli eventi, bloccati, verso i due invasori per ragioni opposte. La Turchia è il maggiore paese NATO dell'area, quindi si tace per mantenere questa alleanza strategica nella regione; l'Iran, invece, è il peggior nemico della zona, ed il pericolo di iniziare un conflitto dagli esiti fortemente incerti e certamente destabilizzanti per il mondo intero provoca la totale immobilità degli Stati Uniti.
Accusati di essere la base di gruppi terroristici per l'indipendenza del popolo curdo, i villaggi del curdistan iraqeno, i cui abitanti sono stati determinanti, per la loro conoscenza del territorio, per le forze USA contro Saddam Hussein, sono, quindi, lasciati soli di fronte alla violenza congiunta turco iraniana. La Turchia, che ha sempre osteggiato l'indipendenza, anche in forma autonomistica, dei curdi, approfitta della debolezza iraqena per regolare i propri conti ed anzi ha innalzato il livello della repressione specialmente dopo i disordini che hanno avuto luogo durante il periodo elettorale. L'Iran è accomunato ad Ankara nel negare una qualche forma di indipendenza, seppur nella cornice statale, ai curdi perchè teme di creare un precedente di riferimento, non tanto per ragioni etniche, quanto per ragioni politiche, avendo paura di dare troppo spazio ai movimenti politici che richiedono una maggiore libertà nel paese. Inoltre per il governo iraniano esiste una forma di particolare avversione alla popolazione curdo iraqena per l'aiuto fornito agli USA, che li individua come alleati degli americani. Il tutto avviene nel silenzio delle istituzioni internazionali, che, con il loro silenzio legittimano le azioni militari oltreconfine, quindi vere e proprie violazioni della sovranità iraqena. In più la questione curda, nel suo complesso, viene sempre più ignorata, lasciando una intera popolazione, con dignità di nazione, nella più completa impossibilità di autodeterminarsi.
Si tratta di vere e proprie violazioni del diritto internazionale perchè condotte su territorio straniero, quello dell'Iraq, tra l'altro senza alcuna dichiarazione di guerra ne altri contatti di tipo diplomatico.
Sia la Turchia che l'Iran, approffittano dello stato di disorganizzazione dello stato iraqeno per violarne impunemente i confini. Gli USA, che dovrebbero fornire una qualche garanzia per lo stato per cui si sono impegnati per la democratizzazione, osservano in silenzio lo svolgersi degli eventi, bloccati, verso i due invasori per ragioni opposte. La Turchia è il maggiore paese NATO dell'area, quindi si tace per mantenere questa alleanza strategica nella regione; l'Iran, invece, è il peggior nemico della zona, ed il pericolo di iniziare un conflitto dagli esiti fortemente incerti e certamente destabilizzanti per il mondo intero provoca la totale immobilità degli Stati Uniti.
Accusati di essere la base di gruppi terroristici per l'indipendenza del popolo curdo, i villaggi del curdistan iraqeno, i cui abitanti sono stati determinanti, per la loro conoscenza del territorio, per le forze USA contro Saddam Hussein, sono, quindi, lasciati soli di fronte alla violenza congiunta turco iraniana. La Turchia, che ha sempre osteggiato l'indipendenza, anche in forma autonomistica, dei curdi, approfitta della debolezza iraqena per regolare i propri conti ed anzi ha innalzato il livello della repressione specialmente dopo i disordini che hanno avuto luogo durante il periodo elettorale. L'Iran è accomunato ad Ankara nel negare una qualche forma di indipendenza, seppur nella cornice statale, ai curdi perchè teme di creare un precedente di riferimento, non tanto per ragioni etniche, quanto per ragioni politiche, avendo paura di dare troppo spazio ai movimenti politici che richiedono una maggiore libertà nel paese. Inoltre per il governo iraniano esiste una forma di particolare avversione alla popolazione curdo iraqena per l'aiuto fornito agli USA, che li individua come alleati degli americani. Il tutto avviene nel silenzio delle istituzioni internazionali, che, con il loro silenzio legittimano le azioni militari oltreconfine, quindi vere e proprie violazioni della sovranità iraqena. In più la questione curda, nel suo complesso, viene sempre più ignorata, lasciando una intera popolazione, con dignità di nazione, nella più completa impossibilità di autodeterminarsi.
venerdì 19 agosto 2011
Riformare il capitalismo?
Dopo il fallimento del comunismo siamo al redde rationem anche per il capitalismo? Fatta salva la democrazia, ormai imprescindibile dai sistemi politici avanzati, a che punto è la vita del sistema economico alternativo al socialismo? E' innegabile che per il secondo la morte è stata alla fin fine breve, il crollo del muro di Berlino ha provocato l'eutanasia di un sistema, comunque destinato a perire. Per il capitalismo, invece, siamo ad una lenta agonia, che sta trascinando con se conquiste sociali e progressi che parevano ormai dati di fatto. Qualcuno potrebbe obiettare che questi, per i sostenitori più accesi del capitalismo, erano proprio i freni che ne hanno determinato la malattia; tuttavia se si pone come condizione per individuare il capitalismo, l'espansione maggiore possibile del benessere, strumenti come il welfare erano proprio i mezzi, che in democrazia, ne garantivano la diffusione. Il dibattito tra i liberisti estremi e quelli che propugnavano l'attenuazione del capitalismo con forme più smussate, è sempre stato al limite del cruento, ma ora siamo al punto che quelli che rischiano di sparire sono i consumatori trascinando nell'abisso tutto il sistema. L'erosione di ricchezza cui è già stato sottoposto il ceto medio ha provocato un impoverimento generale che ha contribuito a contrarre i consumi ed ha scatenato una pericolosa sintomatologia che sta avendo una difussione velocissima. Agli episodi londinesi sono seguiti gli incendi di Berlino alle premium car, le auto super lusso simbolo di ricchezza e potere, mentre in precedenza in Spagna si sono presentati in piazza gli Indignados. Tuttavia mentre le proteste spagnole sono state pacifiche, il livello di violenza registrato in Inghilterra e Germania segnala la profondità di un malessere che mette in pericolo la tenuta della società. Il buon senso imporrebbe una cura drastica e non i panni caldi che i governi propinano ai loro popoli. Quello da cambiare è tutto il sistema che ha scandito la nostra vita finora; non si tratta ne deve trattarsi di una modalità violenta, ma deve essere per forza di cose condivisa. Il cardine è la redistribuzione del reddito, attraverso leggi, rispettate, ed aumento del welfare; la tassazione, proprozionale, deve essere rispettata ed infine occorre abolire la preponderanza del sistema finanziario su quello produttivo, il quale è l'unico capace di creare vero valore aggiunto. Non si tratta di una rivoluzione è chiaro, ne di mettere in pericolo la proprietà privata, si tratta di ristabilire una equità sociale in grado di garantire una vera diffusione del capitalismo e quindi del benessere. La regolamentazione del mercato deve essere un dato sicuro per impedire la sperequazione delle retribuzioni che, in questi ultimi anni, ha conosciuto picchi ormai insostenibili. La troppa diseguaglianza è un fattore di instabilità sociale che va prevenuto anche nell'ottica di un contenimento della delinquenza. Non sono obiettivi difficili da raggiungere, anche se l'avversario maggiore è il mercato globale, dove sullo stesso terreno si fronteggiano lavoratori con condizioni e salari differenti. Gli stati non si sono attrezzati, probabilmente volontariamente, per combattere questo nemico che gareggia in modo scorretto. L'Europa, ad esempio, ha strumenti sovranazionali per potere tutelare la sua popolazione, le sue aziende ed i suoi lavoratori. Quella che deve passare è una idea di riforma globale che favorisca lo sviluppo in maniera sostenibile per la totalità mondiale. Devono essere superate situazioni dove una piccola frazione di popolazione possiede la maggior parte delle ricchezze. Soltanto così il capitalismo potrà risorgere dalle sue ceneri, altrimenti la prospettiva è il disordine è l'impoverimento generale.
Aung San Suu Kyi incontra il premier della Birmania
Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e leader dell'opposizione della Birmania, ha incontrato per la prima volta il nuovo presidente del paese, Thein Sein. L'attuale presidente è il primo premier senza divisa da diversi anni; pur essendo un ex generale e rappresentante, comunque del mondo militare che sta dietro il governo, Sein rappresenta il primo tentativo concreto di liberalizzare il paese. Questo incontro è particolarmente significativo, perchè arriva dopo circa venti anni di reclusione per Aung San Suu Kyi, durante i quali i militari al governo hanno tentato in tutti i modi di mettere il bavaglio alla protesta dell'opposizione incentrata in special modo sulla rivendicazione dei diritti civili del popolo birmano. L'incontro rappresenta quindi un primo concreto tentativo di pacificazione nazionale e potrebbe aprire la strada ad una effettiva opera di democratizzazione del paese. Occorre ricordare che la posizione del governo è risultata già ammorbidita nei confronti del premio Nobel, alla quale è stato permesso di visitare ufficialmente il paese, dopo la lunga reclusione, nonostante alcuni pareri contrari del gruppo di potere, per il timore di eventuali disordini, poi non verificatisi. Il nuovo governo pare avere cambiato strategia nei confronti della San Suu Kyi, cercandone addirittura il dialogo ed attraverso di Lei con tutta l'intera opposizione della Birmania. Non è un passo scontato per il potere Birmano, tradizionalmente chiuso ed avverso ad ogni dialogo. Il coinvolgimento della maggiore ed autorevole oppositrice, in dialoghi ufficiali con il vertice del governo, potrebbe finalmente significare l'inizio di un percorso importante per l'applicazione dei diritti, tanto rivendicata, nel paese.
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