Politica Internazionale

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domenica 23 ottobre 2011

Svizzera alle urne con la paura dell'immigrazione

La Svizzera va alle elezioni con la paura dell'immigrazione. Nonostante la crisi che colpisce il mondo intero un altro paese europeo si rinserra al suo interno alimentando il fuoco di xenofobia che attraversa il continente. La tragedia norvegese provocata da Breivik rimane un monito inascoltato, le formazioni di estrema destra si fanno forza sulla paura del diverso e sulla conseguente possibilità che vada ad intaccare il proprio patrimonio. La visione è miope e talmente limitata, che il razzismo elvetico del partito dato per favorito, il Centro democratico dell'Unione, raggiunge vette molto elevate, tanto da temere l'immigrazione dalla UE e in special modo dai lavoratori provenienti dalla Germania. Non che vi siano gradi e livelli di razzismo in base alla nazione di provenienza dell'immigrato, ma la chiusura di un paese che si trova all'interno del continente e che è esso stesso una aggregazione di etnie, provoca ancora più sconcerto in una qualsiasi analisi del fenomeno. E' troppo facile affermare che su i capitali che la Confederazione accoglie, spesso in maniera poco chiara, non viene fatta alcuna analisi di provenienza, che al contrario sarebbe opportuna, tuttavia, pur nel rispetto della volontà dei cittadini elvetici, un organismo come la UE, colpita direttamente dalla propaganda elettorale del partito di maggioranza, dovrebbe trovare forme sia di pressione che di ritorsione contro un governo formato da esponenti di una formazione che ne fa oggetto di pura xenofobia. Inoltre l'Unione Democratica di Centro afferma di avere già raccolto più di 100.000 firme per un referendum che possa revocare gli accordi di libera circolazione con la UE.
La tendenza all'isolazionismo svizzero pare così accentuarsi e forse sarebbe il caso che Bruxelles accontentasse gli elvetici con una revisione degli accordi in essere con la UE.

La Libia verso una Repubblica islamica moderata

Archiviata in modo tragico la pratica Gheddafi, per la Libia si apre ora concretamente la transizione alla democrazia. Si tratta di una novità per il popolo libico, che non ha mai esercitato il diritto di voto, tuttavia la grande quantità di emigrati, di cui molti hanno fatto ritorno per combattere il regime del colonnello, ha preso dimestichezza, seppure in modo indiretto, con le regole del sistema democratico. Ma quello che più preoccupa l'occidente non è la scarsa pratica al pluralismo, bensì il timore di una deriva verso una forma di governo pesantemente influenzata dalla religione islamica. Va detto che i quaranta anni di governo di Gheddafi sono stati caratterizzati da una forma di religiosità addomesticata in funzione dell'amministrazione del rais, dove la fede islamica originale è rimasta confinata nelle aree più riservate dei clan tribali, mentre nelle zone metropolitane si è trattato si una forma religiosa annacquata dalle tendenze funzionali al regime. Questo è stato uno dei fattori che ha determinato un islamismo di tipo moderato che è quello fondamentalmente presente in Libia. Un altro fattore è la ferrea repressione operata dal regime sui movimenti fondamentalisti islamici, che infatti, non sono mai riusciti a costruire una propria organizzazione efficiente sul territorio. Le premesse, quindi, per evitare una deriva fondamentalista del paese vi sono tutte, anche se la tendenza che pare più favorita sia quella di una repubblica islamica, il genere dovrebbe essere di tipo moderato. L'affermazione di tale tendenza, a ben vedere, è una naturale conseguenza dell'assenza di partiti e movimenti negli ultimi quaranta anni di storia libica, dove il culto della personalità di Gheddafi doveva andare a riempire ogni forma di possibile associazionismo; soltanto i clan tribali hanno rappresentato l'unica forma di socialità e con tutti i loro difetti di chiusura ed isolamento sono stati l'unica forma di alternativa all'onnipresente stato centrale. Con questo stato di fatto la religione rappresenta l'unica bussola cui fare riferimento, ma questo non vuole dire necessariamente che ci sia una affermazione possibile dell'integralismo, l'attività del CNT è stata contraddistinta da assenza di proclami religiosi ed il lavoro sia militare, che diplomatico svolto con i paesi e le organizzazioni occidentali ha dimostrato la presenza di un dialogo fattivo. Il possibile sviluppo in senso islamico moderato non deve essere quindi temuto, la Libia non pare dirigersi verso una repubblica islamica di tipo iraniano in versione mediterranea, ma ha concreto bisogno di qualcosa di solido cui ancorarsi dopo un lungo periodo di vuota oppressione.

giovedì 20 ottobre 2011

Turchia e Kurdistan iraqeno contro il PKK

La Turchia lancia l'offensiva in Iraq, dopo avere subito l'attacco più grave degli ultimi anni dal PKK. Il governo del Kurdistan iraqeno, che gode di autonomia amministrativa nell'ambito dello stato dell'Iraq, avrebbe dato il proprio benestare esplicito alle forze armate turche. E' questo l'elemento di novità nel quadro del conflitto, il Kurdistan iraqeno vive la presenza, sul proprio territorio del partito armato curdo, come un problema, sia sul fronte interno, che su quello esterno. Lo sviluppo economico turco, che ne ha determinato il rango di locomotiva della regione, ha intrecciato con il Kurdistan diversi accordi, anche per la contiguità territoriale e l'ostacolo PKK, non conviene a nessuno. L'autonomia normativa di cui godono i curdi iraqeni, frutto anche dell'intermediazione USA, guadagnata con l'aiuto nella guerra contro Saddam, ha permesso alla regione autonoma uno situazione di indipendenza abbastanza vicina ad una entità statale, che di fatto, rappresenta la maggiore forma di autonomia per il popolo curdo. Non è ancora la nazione sognata, ma è la cosa più vicina ad essa, che i curdi hanno mai avuto a disposizione dalla dissoluzione dell'impero ottomano. Questa forma di autonomia ed indipendenza è ritenuta ormai troppo preziosa per essere inficiata dalla continua alterazione del difficile equilibrio, che le azioni militari del PKK stanno portando. Peraltro l'escalation militare intrapresa dal PKK è dovuta a questioni che rientrano nella sfera dei curdi interna alla Turchia. Lo sganciamento dalla protezione del PKK per i curdi iraqeni potrebbe significare un distacco da una più generale accezzione della lotta a favore di tutto il popolo curdo, per privilegiare la parte iraqena. Oltre al fatto economico vi è anche il peso militare dell'esercito di Ankara, che è uno dei meglio equipaggiati ed addestrati della regione, in forza, anche, dell'appartenenza alla NATO. Militarmente uno scontro con le forze armate turche è insostenibile e quindi il Kurdistan iraqeno non può che prendere atto della situazione e fare buon viso a cattivo gioco. Piuttosto è difficilmente interpretabile la scelta di attacchi in campo aperto da parte del PKK, anzichè optare per una tattica fatta di attentati contro obiettivi urbani. Una spiegazione possibile è che il livello di prevenzione e controllo dell'apparato turco sian diventato talmente efficace da costringere il PKK ad agire soltanto al confine tra Ankara e Bagdad. A supporto di questa tesi vi è anche la reprimenda di Erdogan contro il partito filo curdo BDP, accusato di troppa benevolenza nei confronti del PKK: il tutto pare una strategia tesa ad isolare nel modo più completo possibile il movimento curdo in Turchia, ma questa potrebbe essere anche la ragione dei rabbiosi attentati.

UE e Balcani, un processo lungo e difficile

L'Unione Europea aprirà a nuovi paesi come soci nell'organizzazione. La strada delle nuove adesioni punta a sud-est, verso i paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. In effetti sulla carta geografica manca la continuità territoriale, che si interrompe proprio in corrispondenza della penisola Balcanica. Tuttavia la situazione dei balcani non presenta affatto una uniformità nel processo di ammissione della UE. Se per la Slovenia essere un paese UE è un dato di fatto fin dal 2004, completato anche dall'appartenenza alla zona euro e per la Croazia diventare membro a tutti gli effetti sarà realtà a Luglio 2013, grazie ad avere maturato tutti i requisiti necessari per l'ammissione, in una trattativa tutt'altro che facile e durata diversi anni, richiesti da Bruxelles, per gli altri paesi balcanici l'iter in corso non è dei più semplici. Il paese più importante, la Serbia, ha compiuto diversi progressi sul piano internazionale, ma deve ancora risolvere difficili questioni interne relative ai movimenti nazionalisti presenti nel paese ed ai problemi con il Kosovo.
Problemi analoghi, sebbene ancora più esasperati, creano difficoltà alla Bosnia Ezegovina, dove i difficili rapporti tra le tre etnie del paese (serbi, croati e musulmani) provocano sia l'impasse interna, con l'impossibilità di creare un governo stabile, sia l'avvio di concreti negoziati con Bruxelles per l'ingresso nell'Unione Europea. Più vicino all'organizzazione europea pare il Montenegro, che, sulla carta, ha avviato una politica legislativa in grado di fermare la malavita e la corruzione, tuttavia sarà necessario che alle intenzioni seguano i fatti con una reale applicazione delle leggi emanate in un paese che fa degli affari illeciti uno dei motori della propria economia.
I paesi in maggiore difficoltà nell'ingresso nella UE sono il Kosovo, che ha difficoltà ad essere riconosciuto come entità statale dal panorama internazionale (solo 83 paesi lo riconoscono come stato sovrano sui 193 dell'ONU) ed è parte attiva nella controversia con la Serbia, insieme con l'Albania che attraversa una lunga crisi politica e non è in grado di assicurare la stabilità necessaria per avviare riforme strutturali, che garantiscano i requisiti richiesti dalla UE. Oltre ai problemi dei singoli stati, la situazione balcanica va vista in un quadro di insieme su di un territorio che presenta contrasti atavici tra le varie popolazioni e sacche di arretratezza in cui sarebbe essenziale l'intervento UE da subito e non successivo alla risoluzione di requisiti difficilmente raggiungibili. Se la UE vuole veramente inglobare queste zone nel suo seno deve, forse fare uno sforzo preventivo per ottenere un maggiore convolgimento, prima di tutto ottenendo più convinzione delle popolazioni, che vivono nelle zone in questione. Ma vi è anche l'altra faccia della medaglia, dove si deve considerare se la UE, in questo momento deve insistere su di questo processo di integrazione o se deve valutare meglio se nell'attuale momento storico sia da posporre tale azione. La situazione economico finanziaria in corso, una delle più difficili degli ultimi anni, il problema migratorio, molto sentito, che in caso di ammissione dei paesi balcanici è destinato ad aumentare, andando così ad aggravare la situazione sociale dei paesi europei, sono fattori su cui Bruxelles deve compiere attente valutazioni, perchè non sempre una maggiore unione determina una maggiore forza.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il confronto tra Turchia e Curdi si aggrava

La questione curda si ripropone con tutta la sua violenza. Dopo i ripetuti attacchi dell'estate appena trascorsa da parte delle truppe turche in territorio iraqeno, dove si trovano le roccaforti del PKK, il partito curdo dei lavoratori, principale soggetto autore degli attentati contro le forze armate di Ankara, ha iniziato a rispondere con una ritorsione su vasta scala che ha visto la morte di ventiquattro soldati turchi ed il ferimento di altri diciotto. Gli attacchi si sono svolti sul confine dello stato iraqeno, successivamente la rappresaglia turca, avvenuta sconfinando in Iraq, ha determinato la morte di quindici militanti del PKK. La tattica militare curda è consistita in una serie di attacchi a posti di frontiera della gendarmeria turca, che è stata colta impreparata dalla simultaneità delle azioni. La risposta turca, infatti è stata affidata ad una azione combinata di truppe d'elite di terra con l'appoggio dell'aviazione militare. Secondo gli esperti le azioni dal cielo non bastano per avere ragione delle forze curde e questo ne è l'esempio più lampante. Per la Turchia il problema curdo sta diventando sempre più pressante, la scarsa autonomia concessa alle comunità curde presenti sul territorio di Ankara ed i problemi connessi alla rappresentatività ed alle stesse condizioni dei curdi sul suolo turco, non sono migliorate in un quadro di generale miglioramento delle condizioni generali del paese, che sta attraversando un periodo di boom economico e di crescente importanza sulla scena politica internazionale. Paradossalmente il problema che ora assilla più Erdogan viene da un fronte interno che è sempre stato caldo, ma che ora sta diventando l'ostacolo più difficile da superare per la nuova immagine che la Turchia vuole offrire al mondo e sopratutto all'Europa, nei confronti della quale non è mai tramontato il sogno di un ingresso nella UE, malgrado i ripetuti rifiuti. Il premier di Ankara ha più volte dichiarato di volere percorrere una via democratica per la soluzione della questione, che riguarda circa quindici milioni di cittadini turchi di etnia curda, che rappresentano una quota consistente nella totalità degli oltre settantasette milioni di abitanti. La maggiore rivendicazione del PKK è una riforma dello stato in senso pluralistico che non collima con l'indirizzo della coalizione al governo di matrice islamica, seppur moderata. Le mancate concessioni autonomistiche alla minoranza turca sono fonte, così di continua disputa ed incidenti tra i due contendenti, che non paiono muoversi dalle loro posizioni. In più per la Turchia, che è stato sovrano, le continue azioni su suolo straniero, seppure tacitamente sopportate dal governo di Bagdad, potranno diventare fonte di problemi a riguardo della violazione di altro stato, fintanto, che, almeno non sia raggiunto e sottoscritto un accordo di mutua cooperazione tra i due stati. L'eventualità non pare, però di immediata percorribilità per il contributo dato dai combattenti curdi contro Saddam Hussein. Una soluzione potrebbe essere il coinvolgimento degli USA, a cui l'appoggio dei combattenti curdi è stato quasi essenziale e che può vantare una buona influenza su Ankara come importante membro NATO. Del resto per gli americani un focolaio del genere in una zona così cruciale non deve certo fare comodo ed un investimento di esclusivo tipo diplomatico potrebbe raggiungere risultati tali da permettere, se non di spegnere, almeno circoscrivere l'incendio.

Egitto: la strana alleanza tra militari e radicali islamici contro i copti

Nell'Egitto del dopo Mubarak i disordini di cui sono stati vittima i copti nascondono una strategia dell'esercito, che ora occupa, di fatto, il potere. Se era vero che il regime precedente garantiva una maggiore protezione ai cristiani egiziani, questo fatto ha determinato il fatto che la comunità cristiana diventasse invisa agli ambienti più radicali dell'islam nazionale. Per certi versi si è manovrata una percezione sbagliata, che ha configurato nella protezione accordata da Mubarak una contiguità con il regime. Il rovesciamento del precedente governo ha avuto come protagonista la piazza, dove la parte islamica più radicale, pur non avendo un ruolo di guida preponderante, ha però avuto un fondamentale ruolo logistico e tattico, sopratutto con l'organizzazione dei Fratelli Musulmani, capaci di fornire una struttura alla protesta spontanea. Tuttavia il moto proveniente dalla rivolta della società civile non avrebbe potuto avere successo senza un tacito appoggio delle forze armate, che hanno saputo sganciarsi per tempo della dittatura, andando così a ritagliarsi il ruolo determinante che ha permesso la transizione di potere. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, ora a comandare in Egitto sono i militari, che cercano di posticipare la data delle elezioni mettendo sempre nuovi paletti verso il regime democratico. La paura degli uomini con le stellette è di una proiezione troppo in avanti del paese, che possa relegare le forze armate su di un piano secondario, anche perchè le forze armate, forse, non hanno ancora insabbiato tutte le correità compiute con il vecchio regime. Il potere dei gruppi islamici più radicali rappresenta comunque una influenza sulla società civile e dietro le quinte non è difficile individuare una possibile comunità d'intenti proprio tra questi gruppi e l'esercito. In questa fase politica dell'Egitto, aperta ad ogni possibile sviluppo, trovare una sorta di nemico comune sul territorio nazionale, i copti nella fattispecie, rappresenta un parafulmine su cui concentrare le attenzioni per distoglierle da altre questioni, ancora più delicate. Le prove di questa alleanza sotterranea sono nel protagonismo e nella parzialità dell'intervento dell'esercito teso ad affiancare i gruppi islamici contro i copti e nella repressione a senso unico negli scontri. Quello che emerge è uno scenario dove l'Egitto inaugura la strada verso la democrazia in maniera sbagliata, lasciando una percentuale consistente, il 10% della popolazione, in una situazione di inferiorità; l'aspetto non confessionale della nuova forma di governo manca da subito e ciò rappresenta un problema per il prosieguo sulla strada della modernizzazione del paese.

martedì 18 ottobre 2011

Sociologia della violenza di piazza nell'era delle crisi finanziarie

La grande impressione degli scontri di Roma segue i fatti di Atene, che si sono ripetuti più volte da questa primavera, ed anche quelli di Londra, dove alcuni dimostranti hanno sottoposto le città dove si effettuavano cortei di protesta, a distruzioni e saccheggi, con tattiche assimilabili ad organizzazioni militari. Fatta implicita la condanna di questo modus operandi, che va anche ad inficiare le ragioni dei dimostranti pacifici, occorre analizzare la portata del fenomeno. La presenza di un'area antagonista fortemente militarizzata e capace di dimostrazioni di forza è un fatto relativamente nuovo. L'avversione militare al potere costituito, dalla fine degli anni '60 fino agli anni '80 inoltrati, avveniva con movimenti e bande armate organizzate in rigide strutture burocratico militari, che praticavano la così detta lotta armata con obiettivi ben definiti sia singoli, nel caso della lotta armata di matrice di estrema sinistra (in particolar modo in Italia e Germania), che più ampi, fino ad essere ricompresi nella definizione di strage, nel caso della destra estrema, specialmente nel caso italiano. Una serie di fattori ha determinato la fine dei movimenti terroristici, sia di natura investigativo poliziesca, sia per le mutate condizioni sia sociali che internazionali, tra cui la caduta del muro di Berlino e le sue conseguenze è stata uno dei fattori maggiori. Ma la rabbia sociale è rimasta e la fine dei partiti tradizionali, con la progressiva affermazione del così detto partito leggero, ha costituito la mancanza di una diga capace di contenere e controllare, almeno in parte, il fenomeno. La progressiva affermazione di sempre maggiori differenze di reddito e di possibilità hanno creato un aumento della forbice della diseguaglianza, andando ad alimentare il numero delle persone, sopratutto giovani, senza rete di protezione sociale. La crisi economica ha fatto il resto: un'ondata di rabbia ha travolto questi movimenti che hanno visto come unico sfogo l'esercizio della violenza in un contesto pubblico, sia come modo di protesta, sia come affermazione estrema delle proprie rivendicazioni. Non sembra che con questi movimenti vi siano margini di trattativa, l'assunto che sembra caratterizzarli pare il "tanto peggio, tanto meglio", ed il rifiuto di ogni forma di dibattito canalizzato e regolato da norme solitamente accettate, non fa che confermare l'assoluto rifiuto per la società che combattono. Va detto che ai componenti iniziali dell'area antagonista: squatter, componenti dei centri sociali, che, all'inizio, pur essendo determinati e combattivi, non sommavano una grande quantità di elementi, si sono aggiunti progressivamente numeri consistenti provenienti da espulsi dal mondo del lavoro, appartenenti a territori su cui sono stati progettate infrastrutture non condivise dai residenti e genericamente vittime della situazione finanziaria. Ciò che contraddistingue l'azione violenta è il senso di profonda ingiustizia che costringe a caricare il peso di manovre finanziarie fatte da altri soggetti sulla collettività, rifiutando il modo di manifestare pacifico, perchè ritenuto inutile. La devastazione che prende di mira banche, agenzie interinali ed edifici governativi ha il chiaro scopo di rimarcare il rifiuto di una società in cui non riconoscersi. Un fatto nuovo è la internazionalità del movimento violento, che determina, oltre ad una condivisione comune delle idee, degli scopi e delle finalità, anche una intercambiabilità ed un mutuo sostegno degli stessi attori fisici che compiono le devastazioni: non è raro vedere scritte e striscioni in greco e spagnolo in Italia e viceversa, che dimostrano la presenza di elementi di altri stati nella nazione dove si svolgono le manifestazioni. Come ovviare a questo fenomeno? Se in una prima fase la prevenzione è il mezzo più efficace, sul lungo periodo non basta puntare sulla limitazione dei movimenti degli elementi ritenuti più pericolosi, ed anzi una soluzione del genere protratta nel tempo rischia di innescare fenomeni di emulazione che vanno soltanto ad aumentare le fila di questi movimenti. Scartando l'ipotesi più ovvia, che è quella di sistemare le storture del sistema economico finanziario mondiale, perchè la più difficile da percorrere, occorrerebbe mettere in campo una azione sociale capillare, capace da un lato di smussare le evidenti difficoltà pratiche della gran parte degli aderenti a questi movimenti e dall'altra canalizzare queste forme di associazionismo di ribellione in forme più costruttive di volontariato verso le stesse fasce sociali, come, in parte già avviene con le attività di molti centri sociali in tutta Europa.