Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
Cerca nel blog
giovedì 1 settembre 2011
Il petrolio dietro alla guerra libica
Esisterebbe la prova tangibile che la Francia ha condotto la guerra libica per accapparrarsi il 35% della produzione totale, circa 44 milioni di barili, del greggio di Tripoli. Si tratterebbe di un accordo risalente al 3 aprile, scritto in arabo ed arrivato al governo del Qatar, che ha fatto da intermediario tra le forze estere avverse a Gheddafi e gli insorti. Si è parlato più volte di guerra del petrolio, una replica in scala minore della guerra iraqena, tuttavia le ragioni addotte più volte sono state la necessità di una Libia libera e democratica, con un regime stabile ed affidabile con il quale trattare in modo leale. La necessità, in effetti, di un paese con queste caratteristiche sulla sponda sud del Mediterraneo si era resa necessaria da tempo, a causa dei comportamenti sempre più arroganti e bizzarri del colonnello, invero mai osteggiati e sempre consentiti, se non favoriti. Ma nonostante queste ragioni, peraltro evidenti e pienamente condivisibili, il sospetto che dietro il dispiegamento, partito proprio da Parigi, ci fossero grandi interessi petroliferi. Non che la Francia sia la sola ad essersi mossa da questi presupposti, probabilmente, per ora, è la sola ad essere scoperta. Meglio sarebbe stato non nascondersi dietro l'intervento umanitario ma coniugarlo apertamente con le necessità politiche ed anche quelle economiche. In fondo la Libia è un esportatore di petrolio, la Francia ed anche l'Italia ne sono consumatori e Tripoli è il venditore più vicino. I due stati hanno anche l'interesse ad avere un vicino stabile, la decisione di appoggiare i ribelli sarebbe stata pienamente condivisibile mettendo nelle ragioni dell'intervento anche le cause economiche. Anche dal punto di vista del diritto internazionale scegliere di appoggiare i ribelli, in quanto rappresentanti della popolazione oppressa, mettendo in chiaro gli accordi non avrebbe costituito una infrazione. Invece l'ipocrisia della diplomazia e dell'agire diplomatico hanno, alla fine, scoperto il segreto di Pulcinella: un normale do ut des che è convenuto a tutti.
Dall'Austria venti di scisma per la chiesa cattolica
Arriva dalla mitteleuropa la contestazione alla chiesa cattolica. In Austria si sta sviluppando un movimento che richiede di variare alcune norme che regolano la vita del clero. Ben 329 preti hanno lanciato una vera e propria "chiamata alla disobbedienza", con la quale si rivendica il matrimonio dei sacerdoti, l'ordinazione femminile, una revisione sulla posizione della chiesa sul tema dei divorziati, fino alla possibilità per i laici di guidare le parrocchie.
Secondo un sondaggio effettuato nei gironi scorsi in Austria circa il 76 % degli interpellati vede con favore le rivendicazioni dei ribelli cattolici. Questo movimento crea profonda apprensione nelle gerarchie cattoliche, tanto che il teologo Zulehner ha richiesto alla chiesa cattolica di dare risposte in breve tempo, per evitare un eventuale scisma. La questione è delicata, la chiesa non può non tenere conto delle istanze modernizzatrici provenienti sia dai fedeli, che dallo stesso clero. Quello messo sul piatto dai "ribelli" austriaci è probabilmente troppo per la chiesa romana guidata da Ratzinger, tuttavia non può che avviare una discussione su temi che stanno diventando sempre più attuali per tutto l'insieme del cattolicesimo caratterizzato, ormai, da una struttura gerarchica e sociale ingessata ed ormai inadatta a fornire risposte sia al clero che ai fedeli. La crisi delle vocazioni, del seguito dei fedeli, che normalmente non sono i festanti ragazzi delle giornate della gioventù, che non si riconoscono più in una forma esteriore e talvolta falsa, il distacco delle gerarchie dai problemi sociali ed infine il problema della pedofilia hanno generato un malcontento diffuso, che in Austria ha preso una piega che non pare facilmente risolvibile. In casi del genere le risposte del Vaticano sono di rigida chiusura, ma in questo caso non proporre qualche apertura potrebbe rivelarsi controproducente. Le argomentazioni del leader dei sacerdoti rivoltosi Helmut Schuller, sono, per molti versi inappuntabili, in quanto le richieste, per lo meno su diverse questioni, sono solo di ratificare dei dati di fatto ben conosciuti alle gerarchie. Non è un mistero che la politica della chiesa cattolica su casi giudicati spinosi, come relazioni affettive o sessuali da parte di sacerdoti, sia quella di ridurre la cosa al silenzio per non destare scandalo nei fedeli, trattando la cosa in modo ipocrita. Mentre in altre confessioni cristiane l'adeguamento ai più moderni usi sociali non è stato un problema, nella chiesa cattolica si è insistito su di una via ormai anacronistica, che, tra l'altro, non tiene conto della funzione femminile nella struttura, se non in modo marginale; mentre in altre confessioni la donna è parificata all'uomo nel servizio alla chiesa, Roma, pur affermando dichiarazioni di principio, vuote nel loro significato pratico, insiste nel tenere un ruolo subordinato alle donne nelle funzioni e nella gerarchia. Non vi è dubbio che se la protesta dovesse uscire dai confini austriaci potrebbe venirsi a creare una spaccatura in seno al cattolicesimo tra chi è maggiormente sensibile alle istanze di modernizzazione della chiesa e la parte più conservatrice; quello che potrebbe avvenire è in sostanza una divisione tra alto clero ed una parte minoritaria dei fedeli e basso clero ed una parte maggioritaria dei fedeli, sopratutto quelli proiettati verso una chiesa più attuale.
Mai come in questo momento, con le grandi masse di popolazione, che si dicono cattoliche, che subiscono le ingiustizie dei mercati finanziari ed hanno sempre più sete di giustizia sociale, una proposta come quella austriaca potrebbe fare breccia. Per il Vaticano una sfida da non sottovalutare assolutamente pena una consistente perdita di importanza e di influenza.
Secondo un sondaggio effettuato nei gironi scorsi in Austria circa il 76 % degli interpellati vede con favore le rivendicazioni dei ribelli cattolici. Questo movimento crea profonda apprensione nelle gerarchie cattoliche, tanto che il teologo Zulehner ha richiesto alla chiesa cattolica di dare risposte in breve tempo, per evitare un eventuale scisma. La questione è delicata, la chiesa non può non tenere conto delle istanze modernizzatrici provenienti sia dai fedeli, che dallo stesso clero. Quello messo sul piatto dai "ribelli" austriaci è probabilmente troppo per la chiesa romana guidata da Ratzinger, tuttavia non può che avviare una discussione su temi che stanno diventando sempre più attuali per tutto l'insieme del cattolicesimo caratterizzato, ormai, da una struttura gerarchica e sociale ingessata ed ormai inadatta a fornire risposte sia al clero che ai fedeli. La crisi delle vocazioni, del seguito dei fedeli, che normalmente non sono i festanti ragazzi delle giornate della gioventù, che non si riconoscono più in una forma esteriore e talvolta falsa, il distacco delle gerarchie dai problemi sociali ed infine il problema della pedofilia hanno generato un malcontento diffuso, che in Austria ha preso una piega che non pare facilmente risolvibile. In casi del genere le risposte del Vaticano sono di rigida chiusura, ma in questo caso non proporre qualche apertura potrebbe rivelarsi controproducente. Le argomentazioni del leader dei sacerdoti rivoltosi Helmut Schuller, sono, per molti versi inappuntabili, in quanto le richieste, per lo meno su diverse questioni, sono solo di ratificare dei dati di fatto ben conosciuti alle gerarchie. Non è un mistero che la politica della chiesa cattolica su casi giudicati spinosi, come relazioni affettive o sessuali da parte di sacerdoti, sia quella di ridurre la cosa al silenzio per non destare scandalo nei fedeli, trattando la cosa in modo ipocrita. Mentre in altre confessioni cristiane l'adeguamento ai più moderni usi sociali non è stato un problema, nella chiesa cattolica si è insistito su di una via ormai anacronistica, che, tra l'altro, non tiene conto della funzione femminile nella struttura, se non in modo marginale; mentre in altre confessioni la donna è parificata all'uomo nel servizio alla chiesa, Roma, pur affermando dichiarazioni di principio, vuote nel loro significato pratico, insiste nel tenere un ruolo subordinato alle donne nelle funzioni e nella gerarchia. Non vi è dubbio che se la protesta dovesse uscire dai confini austriaci potrebbe venirsi a creare una spaccatura in seno al cattolicesimo tra chi è maggiormente sensibile alle istanze di modernizzazione della chiesa e la parte più conservatrice; quello che potrebbe avvenire è in sostanza una divisione tra alto clero ed una parte minoritaria dei fedeli e basso clero ed una parte maggioritaria dei fedeli, sopratutto quelli proiettati verso una chiesa più attuale.
Mai come in questo momento, con le grandi masse di popolazione, che si dicono cattoliche, che subiscono le ingiustizie dei mercati finanziari ed hanno sempre più sete di giustizia sociale, una proposta come quella austriaca potrebbe fare breccia. Per il Vaticano una sfida da non sottovalutare assolutamente pena una consistente perdita di importanza e di influenza.
L'attività diplomatica francese
Il presidente francese Sarkozy cerca di ritagliarsi uno spazio di manovra sempre maggiore nella diplomazia europea e mondiale. Dopo essere stato uno dei protagonisti del sostegno ai ribelli libici, anticipando la risoluzione dell'ONU, ora la massima carica di Parigi, sta cercando di compattare l'Unione Europea per un voto comune favorevole al riconoscimento dello stato palestinese. La Francia, constatando l'impasse sulla trattativa tra israeliani e palestinesi, cui si aggiunge il silenzio USA, peraltro contrari al riconoscimento della Palestina quale entità statale, cerca di riempire il vuoto diplomatico, che si è venuto a creare sull'argomento. Ergendosi a capofila della UE, su quello che sarà l'argomento centrale di politica internazionale del prossimo periodo, la Francia vuole ribadire la propria politica di avanguardia nella diplomazia mondiale. Quello che Sarkozy rivendica in nome della UE è un posto di prima fila nelle trattative che contano, cercando di portarsi al pari degli USA, che al momento sembrano, invece optare per una strategia più discreta e sopratutto volta ai problemi interni. L'organizzazione della conferenza sul dopoguerra libico, all'Eliseo, ha permesso di ribadire l'assoluta volontà di dare al paese nordafricano un assetto democratico, ancora una volta per la Francia è stata l'occasione per ribadire la propria volontà di avere una centralità nel processo di transizione dal regime di Gheddafi e quindi di essere al centro dell'attività diplomatica. Sulla Siria, Sarkozy non ha perso occasione di bacchettare Cina e Russia per il mancato appoggio alle sanzioni contro Damasco, tuttavia, contrariamente all'atteggiamento seguito per la Libia, la Francia ha ribadito che farà di tutto per affermare la democrazia in Siria, ma restando all'interno delle direttive delle Nazioni Unite. L'attivismo francese nella politica internazionale ha subito un notevole impulso già dallo scorso autunno, praticamente con l'annuncio della candidatura alle presidenziali francesi di Marine Le Pen; Sarkozy cerca di stimolare la grandeur francese con una politica estera aggressiva e di primo piano volta a nascondere le difficoltà sul piano interno, dove la sua attività governativa non ha riscosso successi degni di nota, anzi ha avuto a che fare con la recessione mondiale ed i problemi sociali mai risolti. L'avvicinarsi della scadenza elettorale delle presidenziali francesi potrà portare ancora novità in campo internazionale, la materia prima per nuove sorprese non scarseggia di certo.
L'attività diplomatica francese
Il presidente francese Sarkozy cerca di ritagliarsi uno spazio di manovra sempre maggiore nella diplomazia europea e mondiale. Dopo essere stato uno dei protagonisti del sostegno ai ribelli libici, anticipando la risoluzione dell'ONU, ora la massima carica di Parigi, sta cercando di compattare l'Unione Europea per un voto comune favorevole al riconoscimento dello stato palestinese. La Francia, constatando l'impasse sulla trattativa tra israeliani e palestinesi, cui si aggiunge il silenzio USA, peraltro contrari al riconoscimento della Palestina quale entità statale, cerca di riempire il vuoto diplomatico, che si è venuto a creare sull'argomento. Ergendosi a capofila della UE, su quello che sarà l'argomento centrale di politica internazionale del prossimo periodo, la Francia vuole ribadire la propria politica di avanguardia nella diplomazia mondiale. Quello che Sarkozy rivendica in nome della UE è un posto di prima fila nelle trattative che contano, cercando di portarsi al pari degli USA, che al momento sembrano, invece optare per una strategia più discreta e sopratutto volta ai problemi interni. L'organizzazione della conferenza sul dopoguerra libico, all'Eliseo, ha permesso di ribadire l'assoluta volontà di dare al paese nordafricano un assetto democratico, ancora una volta per la Francia è stata l'occasione per ribadire la propria volontà di avere una centralità nel processo di transizione dal regime di Gheddafi e quindi di essere al centro dell'attività diplomatica. Sulla Siria, Sarkozy non ha perso occasione di bacchettare Cina e Russia per il mancato appoggio alle sanzioni contro Damasco, tuttavia, contrariamente all'atteggiamento seguito per la Libia, la Francia ha ribadito che farà di tutto per affermare la democrazia in Siria, ma restando all'interno delle direttive delle Nazioni Unite. L'attivismo francese nella politica internazionale ha subito un notevole impulso già dallo scorso autunno, praticamente con l'annuncio della candidatura alle presidenziali francesi di Marine Le Pen; Sarkozy cerca di stimolare la grandeur francese con una politica estera aggressiva e di primo piano volta a nascondere le difficoltà sul piano interno, dove la sua attività governativa non ha riscosso successi degni di nota, anzi ha avuto a che fare con la recessione mondiale ed i problemi sociali mai risolti. L'avvicinarsi della scadenza elettorale delle presidenziali francesi potrà portare ancora novità in campo internazionale, la materia prima per nuove sorprese non scarseggia di certo.
mercoledì 31 agosto 2011
La politica deve riprendere il controllo sull'economia e la finanza
Il problema finanziario che sta angustiando gli stati occidentali è una chiara distorsione che affligge il sistema di governo della democrazia. L'allentamento dei controlli legali, in favore di una supposta libera applicazione del libero mercato ha generato dei guasti ai sistemi economici democratici, da cui si potrà uscire solo con fatica. L'affermazione del convincimento dell'abolizione, pressochè totale, dei cosidetti lacci e lacciuoli imposti dai governi, anzichè favorire la diffusione del benessere, ha accresciuto i costi sociali caricandoli sulle fasce meno ricche della popolazione. Il credo liberista è stato scavalcato alla sua destra dalla speculazione estrema, che si è avvalsa e di congiunture politico economiche, in sintesi la globalizzazione con tutti gli annessi e connessi, e dello sviluppo di strumenti che hanno permesso il costante controllo dei dati con spesa irrisoria, la rete. Di fronte a questi sviluppi il tempo di reazione degli organismi politici è stato sempre almeno un passo indietro alla situazione del momento; ciò non ha mai permesso una adeguata risposta per tamponare i fenomeni di crisi. SIamo cioè davanti ad istituzioni pensate e costruite quando la globalizzazione ed internet non erano nemmeno immaginabili, la finanza, pur con tutti i difetti e le violazioni alle leggi, era irregimentata entro binari sicuri, che non permettevano disastri come quelli odierni. Quello a cui si assiste è, inconfutabilmente, la sconfitta dell'impalcatura democratica di fronte ad una legge del mercato fortemente distorta. Non che non ci siano state le avvisaglie che potevano mettere un qualche freno allo sviluppo di questa economia esclusivamente di tipo finanziario, ma le scelte dei governi hanno privilegiato queste pratiche perchè all'inizio andavano a coprire anche le loro falle. ll forte indebitamento degli stati scelto come pratica economica, giunto alla forte speculazione finanziaria, hanno creato il dissesto che attanaglia il mondo in questi giorni. Da qui la necessità di creare strumenti, anche sovranazionali, che mettano la politica davanti alla finanza e sappiano dare la giusta importanza all'economia reale, mettendo dei blocchi, non solo legali, ma di natura fiscale in grado di scoraggiare l'uso della finanza per riconvertire i beni disponibili verso l'economia produttiva e tangibile. Anni di cultura improntata al facile guadagno hanno contribuito a sviluppare evidenti falle nei sistemi politici, che hanno favorito, non controllandola, la pratica finaziaria speculativa come massimo valore del neoliberismo senza freni e controlli. Ora questo tempo è finito per la mancanza di liquidità, ma nonostante il fallimento sia chiaro e davanti a tutti, gli stati stentano a darsi una riorganizzazione che metta il futuro al riparo. Occorre vincolare i dati di bilancio non solo degli stati, ma anche delle società e sopratutto degli istituti di credito, che tanto danno hanno arrecato al sistema. Ma ciò non deve avvenire per autoregolamentazione del mercato, come asseriscono ancora i liberisti, ma per interventi massicci di regolazione da parte degli stati e delle istituzioni sovrastatali, che sovraintendono la regolazione del sistema finaziario. Quella che si deve sviluppare è una cooperazione intensa anche tra gli stati per frenare il fenomeno speculativo, mettendo fuori dal consesso internazionale che non aderisce, solo così si eviteranno migrazioni di capitali verso paesi con legislazioni meno rigide. Ancora una volta la soluzione passa per un governo di collaborazione che oltrepassi le frontiere fisiche degli stati.
Gli assetti diplomatici della nuova Libia
Il comportamento dell'Algeria, che prima non ha riconosciuto i ribelli del CNT come rappresentanti ufficiali del popolo libico e che poi ha dato rifugio alla famiglia di Gheddafi, è l'esempio più limpido di come i paesi africani nutrano ancora una riverenza verso il rais, nonostante sia ormai chiara la sua caduta in disgrazia. Mentre il mondo occidentale ha quasi da subito, sebbene con tempi e modi diversi, riconosciuto l'autorità dei ribelli, accodandosi alla coalizione dei volenterosi, l'Africa ha subito mantenuto un certo distacco dalle posizioni contro il regime di Tripoli. L'isolamento in cui il regime di Gheddafi aveva gettato il paese, ha obbligato il colonnello a cercare altri sbocchi diplomatici, per cercare una rete di collaborazione internazionale. Con la sua ricchezza la Libia è stata il principale finanziatore della Lega Africana, alla quale corrispondeva, da sola, circa il quindici per cento dei contributi totali; inoltre ha salvato dalla bancarotta diversi stati africani, tra i quali il Mali, ed ha finanziato diverse infrastrutture nel continente africano. Per gli africani Gheddafi è stato sempre visto come un benefattore ed uno dei pochi politici del continente a riuscire ad imporsi al colonialismo occidentale. Nell'immaginario africano il colonnello incarnava la riuscita dell'affrancamento dai regimi coloniali e l'uso autonomo delle risorse del popolo proprietario. Tale raffigurazione è stata una abile manovra di marketing politico del colonnello, gestita con ingenti capitali. Così si spiega la lentezza ed anche la miopia con cui il continente africano reagisce al cambiamento di potere in corso a Tripoli. La reazione dei ribelli alla concessione dell'asilo ai familiari di Gheddafi è stata di sdegno e la partenza dei rapporti diplomatici con il vicino algerino non è quindi segnata in maniera positiva. Gli stessi ribelli hanno confermato che i rapporti diplomatici saranno positivi, innazitutto, con i paesi della coalizione dei volenterosi e poi con tutte quelle nazioni che hanno formalmente riconosciuto il CNT come legittimo rappresentante del popolo libico. In una situazione non proprio positiva vi sono anche Cina e Russia, restie ad appoggiare, in sede ONU, i ribelli libici, per loro dovrebbero esserci grossi problemi per accedere alle forniture di petrolio libico. La ricostruzione della Libia parte, quindi, anche dai rapporti diplomatici, che all'inizio si baseranno sull'aiuto ricevuto dal CNT.
lunedì 29 agosto 2011
Quello che l'ONU troverà in Libia
L'ONU, come ha affermato il segretario generale Ban Ki Moon, dovrebbe approntare una missione umanitaria in Libia, dove la situazione sta diventando sempre più grave per la popolazione. I beni alimentari stanno scarseggiando ed esistono grossi problemi per l'approvigionamento idrico ed energetico. Le reti di telecomunicazioni sono profondamente danneggiate e la situazione degli ospedali è tragica perchè oltre a mancare i medicinali, mancano anche i medici fuggiti, perchè la guerra non ha risparmiato neppure i luoghi di cura. Mentre la guerra dovrebbe essere alle ultime battute, si pensa, oltre che alle emergenze anche alla ricostruzione del paese. Con una popolazione di circa sei milioni di persone e con grandi risorse energetiche e paesaggistiche a disposizione, la Libia possiede le condizioni per garantire ai suoi abitanti un benessere diffuso. Dovranno essere create le condizioni politiche in maniera da dotare il paese di un apparato democratico, basato sulla garanzia della legge. In questo senso le domande non forniscono ancora risposte sicure, i ribelli sono un aggregato di diverse tendenze, tenuti insieme dall'avversione a Gheddafi. Inoltre pezzi consistenti del vecchio apparato continuano a staccarsi dai lealisti per salire sul carro dei vincitori. Sul piano religioso, gli integralisti islamici libici non sono mai stati a favore della Jiahd totale, quanto di una Jiahd nazionale, motivo per il quale hanno avuto contrasti anche con Al Qaeda, sono presenti anche i Fratelli Musulmani, che godono di una organizzazione molto strutturata. Nella rivoluzione libica più che una immediata richiesta di democrazia, come avvenuto in Tunisia ed Egitto, la ragione principale è stata il rovesciamento della dittatura, divenuta sempre più oppressiva, di Gheddafi. Certamente il passo verso la democrazia sarà quello successivo, ma finchè non sarà finito il fattore aggregante, sarà difficile fare una disanima delle forze in campo. Il paese è stato schiacciato da una dittatura che si apprestava a festeggiare il suo quarantatresimo anniversario, non ha una struttura politica ed anche socialmente l'unica forma presente è l'organizzazione tribale. L'ONU, oltre agli aiuti materiali, dovrà anche fornire un aiuto concreto sul piano della democratizzazione del paese, troppo arretrato su questo piano. Viceversa potrebbe esserci spazio per altri dittatori singoli o collegiali.
Iscriviti a:
Post (Atom)