Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 14 ottobre 2011
Il puzzle della tensione mondiale
C'è un sottile filo che lega le zone calde del pianeta. Ogni zona a rischio è collegata in qualche modo all'altra in un puzzle della tensione. Sulla carta geografica l'area di maggiore pressione è quella medio orientale, una fascia mediana che parte da Israele, attraversa la Siria, l'Iraq, l'Iran. In questa zona vastissima, che è stata la culla della civiltà, si addensano i pericoli maggiori per la pace mondiale. Però è anche vero che l'Afghanistan ed il Pakistan sono limitrofi, mentre i paesi del Mediterraneo del sud sono contigui ad Israele e Libano. E stiamo parlando soltanto di pericolo militare. Se allarghiamo l'orizzonte anche sulle questioni economiche la zona "rossa" si allarga ai paesi contigui al Pakistan, che confina con un territorio continuo che abbraccia India, Cina e Russia, giganti e rivali. Ora focalizzandoci soltanto sui pericoli militari appare chiaro che le guerre in corso e che sono, in qualche modo, dichiarate si stanno svolgendo in Afghanistan e Libia rappresentano conflitti limitati, che pur nella loro gravità, non paiono in grado di allargarsi se non in modo limitato e comunque ciò vale soltanto per il caso afghano, visto che quello libico è destinato a concludersi. Il caso iraqeno è differente perchè quello che è in corso è una sorta di guerra civile, che rischia un vuoto di potere, capace di innescare qualcosa di maggiore. Il paese è nel mirino di Arabia Saudita ed Iran, che sottotraccia stanno già affrontandosi, ed inoltre potrebbe subire una secessione da nord ad opera dei Curdi; qui la situazione si complica perchè proprio il nord iraqeno è spesso teatro di azione delle truppe turche che sconfinano oltre il proprio territorio, creando un precedente pericolosissimo. La questione curda è fuoco che cova sotto la cenere e prima o poi dovrà essere affrontata, tuttavia il problema, per la pace mondiale, non è così pressante come la risoluzione della questione palestinese. Intorno a questa disputa ruota il destino di diverse situazioni collegate. Intanto finchè la Palestina non avrà il proprio stato sarà sempre un alibi per il mondo arabo, un alibi facile da usare sia per i terroristi che per gli stati. Nel secondo caso l'Iran ne è stato uno dei maggiori utilizzatori, fomentando attraverso questo motivo diversi gruppi ed ergendosi a difensore del popolo islamico. La Repubblica degli ayatollah sta usando la tattica di portare al limite gli avversari, ma la corda è vicino a rompersi. L'ultimo fatto ha soltanto ottenuto il risultato di compattare ancora maggiormente l'alleanza americana con l'Arabia Saudita. Inoltre il timore della bomba atomica iraniana sta prendendo campo ed il governo di Teheran pare schiacciato tra opinione pubblica internazionale ed opposizione interna. In questi casi si possono fare mosse avventate, la pericolosità del governo in carica appare enorme. Gli USA potrebbero così prevenire una eventuale azione iraniana, probabilmente diretta su Israele, con una ritorsione giustificata dal fallito attentato sul suolo americano. E' uno scenario possibile, che solo la diplomazia può evitare momentaneamente e lasciando inalterato il problema dell'armamento nucleare in mano agli Ayatollah. Per ora è meglio fermarsi qui, ma le connessioni non finiscono.
giovedì 13 ottobre 2011
Arabia Saudita-Iran: le grandi avversarie islamiche
Il mancato attentato contro l'Arabia Saudita riporta alla ribalta la rivalità tra Riyad e Teheran, che si basa su rivalità di tipo etnico, tra arabi e persiani, ed anche religioso, in conseguenza della disputa sulla legittimità dell'eredità del profeta che ha dato vita alle due principali visioni dell'islam: sunniti e sciti. Successivamente l'inimicizia è cresciuta con l'avvento degli ayatollah, vissuto dai sauditi come una minaccia per il loro regno.
Anche la scelta saudita di schierarsi come più fedele alleato nella regione, degli USA, ha contribuito a scavare ulteriormente il solco tra i due paesi. Recentemente, con le ribellioni coincise con la primavera araba, Riyad ha accusato Ahmadinejad di avere fornito sostegno alla minoranza scita presente nella penisola araba, che ha causato diversi problemi con manifestazioni e scioperi. L'Iran ha manovrato i dimostranti, che peraltro manifestavano per giusti motivi, per cospirare contro il governo saudita, provando ad aprire un fronte interno, a suo favore, per destabilizzare il paese. La comune frontiera che corre tra i confini dei due stati adiacenti, favorisce i timori sauditi sul possibile sviluppo della bomba atomica iraniana, tanto da fare diventare l'Arabia Saudita uno dei principali fautori della politica statunitense contro la ricerche nucleari di Teheran. Tra i due paesi si profila anche la questione iraqena, su Bagdad, infatti, hanno entrambi delle mire per ampliare l'influenza sia politica che economica, l'Iraq è stato fino ad ora un paese a maggioranza scita ma governato da sunniti, questa rivalità rischia di trasformarsi in un pericoloso confronto proprio grazie alle mosse dietro le quinte che stanno facendo Riyad e Teheran. Anche sul lato economico i due paesi vanno in direzioni opposte con scopi nettamente contrari: l'Arabia Saudita ha necessità di calmierare il prezzo del greggio per esercitare una strategia produttiva basata sul lungo periodo e tende quindi a ridurne la produzione di barili di petrolio, cosa che non fa l'Iran, che ha necessità di liquidi immediata per sostenere i suoi livelli produttivi intaccati dalla crisi mondiale. Questa nuova crisi tra i due paesi rappresenta un innalzamento di una temperatura già elevata, che rischia di sfociare in un pericoloso peggioramento che può avere ricadute, non solo per l'equilibrio regionale ma per gli assetti mondiali.
Anche la scelta saudita di schierarsi come più fedele alleato nella regione, degli USA, ha contribuito a scavare ulteriormente il solco tra i due paesi. Recentemente, con le ribellioni coincise con la primavera araba, Riyad ha accusato Ahmadinejad di avere fornito sostegno alla minoranza scita presente nella penisola araba, che ha causato diversi problemi con manifestazioni e scioperi. L'Iran ha manovrato i dimostranti, che peraltro manifestavano per giusti motivi, per cospirare contro il governo saudita, provando ad aprire un fronte interno, a suo favore, per destabilizzare il paese. La comune frontiera che corre tra i confini dei due stati adiacenti, favorisce i timori sauditi sul possibile sviluppo della bomba atomica iraniana, tanto da fare diventare l'Arabia Saudita uno dei principali fautori della politica statunitense contro la ricerche nucleari di Teheran. Tra i due paesi si profila anche la questione iraqena, su Bagdad, infatti, hanno entrambi delle mire per ampliare l'influenza sia politica che economica, l'Iraq è stato fino ad ora un paese a maggioranza scita ma governato da sunniti, questa rivalità rischia di trasformarsi in un pericoloso confronto proprio grazie alle mosse dietro le quinte che stanno facendo Riyad e Teheran. Anche sul lato economico i due paesi vanno in direzioni opposte con scopi nettamente contrari: l'Arabia Saudita ha necessità di calmierare il prezzo del greggio per esercitare una strategia produttiva basata sul lungo periodo e tende quindi a ridurne la produzione di barili di petrolio, cosa che non fa l'Iran, che ha necessità di liquidi immediata per sostenere i suoi livelli produttivi intaccati dalla crisi mondiale. Questa nuova crisi tra i due paesi rappresenta un innalzamento di una temperatura già elevata, che rischia di sfociare in un pericoloso peggioramento che può avere ricadute, non solo per l'equilibrio regionale ma per gli assetti mondiali.
Gli USA premono su Cina e Russia contro l'Iran
Gli strascichi della vicenda dei falliti attentati negli Stati Uniti, addebitati all'organizzazione dell'Iran, aprono una fase pericolosa. Anche se per ora la strategia statunitense è quella di inasprire le sanzioni e coinvolgere tutto il Consiglio di sicurezza nella condanna a Teheran, filtrano notizie di allerta per le forze USA. L'obiettivo primario è quello di coinvolgere, nelle sanzioni contro l'Iran, la Cina e la Russia, restie ad ingerirsi negli affari interni degli stati. Le due superpotenze hanno rifiutato di sanzionare Teheran per la questione nucleare, lasciando, di fatto, uno spazio di manovra, sul piano internazionale, all'Iran. Un coinvolgimento di Cina e Russia metterebbe la repubblica islamica in grossa difficoltà di fronte al mondo. Il peso specifico delle sanzioni condivise anche da Pechino e Mosca, salirebbe parecchio e ridurrebbe lo stato iraniano ad un pesante isolamento diplomatico. Il lavorio diplomatico americano sta spingendo in questa direzione, anche se è pressochè impossibile ottenere un voto unanime in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, per la presenza del Libano, governato dal movimento Hezbollah, uno dei maggiori alleati di Teheran. Tuttavia la chiave per portare verso gli USA i due pesi massimi del Consiglio di sicurezza è l'importanza della mancata vittima dell'attentato, infatti l'Arabia Saudita è il più grande produttore di petrolio e potrebbe gettare sulla bilancia la sua forza determinante di fornitore di greggio, argomento a cui è particolarmente sensibile la Cina. Se l'Arabia riuscirà ad essere determinante in questo senso, potrebbe avere anche un ruolo essenziale per scongiurare una eventuale opzione militare, che sta montando in alcuni ambienti americani. L'amministrazione americana, infatti, pur non ritenendo praticabile in tempi immediati questa soluzione, non scarta a priori una ritorsione armata verso obiettivi iraniani. Ciò darebbe l'avvio ad una pericolosa escalation diplomatico militare che coinvolgerebbe l'intero pianeta andando verosimilmente a sconvolgere gli attuali equilibri. Soluzione che potrebbe essere scartata nel caso Washington trovasse soddisfazione sul piano diplomatico.
mercoledì 12 ottobre 2011
Sventato attentato iraniano in USA
Se, come sembra, l'Iran ha tentato veramente di assassinare l'ambasciatore saudita a Washington, occorre fare alcune riflessioni per cercare di comprendere quale tattica ha intrapreso Teheran. L'obiettivo del rappresentante della monarchia sunnita, con la quale l'Iran si contende il primato dell'islamismo, significa, appunto, dare un duplice segnale forte sulla scena internazionale ai propri alleati, infatti colpire sul territorio americano l'ambasciatore saudita avrebbe significato dare una dimostrazione di forza di non poco conto. L'attentato rientrerebbe in un piano più vasto, che avrebbe avuto come obiettivo anche diplomatici israeliani. Si tratterebbe, cioè, di un strategia volta a mettere in allarme le cancellerie dei paesi alleati contro l'Iran e l'estremismo islamico. Il momento attuale, per sviluppare questi piani concorda con la difficile situazione di isolamento di Israele, le continue sommosse degli sciti in Arabia Saudita ed anche la complicata situazione di Obama alla vigilia delle elezioni presidenziali. Se azioni terroristiche ripetute possono portare ancora più scompiglio in situazioni particolarmente cariche di tensione, il periodo attuale presenta occasioni favorevoli. Tuttavia per quale ragione l'Iran si deve esporre alle naturali ritorsioni, prestando il fianco per un attentato che alla fine non è neanche riuscito? Un motivo può essere una perdita di leadership che l'Iran sta subendo per gli sviluppi sia della primavera araba che dei nuovi assetti geopolitici che stanno favorendo nuovi soggetti come la Turchia. L'Iran vuole fare presa sui soggetti più estremi, Hezbollah, Talebani, Siria, dimostrando di avere una forza in grado di affrontare soggetti più forti. Se questa ipotesi dovesse essere vera, sarebbe una spia che la situazione per l'Iran non sarebbe tanto buona, questa azione potrebbe costituire la mossa della disperazione, anche per contrastare l'ondata di opposizione interna che non si è mai sopita.
Ma quello che ora rischia di aprirsi è un inasprimento delle relazioni tra USA ed Iran, peraltro già sufficientemente tese. Sarà difficile che Washington accetti la teoria di Teheran, che ha definito ridicola la ricostruzione americana. Sulle possibili forme di ritorsione americane la speranza è che si concretizzino con un aggravemento delle sanzioni, come annunciato dalla Clinton, tuttavia non sono da escludere azioni più pesanti, che però potrebbero suscitare reazioni non prevedibili, con conseguenze fortemente negative sugli assetti attuali.
Ma quello che ora rischia di aprirsi è un inasprimento delle relazioni tra USA ed Iran, peraltro già sufficientemente tese. Sarà difficile che Washington accetti la teoria di Teheran, che ha definito ridicola la ricostruzione americana. Sulle possibili forme di ritorsione americane la speranza è che si concretizzino con un aggravemento delle sanzioni, come annunciato dalla Clinton, tuttavia non sono da escludere azioni più pesanti, che però potrebbero suscitare reazioni non prevedibili, con conseguenze fortemente negative sugli assetti attuali.
Per la nuova Libia è l'ora di gestire il petrolio
Il conflitto libico continua nelle ultime roccaforti gadafiste, ma Sirte è praticamente caduta e la sua conquista da parte delle truppe del CNT è vissuta come fortemente simbolica per il legame della città con il clan del colonnello, mentre le ultime sacche di resistenza si oppongono, alle ormai truppe governative, soltanto nella zona di Bani Walid. La NATO ritiene che togliendo l'ultimo accesso al mare ai lealisti di Gheddafi, il conflitto sia veramente alle battute finali. Intanto il governo libico di transizione inizia ad addentrarsi nella gestione della maggiore ricchezza del paese: il petrolio. Una delle molle che ha scatenato il conflitto è stata la condizione di povertà del popolo libico, addebitata, oltre alla gestione del rais, anche alla corruzione fortemente estesa nei gangli burocratici del sistema di governo di Tripoli. Una delle maggiori branche dell'amministrazione di Gheddafi ad essere contaminata dal fenomeno della corruttela è stata proprio quella relativa alla gestione dell'oro nero. L'intenzione dei nuovi amministratori libici è da subito quella di esaminare i contratti per trovare chi si è arricchito a scapito dei cittadini. Sul fronte dei contratti per la fornitura di greggio, motivo di trepidazione di diversi governi occidentali, alla ripresa della piena produzione è prevista la priorità verso le raffinerie domestiche, per soddisfare principalmente i fabbisogni interni, lasciando per l'esportazione l'eccedenza. Tuttavia la Libia è un paese di tre milioni di abitanti, con necessità contenute, questa affermazione pare la premessa per una ricontrattazione delle destinazioni e delle quantità delle forniture del petrolio. Non è un mistero, che l'aiuto al CNT sia stato fortemente interessato, l'intervento immediato di Francia e Regno Unito è stato dettato anche dall'esigenza di incrementare le proprie importazioni di greggio dal paese libico a scapito di chi se ne avvantaggiava maggiormente e cioè l'Italia. Roma ha più volte ribadito che i contratti precedentemente presi non si toccano, ma la fase in cui entra la vicenda, non pare assicurare l'assunto italiano in toto, il futuro del petrolio libico sarà oggetto di una trattativa serrata, che lascerà degli scontenti sul terreno.
martedì 11 ottobre 2011
II punto più basso di Netanyahu
L'evoluzione della questione delle colonie israeliane costruite su territori palestinesi prende una via inaspettata e destinata ad aumentare la tensione. Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto la creazione di un pool di specialisti per cercare di dare una via legale alla legittimità degli insediamenti sui territori. Oltre che illegale per la stessa legge israeliana, perchè in contrapposizione con la posizione della Corte Suprema, che dal 1979 considera illegali gli insediamenti ebraici costruiti sui terreni privati palestinesi, questa novità è in contrasto con gli stessi ordini impartiti dal governo in carica, che prevedono, per l'esercito, l'ordine di smantellare diverse colonie. Inoltre le stesse autorità israeliane considerano fuori legge, tutte le colonie costruite dopo il 2001, a prescindere anche dalla regola che considera legali quelle costruite sulla base della proprietà della terra.
La comunità internazionale, abbraccia una visione più ampia, considerando illegali tutti gli insediamenti posizionati nella West Bank ed a Gerusalemme Est occupate fin dal 1967. Netanyahu, con questa decisione, si dimostra ostaggio della estrema destra ebraica e mostra scarsa lungimiranza e poca attitudine all'esercizio del governo del paese; infatti una decisone tale mostra il fianco ad una prevedibile serie di critiche senza possibilità di replica. La base legale che il premier vorrebbe utilizzare, per rendere legali le colonie dovrebbe costruirsi sul principio ottomano (il che sarebbe un aspetto comico, se non fosse un tragico ossimoro) che prevede che la terra incolta o abbandonata sia destinata allo stato. Ora è evidente, che anche si volesse applicare una regola di uno stato che non esiste più, totale contraddizione giuridica, pur recependola nel proprio ordinamento, non si vede come si possa conciliare la destinazione dei terreni ad un'altra entità statale, soltanto confinante con lo stato legittimo. In questo modo si viola espressamente il diritto internazionale ed anche quello civile. Se il capo del governo israeliano intende controbattere con questa mossa all'operazione di Abu Mazen presso l'ONU, non fa altro che confermare la propria pochezza e rende esplicito il proprio pensiero di potere contare sempre sugli USA, anche se è chiaro che il Presidente americano non può che condannare questo espediente. Netanyahu gioca d'azzardo contando sulle prossime elezioni americane e sulla necessità per Obama del voto ebraico. Ma la sensazione è che questa alzata d'ingegno possa rompere una corda già molto consumata, gli americani, infatti, si sono focalizzati maggiormente sui problemi di casa propria ed addirittura, per Obama una condanna esplicita di Israele potrebbe costituire una boccata di ossigeno nei sondaggi.
La comunità internazionale, abbraccia una visione più ampia, considerando illegali tutti gli insediamenti posizionati nella West Bank ed a Gerusalemme Est occupate fin dal 1967. Netanyahu, con questa decisione, si dimostra ostaggio della estrema destra ebraica e mostra scarsa lungimiranza e poca attitudine all'esercizio del governo del paese; infatti una decisone tale mostra il fianco ad una prevedibile serie di critiche senza possibilità di replica. La base legale che il premier vorrebbe utilizzare, per rendere legali le colonie dovrebbe costruirsi sul principio ottomano (il che sarebbe un aspetto comico, se non fosse un tragico ossimoro) che prevede che la terra incolta o abbandonata sia destinata allo stato. Ora è evidente, che anche si volesse applicare una regola di uno stato che non esiste più, totale contraddizione giuridica, pur recependola nel proprio ordinamento, non si vede come si possa conciliare la destinazione dei terreni ad un'altra entità statale, soltanto confinante con lo stato legittimo. In questo modo si viola espressamente il diritto internazionale ed anche quello civile. Se il capo del governo israeliano intende controbattere con questa mossa all'operazione di Abu Mazen presso l'ONU, non fa altro che confermare la propria pochezza e rende esplicito il proprio pensiero di potere contare sempre sugli USA, anche se è chiaro che il Presidente americano non può che condannare questo espediente. Netanyahu gioca d'azzardo contando sulle prossime elezioni americane e sulla necessità per Obama del voto ebraico. Ma la sensazione è che questa alzata d'ingegno possa rompere una corda già molto consumata, gli americani, infatti, si sono focalizzati maggiormente sui problemi di casa propria ed addirittura, per Obama una condanna esplicita di Israele potrebbe costituire una boccata di ossigeno nei sondaggi.
La Birmania libera 6.300 prigionieri
La Birmania, messa alle strette dalle sanzioni di UE ed USA, annuncia la liberazione di 6.300 prigionieri. Tuttavia non viene precisato dagli organi statali birmani, se sono inclusi anche i prigionieri politici. La richiesta degli Stati Uniti e dell'Unione Europea verteva sul rilascio di circa 2.100 prigionieri politici, oggetto, quindi di abusi circa i propri diritti civili. Ed è proprio la questione sui diritti umani, non rispettati dalla passata giunta militare birmana ad essere la causa delle sanzioni di America ed Europa. Il nuovo governo birmano, pur avendo una impronta più libertaria è comunque espressione dei militari, che sono il vero soggetto forte dietro al governo. Ma la pressione sia internazionale, che interna, sta costringendo al cambiamento, seppure lento e graduale, il governo del paese, che sta operando progressive aperture in favore dei diritti civili e politici. I reclusi liberati rientrano nel piano avanzato dal governo al Presidente del paese, che richiedeva il rilascio dei cosiddetti prigionieri di coscienza e quelli che non costituiscono una minaccia alla stabilità dello stato ed alla pubblica tranquillità del paese. Con questa misura il governo della Birmania spera di attenuare la pressione di cui è oggetto e di cancellare le sanzioni per inserirsi a pieno titolo nell'economia della regione.
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