Politica Internazionale

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mercoledì 7 marzo 2012

La Cirenaica si dichiara autonoma: Libia verso lo stato federale

Iniziato già prima della fine di Gheddafi, per la Libia si acuisce il problema della divisione territoriale e tribale, che mina alle fondamenta il già precario equilibrio dello stato. Per quanto riguarda l'organizzazione territoriale dello stato si confrontano due visioni diametralmente opposte: stato unitario e federalismo, quest'ultimo è stato abbandonato nel 1963 e comprendeva tre regioni amministrative: Cirenaica (est), la Tripolitania (ovest) e Fezzan (sud). Il governo di Gheddafi ha sempre discriminato la Cirenaica a favore delle altre regioni, in special modo la Tripolitania, ed infatti proprio da Bengasi, capitale della parte est del paese, è partita la rivolta che ha rovesciato il regime. Le pulsioni autonomiste sono state sempre motivo di repressione da parte delle forze di Gheddafi nella Cirenaica ed il sentimento indipendentista non si è mai sopito nella maggioranza della popolazione. Nella giornata del 6 marzo 2012 a Bengasi è stata ratificata, indipendentemente dalla volontà del Consiglio Nazionale di Transizione, con una cerimonia ufficiale, alla presenza di comandanti delle milizie e rappresentanti delle tribù, l'indipendenza della regione dalla Libia anche attraverso la creazione di un congresso regionale indipendente e di una propria forza armata. Tale decisione non disconosce l'autorità nazionale del Consiglio Nazionale di Transizione, a cui è riconosciuta la guida della nazione, ma ratifica la creazione di uno stato autonomo unito alla Libia in maniera sostanzialmente federale. Tripoli, anche nella nuova veste di capitale libica sede del Consiglio Nazionale di Transizione, è sempre stata contraria ad una ripartizione federale dello stato, preferendo una nazione maggiormente unita; nella capitale si è consci che favorire un processo in senso federativo dei territori sia la potenziale anticamera della disgregazione nazionale. Del resto storicamente la Libia non è mai esistita e non è stato certo il governo di Gheddafi a sviluppare un sentimento nazionale unitario in una società arcaica dove tuttora l'elemento tribale, non certo fattore aggregativo, è l'unico organismo sociale presente di un certo rilievo. Ma se Gheddafi aveva interesse a mantenere uno stato diviso in modo da avere maggiore facilità a dominarlo, l'interesse dei politici del Consiglio Nazionale di Transizione va nella direzione opposta. Nella loro visone, molto comprensibile, soltanto una forte unità dello stato può permettere la costruzione di una nazione stabile. In questa fase storica, dare spazio a tendenze separatiste può effettivamente portare alla divisione dello stato ben oltre l'assetto federativo. La regione è ben chiara lo stato libico, come è ora sistemato, poggia su fondamenta tutt'altro che solide, proprio per la totale assenza di spirito nazionale nei diversi clan tribali, che è bene sottolinearlo ancora, restano l'elemento fondante della struttura sociale libica. Anche il fatto che non si è voluto dare da subito una costruzione di tipo federale allo stato, fin dalla sconfitta di Gheddafi, significa che tale soluzione è stata scartata perchè troppo destabilizzante per il processo post bellico che stava per intraprendere il paese. Tuttavia queste differenze sostanziali esistono e sono le fessure che possono permettere ad agenti stranieri di infiltrarsi nella costruzione della nuova Libia. E' quanto ha espressamente dichiarato Moustapha Abdeljalil, capo del Consiglio Nazionale di Transizione, accusando i paesi arabi di alimentare la volontà indipendentista della Cirenaica, regione notoriamente petrolifera e quindi dotata di una ricchezza fondamentale per il nascente stato libico. Se ciò fosse vero l'ingerenza potrebbe giustificare la volontà di dividere un potente concorrente economico nel mercato del greggio. Del resto i finanziamenti ai ribelli provenienti dai paesi arabi sono stati ingenti, anche se pare obiettivamente difficile che siano stati pianificati per arrivare ad un tale risultato. Questo elemento, rappresentato dalla creazione di una entità autonoma nella Cirenaica, rappresenta un ulteriore elemento di disturbo nel cammino della formazione dello stato, che nonostante la scomparsa di Gheddafi, presenta numerosi segnali contrari al percorso democratico, come le ripetute segnalazioni da parte delle organizzazioni dei diritti umani per episodi di violenze perpetrate dalle milizie ai danni dei presunti seguaci del colonnello, che vanificano la pacificazione nazionale necessaria per stabilire un clima sereno nel paese. Risulta difficile ipotizzare le conseguenze del gesto dei dirigenti di Bengasi, ora il Comitato Nazionale di Transizione deve fare in modo di fare cambiare idea alla Cirenaica, impresa che pare difficile, in modo diplomatico e non pare possibile che Tripoli intraprenda una azione militare a guerra appena conclusa. Del resto l'atteggiamento di Bengasi, che riconosce sia la Libia unita, che l'autorità del Comitato Nazionale di Transizione chiude la porta ad azioni violente, che aprirebbero, allora si, la creazione di una entità statale separata. Più facile che Tripoli accetti la decisione di Bengasi e modifichi, anche se di malavoglia, i propri convincimenti sull'assetto dello stato verso la forma federale. Del resto questa è la tendenza dominante nel mondo, la valorizzazione delle piccole patrie, attraverso distacchi dall'organismo centrale di tipo morbido ed entro binari comunque ben definiti, se succede in Europa può accadere anche in Africa.

martedì 6 marzo 2012

La vittoria di Putin, nonostante i brogli

E' lo stesso vincitore delle elezioni presidenziali russe Vladimir Putin che riconosce anomalie ed irregolarità avvenute durante il voto che lo ha portato alla vittoria. Putin è diventato nuovamente Presidente della Federazione Russa con il 63,3% dei voti, una percentuale largamente prevista dai sondaggi, un vantaggio ben oltre la soglia che richiedeva il turno di ballottaggio, un vantaggio che gli consente tranquillamente di ammettere le irregolarità avvenute in fase di scrutinio, ma che garantisce anche un margine di consensi talmente ampio da fare rientrare i brogli denunciati in una quota quasi fisiologica del sistema, comunque non in grado di intaccare il largo successo ottenuto. Putin, forte di questo calcolo, apre così alle opposizioni e si mette in regola con la denuncia del capo degli osservatori dell'OCSE, che ha espressamente affermato la presenza di elementi di slealtà nella conta dei voti. L'auspicio del nuovo Presidente russo, che siano gli organi competenti ad investigare sui presunti brogli suona come l'ennesimo mancato rispetto delle procedure elettorali e fanno della Russia una democrazia incompiuta, dove vige il potere oligarchico. Tuttavia l'ammissione di Putin in altri tempi sarebbe stata impensabile, le grandi proteste di questi giorni che hanno coinvolto un gran numero di persone indicano, che determinati comportamenti non passano più sotto silenzio e dimostrano la formazione di una coscienza collettiva, che seppur minoritaria, scuote un mondo ancora condizionato dal rapporto col potere tipico dell'era sovietica. Putin, pur con la grande maggioranza di voti, regolari o no, acquisiti, dovrà per forza cambiare il rapporto con le altre parti sociali, che hanno rinunciato alla accettazione passiva delle direttive dall'alto per portare in piazza le proprie istanze in modo chiaro. Certamente la grande divisione delle forze di opposizione gioca in suo favore, ma non è detto che con il tempo non possa evolversi una intesa che consenta di formare alternative al gruppo di potere che guida la Russia da tempo. Per ora Putin può limitarsi a bollare il disaccordo delle altre forze politiche sulla correttezza del voto, come mezzo di azione politica, che non rispetta il risultato delle urne. Politicamente, poi, la mossa di presiedere la Commissione elettorale centrale, avente il compito di indagare sulla regolarità del voto sembra più che altro una via di mezzo tra provocazione e sfacciataggine, comunque sicuramente non un buon punto di partenza per stabilire un corretto rapporto con le forze di opposizione. La manovra appare come un vecchio rimasuglio dell'era sovietica, dalla quale Putin non si è mai affrancato del tutto. La questione non è irrilevante, giacchè vede minata dalla base la possibilità per il paese di scrollarsi di dosso vecchie usanze, mai abbandonate, che hanno ben poco a che fare con la democrazia. Nonostante il risultato fosse atteso la delusione che serpeggia tra gli oppositori è notevole, con la speranza di un voto regolare potevano ambire almeno ad un ballottaggio, dal quale, però, sarebbero usciti difficilmente vincitori. L'apparato messo in piedi da Putin, vecchio colonnello del KGB, è praticamente imbattibile per penetrazione della società russa, che alla fine si è fidata di una figura non completamente distaccata dall'Unione Sovietica, malgrado la distribuzione fortemente ineguale di ricchezza, sviluppata sotto i suoi precedenti governi. Per la maggioranza dei russi Putin incarna una sorta di classe media che pur abbracciando le novità del nuovo stato, non ha completamente abbandonato i vecchi costumi, rappresentando così una sorta di garanzia di una transizione che non si vuole del tutto completa. Resta però il dubbio della presenza dei brogli elettorali, che sul piano diplomatico, inficiano il successo del nuovo Presidente, malgrado il potere riconquistato, con tali dubbi, per Putin non sarà facile agire da primo attore, per lo meno nel breve periodo, sulla scena internazionale. Non è un handicap da sottovalutare per le sfide mondiali che attendono la Russia e che Putin vuole ritorni ad avere un rilievo di grande potenza.

Sull'economia la Cina è ad un bivio

La globalizzazione. che costituiva il punto di forza dell'economia cinese, riverbera i propri effetti negativi anche su Pechino. L'andamento negativo delle economie occidentali, che costituiscono il principale mercato di sbocco delle merci cinesi, costringe a rivedere le stime di crescita ribassando di mezzo punto, dall'8% al 7,5%, la crescita prevista. Viene così abbattuta la barriera psicologica del fatidico 8% di crescita, valore mantenuto fermo per tutto il decennio scorso. Mezzo punto in meno per un gigante come la Cina significa molto, Pechino dovrà rinunciare a progetti in vari campi e sopratutto potrebbe avere a che fare con una crescente protesta, fattore sociale che già preoccupa molto i dirigenti cinesi, tanto da avere stanziato ben 85 miliardi di euro, con un incremento dell'11,5% rispetto all'anno precedente, la somma da destinare alle forze di polizia per prevenire e contenere i disordini interni. Si stima che ogni giorno in Cina vi siano circa 246 rivolte, dovute, in maggior parte, sia alla corruzione dei funzionari sia alla grande diseguaglianza che la grande crescita economica ha generato. Una causa individuata dai vertici del Partito è di natura squisitamente economica ed è l'elevato tasso di inflazione, sintomo negativo comune alle economie di mercato occidentali, proprio per questo le intenzioni dei governanti cinesi sono di contenere entro il 4% l'inflazione cinese, grazie ad una scrupolosa politica che controlli rigidamente il livello dei prezzi giunta ad una offerta creditizia mirata. Ciò dovrebbe scongiurare crisi di tipo finanziario, anche grazie alla volontà di mantenere stabile il tasso di cambio ed il contenimento del costo degli immobili. Questa ultima azione è necessaria per coprire due fronti: evitare le bolle speculative di tipo immobiliare e soddisfare la richiesta della popolazione, tema che è stato spesso fonte di proteste e manifestazioni. Il governo centrale ha finalmente riconosciuto anche il problema delle amministrazioni locali, che spesso con la loro cattiva gestione sono fonte di instabilità sociale, che può creare pericolosi e potenziali contagi dalla periferia al centro dell'impero, anche perchè il fenomeno della corruzione degli organismi locali è strettamente connesso con l'elevato debito pubblico relativo proprio alle amministrazioni locali. Su questo tema si innescano a loro volta tematiche che riguardano i dati finanziari cinesi nel loro complesso, in quanto il centro scarica sulle realtà locali il debito pubblico relativo alla massiccia costruzione di infrastrutture, che ha caratterizzato pesantemente il PIL generale. Le commesse della gestione delle infrastrutture generano corruzione a cascata andando a chiudere il cerchio del problema generale che affligge sia lo stato nel suo complesso, sia la preoccupazione per le rivolte e la stabilità sociale degli organismi centrali. Proprio per questi motivi Pechino ha dichiarato di aumentare l'attività ispettiva presso le amministrazioni locali per combattere e prevenire la dilagante corruzione. In ogni caso il problema del debito è stimato a circa 1.300 miliardi di euro frazionati nelle varie amministrazioni che gestiscono l'immenso territorio cinese, è un problema che prima o poi Pechino dovrà affrontare perchè altera i valori fondamentali dell'economia cinese, sui quali rischia di avere un impatto devastante. Tutti questi fattori nel loro complesso segnalano che per l'economia cinese è forse arrivato un momento cruciale, quello di ridurre la partecipazione dello stato nelle imprese. Secondo diversi economisti soltanto immettendo dentro al sistema forti dosi di economia di mercato, con l'aumento della concorrenza e del mercato interno, la Cina potrà riprendere la crescita a due zeri. Tuttavia tali scelte non potranno essere compiute se non in un quadro di maggiore libertà politica, necessaria a fornire gli spazi di manovra necessari per questo indirizzo. Al riguardo l'apparato cinese non appare ancora pronto a lasciare quote di potere e ad allentare il controllo ferreo sulla società, per questo motivo la Cina rischia una sorta di una transizione incompiuta a grande paese industriale, senza il riconoscimento dei diritti civili e sindacali prevedere una maggiore liberalizzazione dell'economia è soltanto un'ipotesi di scuola che non arriverà mai a compimento.

lunedì 5 marzo 2012

In Africa la prossima primavera araba?

E' possibile immaginare un movimento simile alla primavera araba in altre parti del mondo, dove, cioè rivolte, nate spesso da episodi scatenanti, ma con una grave situazione stratificata precedente, possano rovesciare i governi in carica? Per qualche tempo si è pensato che la Cina potesse essere protagonista di fatti analoghi, ma la grande forza dell'apparato di repressione giunta alla diffusione di un consumismo capace di anestetizzare le coscienze hanno bloccato quelle che sembravano le prime avvisaglie di ribellione. Certo restano presenti focolai pericolosi per Pechino, come il Tibet, dove vi è però l'elemento della patria negata a funzionare come propellente per rivolte che vengono soffocate con la violenza. Il caso siriano rappresenta una continuazione ideale, sia per l'elemento geografico che politico, della primavera araba, anche se l'affermazione dei gruppi contrari alla dittatura incontra maggiori difficoltà, per la presenza di un regime ancora più sanguinario di quelli della sponda sud del Mediterrano, ed in effetti è difficile ipotizzare una sconfitta di Assad senza un aiuto straniero, ipotesi che per ora, grazie alla presenza di ragioni politico diplomatiche contrastanti, pare ancora lontana. Pur in tutta la sua gravità il caso siriano è comunque circoscritto ad una popolazione ed un territorio limitati e la sua conclusione avrà un impatto senz'altro minore di quanto temuto da Kandeh Yumkella, direttore generale dell'UNIDO, l'agenzia dell'ONU per lo sviluppo industriale. Quello temuto da Yumkella è una primavera araba in versione africana, che prendendo spunto dai recenti disordini avvenuti a Dakar, individua nel territorio subsahariano, una zona ad alto potenziale di rivolta. Come negli stati arabi la mancanza cronica di lavoro e prospettive, qui aggravata da oggettive situazioni di carenza alimentare, potrebbe innescare ribellioni capaci di sovvertire l'ordine costituito. La facilità di accesso ai moderni mezzi di comunicazione, dato il loro basso costo è l'altro dato comune con i giovani arabi, ed è già stato sperimentato con successo in Senegal. Il problema è che una situazione analoga alla primavera araba nei paesi africani potrebbe avere sviluppi ancora più devastanti perchè in territori formati da stati artificiali, composti da etnie spesso nemiche, un po come in Libia, ma moltiplicato almeno per dieci. Un'Africa instabile non è nell'interesse di nessuno, le conseguenze anche per l'occidente possono essere incalcolabili: si andrebbe dall'incremento dei profughi al blocco di interi settori economici che si basano sulle materie prime provenienti dal continente africano. L'allarme del direttore dell'UNIDO non è da sottovalutare, anche perchè le contromisure potrebbero convenire sia ai paesi africani che a potenziali soggetti capaci di prestare le proprie conoscenze per favorire lo sviluppo economico dell'Africa e sopratutto la diffusione di un benessere tale da placare le istanze di rivolta. Un ruolo che potrebbe essere ricoperto dall'Unione Europea, in maniera da placare possibili esplosioni di violenza ma, nel contempo, generare occasioni di sviluppo tali da sviluppare collaborazioni comuni in un'ottica che sappia cancellare il ricordo colonialista, ancora ben presente.

USA, Israele ed Iran e le presidenziali americane

Per Obama la questione iraniana rappresenta l'ostacolo maggiore, per i temi di politica estera, nella campagna elettorale. Il problema coinvolge diversi aspetti: dal rapporto con Israele e con la potente lobby ebraica americana, all'uso delle forze armate a stelle e strisce, che per una parte consistente dell'opinione pubblica USA è stato abusato negli ultimi anni in scenari che alla fine sono stati visti lontani dall'interesse americano, al fattore del conflitto in senso stretto con l'Iran, su cui si hanno ancora meno certezze della conclusione e dei risultati rispetto a situazioni che parevano più sicure come Iraq ed Afghanistan, che si sono poi rivelate molto problematiche. Il Presidente uscente deve usare una tattica che non lo comprometta su posizioni che possano sembrare o troppo morbide o troppo rigide. Probabilmente Obama è sinceramente contrario all'intervento militare e la sua linea è quella di insistere sulla pressione diplomatica, inoltre il risultato elettorale iraniano che ha penalizzato Ahmadinejad, gioca in suo favore; ma la volontà di Netanyahu va nella direzione opposta, perchè non condivide la possibilità che i risultati diplomatici blocchino i progressi sull'ordigno atomico iraniano e propende per un attacco che alcuni analisti danno per sicuro nel giro di pochi mesi. Questo atteggiamento intransigente del governo di Tel Aviv ha obbligato Obama ad una apertura, per la verità piuttosto esplicita, ad una possibile soluzione militare ed al riconoscimento della sovranità israeliana di prendere in modo autonomo la decisione dell'attacco preventivo. E' una concessione logicamente dovuta sopratutto alla potentissima lobby ebraica che più volte ha accusato il Presidente USA di appoggiare le istanze palestinesi a discapito di Israele. In realtà non è mai stato così, l'amministrazione americana, ha sempre appoggiato, per lo meno per quanto riguarda i passi ufficiali, un governo israeliano con il quale però ha avuto spesso profonde differenze di vedute. Nel processo di pace israelo-palestinese non si può non imputare ad Obama una posizione chiara, aldilà delle dichiarazioni di prammatica, che abbia saputo condurre ad una conclusione la pur difficile trattativa. L'impressione è che la massima carica statunitense non abbia mai voluto urtare la lobby ebraica in USA, per non compromettere un giudizio già non positivo. Riconoscere la possibilità di un impiego militare a fianco di Israele o anche consentirne un piano di attacco autonomo può significare l'apertura di una linea di credito notevole, che fino ad ora non vi è stata. Tuttavia non esiste solo la lobby ebraica, Obama deve continuare a rimarcare la sua differenza con le amministrazioni repubblicane per una ricerca spasmodica di un'alternativa pacifica per la risoluzione di ogni controversia. Un candidato democratico che presentasse un attacco militare come unica risoluzione del caso iraniano perderebbe una mole ingente di voti. In quest'ottica Obama cerca di guadagnare tempo, come peraltro fanno gli iraniani, sperando negli effetti delle sanzioni ed ora anche delle divisioni interne all'elitè conservatrice al potere. Ma per le elezioni presidenziali USA mancano ancora otto mesi, difficile, senza risultati importanti, fare desistere israele dai propositi bellici contro Teheran: in caso di guerra tutta la campagna elettorale sarebbe stravolta ed è obiettivamente difficile fare un bilancio preventivo tra i costi ed i benefici di una decisione rispetto ad un'altra. Una via di mezzo sarebbe dare l'appoggio di forze e basi USA senza un coinvolgimento ufficiale diretto, che sarebbe comunque difficile da smentire e che sarebbe interpretato come una decisione pilatesca. Se gli USA dovessero trovarsi in guerra, contro un nemico del calibro dell'Iran, durante la campagna elettorale, a meno di una vittoria istantanea tale da garantire un successo chiaro e veloce, potrebbe prefigurarsi un calo di consensi per Obama, non altrettanto riscontrabile per altri temi, capace di alterare le previsioni fin qui positive per la sua rielezione. Il Partito Repubblicano potrebbe sfruttare questa occasione, grazie ai suoi maggiori contatti con la lobby ebraica, ma soltanto a patto di avere un candidato di una certa forza, cosa che fin qui pare lontana dal verificarsi, tuttavia, sull'onda emozionale di un'eventuale insuccesso, potrebbero aprirsi spiragli insperati per quello che sarà il contendente di Obama.

venerdì 2 marzo 2012

Lo strano comportamento della Corea del Nord

Appena dopo avere congelato il proprio programma di armamento nucleare, in un clima che pareva essersi ormai disteso, la Corea del Nord torna a minacciare la Corea del Sud, rea di avere infangato la dignità del proprio leader. La causa scatenante della reazione nord coreana sarebbero alcune installazioni poste dall'esercito sudcoreano in prossimità di Seoul, che ritraggono Kim Jong-il insieme a frasi diffamatorie. Aldilà del pretesto, le minacce alla Corea del Sud, hanno sorpreso chi aveva entusiasticamente accolto gli accordi sottoscritti con gli USA dal regime di Pyongyang, ma, al contrario, sono state una conferma per chi nutriva dei dubbi sulle reali intenzioni nordcoreane. Va detto che, nonostante il raffreddamento del clima tra le due Coree, Pyongyang non ha effettuato alcuna dichiarazione circa una possibile variazione degli accordi già presi in tema di armamenti atomici. Tuttavia è impossibile non leggere nella vicenda un segnale di grande instabilità ed incertezza circa chi detiene realmente il potere nella capitale nordcoreana, da cui non trapelano notizie certe e occorre affidarsi ai segnali che arrivano e tentare di dare una interpretazione corretta. La questione si riduce all'effettivo potere nelle mani di Kim Jong un, il nuovo leader catapultato improvvisamente alla guida del paese per l'improvvisa morte del padre, si è parlato più volte delle sue reali capacità e di chi esercita effettivamente il potere. I maggiori indiziati sono i militari, ma la definizione riguarda un gruppo eterogeneo che probabilmente comprende fazioni diverse in lotta tra di loro. Che almeno nelle alte sfere vi sia, al contrario della popolazione fiaccata sia nel fisico che nel morale, profonda preoccupazione per lo stato del paese è cosa praticamente scontata. Quello che si crede più probabile è che il nuovo leader sia un capo di facciata dietro cui si muovono trame di potere tendenti a riempire il vuoto di potere venutosi a creare e senza che per il momento risulti un vincitore. Questo spiegherebbe l'atteggiamento ondivago della Corea del Nord in un lasso di tempo tanto breve. Anche perchè non si spiegano, dopo gli accordi appena sottoscritti, le accuse ad USA e Corea del Sud di manovre militari congiunte, lette da Pyongyang come offesa al periodo di lutto ancora in corso nella Cora del Nord. Parrebbe quasi che un soggetto diverso da quello che ha proclamato il congelamento del programma nucleare abbia scritto questo comunicato che va in tutt'altra direzione. Sono tutti indizi che la situazione tanto auspicata di stabilità nella regione è tutt'altro che acquisita e che soltanto altri sviluppi possano chiarire la situazione, a meno che il tutto non faccia parte di una strategia volta ad ottenere aiuti in quantità ancora maggiore di quelli già concordati.

L'Iran alle elezioni: un paese rassegnato

L'Iran che si avvia alle elezioni parlamentari è un paese frustrato e rassegnato, dove il sentimento generale di sfiducia nella politica è il fattore dominante. Dopo la repressione seguita alle elezioni presidenziali che hanno visto la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad, probabilmente ottenuta con dei brogli elettorali, l'opposizione nel paese è stata praticamente cancellata e questo ha portato come conseguenza l'assenza del dibattito elettorale, punto centrale della democrazia. Quello che si prevede è un calo notevole dell'affluenza al voto, con dati che potrebbero aggirarsi intorno al 40% o al 50%, nelle ipotesi più positive, come valore nazionale, mentre nella capitale si prevede addirittura una partecipazione intorno al 25%; soltanto nelle campagne è sono previsti valori maggiori, con punte fino al 60%. E' chiaro che quella che si presenta è una situazione che vanifica i tentativi del regime di presentare il paese come una democrazia compiuta. Chi è al governo esercita le sue prerogative grazie ad una combinazione di repressione e di frustrazione, che risulta efficace e funzionale ai suoi intenti; infatti mantiene il potere avendo fiaccato i potenziali oppositori inoculando nel sistema politico l'apatia come garanzia della propria permanenza al potere. In questo stato di cose nemmeno l'abbassamento della qualità della vita della popolazione riesce a scuotere le persone dal torpore politico in cui sono cadute. Le sanzioni economiche hanno abbassato il potere d'acquisto e provocato un innalzamento del fenomeno inflattivo giunto ad un calo dei redditi medi del paese, la svalutazione continua della moneta locale costituisce una pericolosa aggravante alla già difficile situazione economica. Tuttavia l'assenza di una alternativa riformista blocca il sistema, che vede vertere la sfida tra correnti conservatrici, simili per ideologia ed anche programmi, ma che si confrontano con il solo scopo di conquistare il potere per la loro fazione, anche in vista delle presidenziali del 2013. Per il regime la bassa affluenza non è vissuta come una protesta, le elezioni parlamentari vengono presentate come meno importanti e quindi meno sentite ed anche il sistema elettorale, che prevede all'elettore attivo di indicare a mano nella scheda i trenta nomi da votare, non facilitano certo la partecipazione. In fondo un risultato elettorale omogeneo può essere presentato al mondo come uno scudo valido contro eventuali pulsioni della piazza tipo primavera araba, rischio, comunque, molto lontano, al momento, per un paese privo di leader e rassegnato al proprio destino. Quello che emerge è un paese dove la frattura tra classe dirigente e popolazione è ormai un solco ampio, ma anche che ciò, per ora, non costituisce pericolo per il regime, che anzichè avere a che fare con una opposizione presente, sfrutta il ripiegamento del paese su stesso come agevole forma di dominio.