Politica Internazionale

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martedì 4 ottobre 2011

Il Senato USA contro la svalutazione della moneta cinese

Il senato degli USA sta per aprire un dibattito sulla presentazione di un disegno di legge che possa permettere di imporre sanzioni commerciali contro la Cina a causa del mantenimento della sotto valutazione della moneta cinese operata da Pechino. La bilancia commerciale americana nel 2010 ha registrato un deficit con la Cina di 273.000 milioni di dollari. La Cina ha espresso, attraverso il proprio governo, il profondo rincrescimento per la possibile misura restrittiva, che viene vista come una chiara violazione delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e che può pregiudicare le relazioni commerciali tra i due paesi. In realtà la questione del deprezzamento artificiale dello yuan è una questione sul tappeto da tempo, la strategia cinese di mantenere una svalutazione artificiale rientra nel più ampio piano per favorire le esportazioni di prodotti cinesi sui mercati più ricchi. La pratica cinese, in effetti, rappresenta un chiaro episodio di concorrenza sleale ed inoltre se si pensa alle condizioni di lavoro e di salario della manodopera, la posizione commerciale di Pechino non può che essere letta in maniera scorretta. Fino ad ora sia gli USA, che la UE, non hanno fatto passi ufficiali tali da pretendere un allineamento della moneta cinese al suo effettivo valore. Se il disegno di legge al Senato USA, dovesse andare in porto, sarebbe una svolta nella guerra commerciale tra Cina ed Occidente, che potrebbe innescare una pericolosa escalation di ritorsioni da ambo le parti, sopratutto nel caso americano, vi sono implicazioni legate ad aspetti più ampi della sola diatriba commerciale, come la grossa fetta di debito pubblico USA in mano a Pechino. Tuttavia la posizione degli Stati Uniti pare compatta di fronte al problema dello yuan, infatti intorno al disegno di legge c'è l'accordo pressochè unanime sia di democratici che di repubblicani. Il parere dei politici, in questo caso, riflette il comune sentire della popolazione americana, che ormai vive ogni occasione in contrasto con gli USA come un attentato verso la nazione, specialmente nel campo economico, dove la situazione si fa sempre più delicata.

Putin propone una unione che vada da Lisbona a Vladivostock

Putin illustra il suo programma internazionale per superare l'attuale fase di crisi economica globale. Sul quotidiano Izvestia, il primo ministro russo, espone le sue tesi, in un articolo che propugna l'integrazione euro asiatica, creando un mercato che comprenda il territorio da Lisbona a Vladivostock. La ricetta di Putin è ambiziosa, ma anche condivisibile nella sua visione, forse un poco utopica, ma certamente carica di significati sia economici, che politici ed anche sociali. La necessità di cercare sempre nuove soluzioni in ambito geopolitico, al fine di aggregare sempre più soggetti, per creare organismi sempre nuovi, anche attraverso il rafforzamento di unioni già esistenti, sembra per Putin, l'unica soluzione per superare gli ostacoli imposti dal processo di globalizzazione mondiale e le sue evidenti patologie. L'integrazione si rende necessaria per sommare forze, che da sole non sono più sufficienti, per contrastare le difficoltà sempre crescenti in materia economica e politica. La Russia e la UE sono già legate dal rapporto creato dal mercato degli idrocarburi e del petrolio, dove la prima è il maggiore fornitore della seconda. Ciò rappresenta una ottima base di partenza per sviluppare ulteriori contatti capaci di ampliare i legami già presenti, vantaggiosi sopratutto per Mosca, che finanziariamente ha una grossa dipendenza dal mercato sopra citato. La necessità di sottolineare questa esigenza è data anche dal fatto che il processo di ingresso della Russia nell'Organizzazione mondiale del commercio ha subito forti ritardi; inoltre alla Russia non basta più l'integrazione che ha sviluppato nell'area dell'ex URSS, dove Mosca gioca un ruolo preminente. Nonostante l'importanza riconosciuta al modello seguito alla disgregazione dell'impero sovietico, quello della formazione della Comunità degli Stati indipendenti (CSI), che ha permesso di continuare i legami storici e sociali, quello che più preme alla Russia è di sviluppare organizzazioni che possano contrastare la crisi economica. L'eliminazione delle dogane dovuta alla creazione allo spazio economico unico tra Russia, Kazakistan e Bielorussia rappresenta un punto di partenza dell'integrazione ma Mosca deve guardare necessariamente ad occidente per potere contare su di un mercato capace di assorbire i suoi prodotti in maniera consistente. Lo sbocco naturale non può che essere la UE, anche se nello spazio dell'ex URSS, l'aggregazione con altri stati deve ancora progredire. Infatti occorre coinvolgere l'Ucraina ed il Tagikistan. Ma la UE resta l'obiettivo di fondo, nelle intenzioni di Putin. In effetti una organizzazione, per lo meno basata sugli scambi economici, che abbracci l'intero continente europeo avrebbe una facilità di sviluppo di fondo grazie alle comuni radici storiche e per la contiguità territoriale, quasi una evoluzione naturale della stessa Unione Europea. Il progetto di Putin appare così non una novità, ne una intuizione rivoluzionaria, ma ha il merito di riportare all'attenzione, sia dell'opinione pubblica, che dei governi, un tema ricco di possibilità e di sviluppi. Non è da poco nell'impasse del momento.

lunedì 3 ottobre 2011

La bomba cinese

La bomba economica più pericolosa per il mondo intero è innescata e se dovesse esplodere le conseguenze sono difficilmente immaginabili. Se si paragona, infatti la situazione cinese a quella greca, si capisce che quest'ultima, pur essendo grave ed avendo provocato parecchi problemi al mondo economico finanziario, è niente di fronte alla potenziale crisi del dragone. Primo aspetto: l'elevato indebitamento delle amministrazioni locali cinesi ha raggiunto il 27% del totale dell'economia e sopratutto l'80% di questi debiti sono ritenuti dagli analisti economici inesigibili. Sarebbe il default per molte amministrazioni locali, ripianabile soltanto con un corposo intervento centrale mediante una massiccia immissione di liquidità. Ciò sarebbe già difficile con condizioni ottimali dei valori fondamentali ma la situazione attuale di Pechino, malgrado i tanti tentativi del governo per mascherare la reale condizione del paese, non è tale da consentire una cura del genere senza ripercussioni. Secondo aspetto: anche in Cina si ritiene che stia per scoppiare a bolla speculativa immobiliare sia per ragioni finanziarie che per ragioni sociali, tanto che gli esperti del settore ritengono il mercato immobiliare cinese non più attraente per gli investitori, da cui ne sta già derivando un mancato afflusso di capitali da immettere sul mercato cinese degli investimenti. Terzo aspetto: l'alta inflazione cinese sta già determinando un rallentamento della produzione, che rappresenta soltanto un primo effetto del fenomeno inflattivo, che è andato a pesare in maniera maggiore sui generi alimentari, alimentando il già presente ed elevato scontento della popolazione. Quarto aspetto: pur essendo una dittatura, che basa la propria stabilità su di un controllo ferreo, il che non dispiace al mondo della finanza, le mutate condizioni sociali del paese hanno fatto emergere un malcontento di fondo, che viene contenuto a stento dall'amministrazione statale. Le smaccate diseguaglianze economiche, l'alto grado di corruzione giunti ai problemi ambientali, peggiorati dalla massiccia industrializzazione ed alla esigenza sempre più pressante di allargamento dei diritti civili e politici, fondamentali per partecipare al processo decisionale del paese, creano una situazione che mette potenzialmente a rischio, il pur radicato sistema politico cinese. Per l'economia basta anche il solo sentore di una possibile instabilità per abbassare il rating; d'altra parte non è possibile credere ad un perdurare di tale stato di cose ragionando sul lungo periodo, ma è la potenzialità che può spaventare le borse. Questi aspetti di problematica sociale potrebbero acuirsi velocemente se si dovesse verificare un calo considerevole dell'occupazione, che andasse a colpire il grosso della forza lavoro. L'aumento esponenziale del malcontento, mitigato dal salario, potrebbe esplodere anche in maniera violenta qualora venissero a mancare i requisiti occupazionali, che in questi anni, hanno anche svolto da ammortizzatore politico. Come si vede i presupposti per una crisi cinese ci sono tutti e non è necessario che si verifichino tutti, è sufficiente che anche uno solo di questi aspetti problematici si verifichi per avere riflessi negativi importanti sul sistema economico mondiale. In più la Cina non è all'interno di alcuna organizzazione come la Grecia, che può intervenire in aiuto, anche perchè il colosso cinese non è inquadrabile in una organizzazioni in termini paritari; la Cina ha una grandezza sproporzionata, elemento che si può trasformare, in caso di crisi, da vantaggio a svantaggio enorme, perchè il fattore moltiplicativo dell'elemento negativo può consentire un effetto a catena travolgente. Sarebbe opportuno che la finanza e l'economia occidentali si preparassero all'evenienza di una crisi cinese, ed anche dal lato politico non è da sottovalutare il possibile movimento di masse in fuga dal dragone cinese.

Gli USA preoccupati per la situazione yemenita

La situazione nello Yemen si sta sempre più aggravando. Il vuoto di potere apertosi per la lotta al presidente in carica, genera delle possibilità, nelle zone più remote, per i gruppi armati presenti sul territorio. In special modo si è mossa Al Qaeda, nella regione di Zinjibar, dove la città è sfuggita al controllo delle forze governative. Nei violenti combattimenti si sono registrati diversi morti. Anche nella capitale si sono sviluppati scontri, ma questa volta tra diversi reparti dello stesso esercito yemenita, in particolare tra i reparti corazzati della prima divisione guidati dal generale Ali Mohsen al-Ahmar dissidente , e le forze di sicurezza centrale, fedeli al presidente Ali Abdallah Saleh. La situazione preoccupa gli Stati Uniti, da lungo tempo impegnati nella lotta contro i terroristi islamici, che godono della protezione assicurata dal territorio per le loro basi, nelle zone più remote del paese.
L'alleanza con il regime yemenita è considerata fondamentale per il proseguimento della guerra alle formazioni integraliste, tuttavia la diplomazia sotterranea USA, cerca di favorire una transizione verso un governo comunque favorevole ai propri scopi, concordando, tra l'altro, una risoluzione, con altri paesi occidentali, al COnsiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in modo da aumentare la pressione internazionale sul presidente temenita Saleh, che, sebbene al potere da 33 anni, rifiuta le dimissioni, che permetterebbero un allentamento della tensione nel paese.

La tattica preventiva di Cameron

Le dichiarazioni del premier inglese Cameron sull'euro denotano l'ennesimo tentativo di gettare su altri le proprie responsabilità. Il livello del debito pubblico inglese è a livelli record, tanto che alcuni osservatori lo hanno paragonato a quello greco, ed una delle cause sono i massicci investimenti pubblici per salvare le banche inglesi, sull'orlo della bancarotta per azioni finanziarie speculative spericolate ed andate molto male. Londra è il centro della finanza europea, il motore borsistico del continente, sentire delle critiche sull'euro da chi dovrebbe governare il sistema, preservandolo da speculazioni dannose per il sistema ed i risparmiatori non può che fare sorridere. Ma la mossa di Cameron pare un gridare al lupo ancora prima che la bestia sia arrivata. L'impressione è che il premier inglese stia preparando il terreno a qualcosa che sta per avvenire. Per la sterlina fino ad ora l'euro è stato uno scudo, seppure involontario, la speculazione ha attaccato la divisa comune tralasciando di focalizzarsi su altre divise, ma l'accordo favorito dalla Germania per il salvataggio della Grecia e la creazione del fondo salva stati ha smorzato la pressione speculativa sulla moneta unica europea. Con questo non è che i movimenti speculativi si sono arrestati e la sterlina potrebbe entrare nel mirino, proprio a causa degli alti valori del debito pubblico e dell'esposizione ancora consistente del sistema bancario, tra l'altro con una struttura ed una importanza ben maggiore di quello italiano o, addirittura, francese. Se la sterlina dovesse entrare nell'orbita speculativa in maniera massiccia per il premier inglese sarebbe difficile uscirne senza pagare un tributo elevato, sia in costi economici che sociali. Il Regno Unito è però già attraversato da tensioni sociali elevate, frutto di una politica economica che ha colpito in maniera indiscriminata i ceti medi, abbassandone sostanzialmente il reddito in maniera consistente; questo fattore si unisce alla elevata diseguaglianza sociale, percepita in modo molto netto dalle giovani generazioni. Il piano di risanamento messo in piedi dal governo ha destato, quindi molto scontento nell'opinione pubblica inglese e pare avere dato fondo a tutte le possibilità previste per non forzare ulteriormente le situazione. Ma il piano è stato elaborato prima dell'attacco speculativo all'euro ed il pericolo di un eventuale speculazione sulla sterlina non era minimamente contemplato. Se la situazione dovesse mutare per Cameron sarebbe un grosso problema affrontare la situazione, ed ecco, quindi la tattica preventiva di gettare la croce addosso all'euro. La manovra, oltre ad essere irresponsabile dal lato della ripercussioni che può avere sulle borse, rimarca lo strisciante anti europeismo del governo inglese in carica. Sarebbe opportuno che Bruxelles facesse sentire la propria voce per smorzare certe voci, con sanzioni di richiamo. Inoltre occorrerebbe avviare una nuova fase dell'Unione Europea, che preveda una ridiscussione dei principi di adesione, chi non sta nell'euro non dovrebbe stare neanche nell'unione politica, non ha, infatti, alcun senso proseguire su questa via poco chiara che non produce che confusione e conflitti che danneggiano sia l'unione monetaria che quella politica.

venerdì 30 settembre 2011

Il Parlamento europeo chiede ai 27 un'azione unitaria per la Palestina

Il Parlamento europeo ritiene legittima la richiesta della Palestina di essere riconosciuta come uno stato sovrano. Pur individuando la necessità di tutelare Israele, il Parlamento europeo ritiene una necessità ed uno sbocco naturale la nascita dello stato palestinese, anche in ottica della necessaria pacificazione internazionale, intesa come risultato della ripresa delle trattative. La dignità di stato da riconoscere ai palestinesi, per il parlamento europeo deve comunque rientrare nel naturale alveo negoziale presso l'Assemblea Generale dell'ONU. Il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza una mozione in cui viene espressamente chiesto ai ventisette governi che compongono la UE, di tenere una posizione comune, che eviti divisioni di fronte al panorama internazionale, rispetto a quanto più volte ribadito dalla UE, attraverso la rappresentante per la politica estera Catherine Ashton, circa la legittimità del principio che prevede i due stati sulla base dei confini del 1967, con capitale Gerusalemme. Il testo elaborato dal Parlamento europeo contiene una indicazione importante circa la necessità dell'autodeterminazione del popolo palestinese ed afferma l'indiscutibilità del diritto di avere un proprio stato sovrano. In quest'ottica rientra anche la richiesta al governo israeliano di bloccare nuovi insediamenti nei territori palestinesi, per facilitare il processo di pacificazione. La richiesta di unitarietà di azione fatta ai governi UE, rientra anche nel tentativo di fare riprendere quota alla stessa UE nei negoziati di pace, anche alla luce degli sviluppi portati dalla primavera araba. In conclusione l'intenzione del Parlamento europeo è quella di consentire, grazie ad una azione compatta e condivisa, di sfruttare l'occasione della richiesta per il riconoscimento dello stato di Palestina, per potere incidere da protagonista nel processo di pace.

giovedì 29 settembre 2011

USA e Pakistan ai ferri corti

I rapporti tra USA e Pakistan subiscono un peggioramento. Gli USA hanno esplicitamente accusato Islamabad di avere contati con la rete Haqqani, terroristi islamici legati ai talebani, attraverso i quali il Pakistan cerca di estendere la propria influenza verso l’Afghanistan. Al di la delle dichiarazioni di rito, che parlano di rincrescimento per la posizione di Washington, Islamabad è stata chiara, gli USA non devono toccare i membri della rete Haqqani, pena la messa in discussione dell’alleanza. L’atteggiamento USA va, però, nella direzione contraria, senza un intervento pakistano gli USA procederanno in modo unilaterale. La minaccia è da considerarsi reale, già nell’occasione dell’eliminazione fisica di Bin Laden, le forze armate americane hanno operato, senza avvertimento e senza consenso, sul suolo pakistano, proprio perchè non si fidavano dei servizi segreti di Islamabad. La questione tra i due paesi si trascina da tempo, tanto che le posizioni ufficiose degli alti gradi militari sono diventate ormai note, l’affidabilità del governo pakistano è per le forze armate americane ai minimi storici. Il sospetto più grave di Washington è che il Pakistan ritenga il governo afghano ed il sistema democratico costruito dagli USA molto deboli e su cui graverebbe il pericolo di una caduta nel momento in cui le forze NATO abbandoneranno il terreno.
Nel verificarsi di questa evenienza il Pakistan potrebbe estendere la sua influenza sul paese afghano mediante l’alleanza con i talebani. Dietro a tutto sembra stagliarsi il profilo della Cina, che ha di fatto, sostituito gli USA come partner comerciale e forse anche politico. Il Pakistan ha già parlato più volte in dichiarazioni ufficiali di Pechino come amico principale della nazione. L’espansionismo cinese dettato dalla fame di nuovi mercati, ma anche di nuova manodopera ha individuato nelle zone di Pakistan ed Afghanistan dei territori strategici, sopratutto nell’ottica della competizione con l’India. La Cina punta così a circondare il suo più pericoloso concorrente cercando di fargli terra bruciata attorno. Con l’alleanza con Pechino, Islamabad si sente più forte nei confronti degli USA e si permette anche sgarbi diplomatici come non presenziare a riunioni sul tema del terrorismo. Nonostante tutto gli USA tengono a freno l’irritazione, giacchè ritengono che la lotta al terrorismo internazionale si vince proprio tra Afghanistan e Pakistan, tuttavia, se possono contare sulla lealtà del governo di Karzai, nel tempo i sospetti sul Pakistan si sono, forse, troppo acuiti tanto da fare diventare Islamabad più che un potenziale avversario. Se l’attuale situazione tra i due stati non vedrà progressi nella distensione, con fatti concreti da parte dal Pakistan, la situazione è destinata a peggiorare molto e gli eventuali sviluppi potrebbero fare rivedere i piani di rientro delle forze armate USA dall’Afghanistan. Infatti senza più l’appoggio del Pakistan, che a questo punto potrebbe diventare addirittura un nemico, gli Stati Uniti dovrebbero, per forza di cose, mantenere numerosi effettivi per presidiare la lotta al terrorismo islamico in maniera efficace.