Politica Internazionale

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giovedì 8 marzo 2012

Hamas garantirà l'appoggio all'Iran in caso di conflitto

La notizia riportata dalla BBC, dove si affermava che Hamas non avrebbe preso parte ad una ritorsione armata contro Israele, nel caso quest'ultimo avesse attaccato l'Iran è priva di fondamento. D'altronde non pareva possibile, nonostante le speranze, che uno dei maggiori alleati iraniani, geograficamente posizionato in modo strategico, nel caso di un conflitto fra Tel Aviv e Teheran, negasse il proprio aiuto dopo anni di collaborazione ed aiuti. Quello che mancava era solo l'ufficialità ma l'appoggio era dato per scontato dall'inizio della questione; anche se si pensava che non fosse un appoggio così esplicito ed impegnativo. Così le parole di smentita su quanto detto dalla BBC, pronunciate da Mahmoud al-Zahar, fondatore di Hamas, non sono giunte inattese, ma hanno destato comunque una grande sorpresa negli ambienti diplomatici. Hamas oltre a ribadire il suo appoggio al fianco dell'Iran ha anche dato la sua disponibilità a combattere anche contro chi affiancherà Israele. E' una minaccia diretta agli USA, che pur tentando tutte le vie diplomatiche possibili, saranno sicuramente al fianco di Tel Aviv nel sempre più probabile confronto militare. Se non bastavano le previsioni di una profonda destabilizzazione della regione, la dichiarazione di Hamas coinvolge direttamente la questione palestinese nel confronto con l'Iran
ed azzera i tentativi portati avanti da diverse parti per la creazione di uno stato autonomo della Palestina. Ciò fornisce anche ad Israele la giustificazione di portare avanti i metodi repressivi e la colonizzazione condannata dagli stessi USA. Quella di Hamas è una posizione ingenua che vanifica anni di sforzi e di negoziati e rende anche più debole l'OLP, che a questo punto non potrà che smarcarsi dall'avversario politico, con il quale aveva firmato una tregua, per portare avanti le trattative sia con l'ONU che con Israele. La scontata rottura tra hamas ed OLP che seguirà questa dichiarazione di appoggio all'Iran, potrebbe portare come estrema conseguenza il distacco della Striscia di Gaza, dove Hamas ha la maggioranza, dal progetto della creazione dello stato palestinese e comunque comporta un indebolimento sostanziale di tutto il movimento palestinese. Anche se, come sperato, non dovesse esserci il confitto la posizione di Hamas, con queste dichiarazioni, risulta definitivamente compromessa e ne fa un interlocutore ormai inattendibile. Difficile interpretare una dichiarazione di tale portata effettuata in questo momento, anche se non è possibile che tale presa di posizione, troppo esplicita, non sia stata studiata nei tempi e nei modi nei quali è avvenuta. Potrebbe esserci Teheran dietro la minaccia di Hamas, che, forse, nei pensieri iraniani, può costituire un elemento di pressione, certamente di ulteriore caos nel divenire della situazione, ma certamente per l'Iran la dichiarazione di Hamas ha più un impatto mediatico da riscuotere nel mondo arabo, dove la questione palestinese gode sempre di una grande presa.
Militarmente Hamas può poco contro l'esercito israeliano, ma può, mediante i suoi kamikaze, mettere Israele nel più completo terrore ed incertezza, attraverso l'uso intensivo di attentati. Non è poco se unito ad una situazione di guerra come potrebbe essere quello che accadrebbe in caso di conflitto con l'Iran, con la popolazione civile in ostaggio di uno stato permanente di paura. Inoltre risorse militari israeliane potrebbero essere impegnate ancor più stabilmente contro la striscia di Gaza, sottraendole dal conflitto. Ma forse l'effetto maggiormente cercato è di chiamare a raccolta tutto il mondo arabo, perlomeno la parte più oltranzista, per trasformare il conflitto in guerra santa definitiva contro l'invasore sionista, probabilmente con l'appoggio di religiosi islamici più radicali. Se questo aspetto è vero non è da escludere una deriva non limitata al teatro regionale, ma estesa, anche con azioni spettacolari, come attentati in luoghi simbolo, in paesi alleati di USA ed Israele, in modo da coinvolgere più stati possibili nel clima del conflitto.

La richiesta ingiusta di pagare il debito pubblico generato dalla speculazione

Mentre quello che affligge l'economia è il debito pubblico delle nazioni, sempre maggiore è la domanda di quanto sia legittimo fare ricadere sulla totalità della popolazione di uno stato questo costo. Se può essere giusto contribuire alla copertura del prestito per la costruzione di opere sociali, come le infrastrutture, che migliorano la vita della comunità, pare evidentemente assurdo caricare su contribuenti già tassati pesantemente, la rifusione per debiti contratti per scopi oscuri o peggio deleteri. Il meccanismo della democrazia, che prevede nel mandato elettorale la piena e libera azione governativa degli eletti di maggioranza, ha, in questo particolare caso, quello che gli informatici chiamerebbero un buco di sistema. In Italia, ad esempio, si è cercato di tamponare la falla mettendo al governo un gruppo di cosidetti tecnici, sommando un errore all'altro. Il mancato rapporto con il corpo elettorale ha creato un mostro giuridico che governa senza che il suo programma sia stato vagliato ed eventualmente approvato con il voto. Ma anche questa è un'obiezione facile sa smentire: in nessuna parte dl mondo alcuna forza partitica presenta presenta un programma così dettagliato da potere essere contestato nei particolari, che, però, fanno spesso la differenza. Inoltre non esiste una forma sanzionatoria, in nessuna nazione, per quei governanti che non raggiungono gli obiettivi proposti. Se questo è vero a livello politico, cioè quando le decisioni non sono ancora entrate nei confini dell'operatività pura, con tutte le conseguenze relative, nel momento in cui si deve fare un consuntivo, numeri alla mano, ogni responsabilità è assente. Questo fatto è intimamente legato al problema del debito pubblico, che viene caricato sulla collettività e spesso addirittura sulle generazioni future, senza che vi sia una sanzione per chi ha contratto questo impegno economico senza che vi sia almeno un beneficio tangibile. Impossibile non fare rientrare nel discorso la deriva partita dagli anni ottanta, quando si è cominciato a virtualizzare il valore, spostandolo da quello reale a quello fittizio, rispondendo alla richiesta del mondo della finanza e delle banche. Non è un caso che proprio a quegli anni, caratterizzati dalla premier inglese detta la Lady di ferro e dall'attore presidente degli USA, si sia iniziato a cumulare il debito pubblico che ora non è più sostenibile, per i mutati assetti produttivi e geopolitici. L'affermazione della concezione ultra liberista ha spostato gli obiettivi dell'azione di governo che sono diventati non più a lungo periodo ma si sono stabilizzati su obiettivi di breve e brevissimo periodo, con la conseguenza di elaborazione di politiche che necessitavano di sempre maggiore denaro da spendere velocemente. L'abuso di queste pratiche ha favorito, accrescendone a dismisura l'importanza, istituzioni finanziarie e creditizie, non più operanti per il bene collettivo, con il giusto guadagno si intende, ma che hanno incentrato la loro azione sulla più totale speculazione. Oggi siamo al paradosso che una azienda che possiede brevetti, impianti e prodotti reali, è spesso quotata con minore valore di una start up senza alcun bene materiale. L'ingresso nel mondo produttivo di paesi in grado di portare una manodopera a basso costo ha abbassato verso il basso la qualità del lavoro e della vita dei lavoratori, generando differenze sociali ormai non più colmabili e la globalizzazione ha fatto il resto. Spesso si è parlato della globalizzazione come evento non evitabile, dato dal fatto nell'ingresso del mondo industriale di nuovi soggetti, con appunto grande disponibilità di manodopera, ma ciò è stato solo una conseguenza non il motivo scatenante, perchè la globalizzazione è il sovvertimento studiato a tavolino per favorire la speculazione. Torniamo così all'inizio: è legittimo chiedere alla totalità della popolazione di pagare debiti contratti in questa maniera? Se si guarda all'evoluzione degli ultimi trenta anni non è possibile accettare questa imposizione. Se si pensa alla Grecia, che rappresenta un possibile futuro di diversi paesi europei, dove si è addirittura persa la sovranità nazionale e si è ridotto un intero popolo in povertà, non si può che essere mossi da indignazione. Le ripercussioni sociali potenziali tremende ed i disordini sociali fin qui accaduti non sono che poca cosa di fronte a ciò che potrebbe accadere potenzialmente. I governi hanno scelto di difendere le banche, quali detentrici e dispensatrici ormai istituzionali del credito, il ragionamento è coerente fintanto che si vuole mantenere gli istituti bancari al centro del sistema economico, appunto come collettori del credito attraverso il quale favorire la crescita. Ma le banche sono uno dei massimi punti deboli del sistema, in quanto hanno operato, salvo poche eccezioni, per il proprio esclusivo guadagno, speculando con l'acquisto e la rivendita di titoli spazzatura ed accumulando un credito molte volte non più esigibile, proprio per avere messo nel portafogli titoli che nel brevissimo periodo assicuravano dividendi vertiginosi.
Per sopravvivere le banche devono ricevere aiuto dalle banche centrali, ma non assolvono più il loro ruolo istituzionale e non forniscono credito all'economia che non può crescere, perchè il denaro ricevuto serve esclusivamente a coprire i loro debiti e quindi la loro sopravvivenza. Ma il sistema economico attuale è fondato sulla crescita, senza di questa manca il gettito fiscale e lo stato è costretto a nuovi debiti da contrarre soltanto per sopravvivere, senza più dare quei servizi che dovrebbero essere forniti grazie al pagamanto delle imposte. A questo punto il cerchio è chiuso ed il sistema economico si avvita su se stesso in una spirale sempre più stretta che non può che concludersi con il fallimento. Perchè non saranno certo gli interventi tampone dei diversi governi a risolvere la questione, ma soltanto a prolungarne l'agonia. Una soluzione sarebbe una moratoria di una gran parte, almeno, del debito pubblico totale di uno stato, cioè di quella parte sicuramente legata a speculazioni che nulla hanno avuto a che fare con il benessere della collettività, sarebbe un modo di ripianare enormi differenze sociali create con la speculazione, che hanno penalizzato il lavoro e sopratutto sarebbe una nuova partenza per un sistema più equo. Se questa soluzione sembra utopica, e per certi versi lo è senz'altro, si pensi all'alternativa che si potrà presentare quando intere nazioni saranno messe sull'orlo della miseria per assenza di provvedimenti efficaci: a quel punto sarà compromessa ogni stabilità sociale, nazionale e sovranazionale e si sfiorerà una nuova età della pietra.

mercoledì 7 marzo 2012

La Cirenaica si dichiara autonoma: Libia verso lo stato federale

Iniziato già prima della fine di Gheddafi, per la Libia si acuisce il problema della divisione territoriale e tribale, che mina alle fondamenta il già precario equilibrio dello stato. Per quanto riguarda l'organizzazione territoriale dello stato si confrontano due visioni diametralmente opposte: stato unitario e federalismo, quest'ultimo è stato abbandonato nel 1963 e comprendeva tre regioni amministrative: Cirenaica (est), la Tripolitania (ovest) e Fezzan (sud). Il governo di Gheddafi ha sempre discriminato la Cirenaica a favore delle altre regioni, in special modo la Tripolitania, ed infatti proprio da Bengasi, capitale della parte est del paese, è partita la rivolta che ha rovesciato il regime. Le pulsioni autonomiste sono state sempre motivo di repressione da parte delle forze di Gheddafi nella Cirenaica ed il sentimento indipendentista non si è mai sopito nella maggioranza della popolazione. Nella giornata del 6 marzo 2012 a Bengasi è stata ratificata, indipendentemente dalla volontà del Consiglio Nazionale di Transizione, con una cerimonia ufficiale, alla presenza di comandanti delle milizie e rappresentanti delle tribù, l'indipendenza della regione dalla Libia anche attraverso la creazione di un congresso regionale indipendente e di una propria forza armata. Tale decisione non disconosce l'autorità nazionale del Consiglio Nazionale di Transizione, a cui è riconosciuta la guida della nazione, ma ratifica la creazione di uno stato autonomo unito alla Libia in maniera sostanzialmente federale. Tripoli, anche nella nuova veste di capitale libica sede del Consiglio Nazionale di Transizione, è sempre stata contraria ad una ripartizione federale dello stato, preferendo una nazione maggiormente unita; nella capitale si è consci che favorire un processo in senso federativo dei territori sia la potenziale anticamera della disgregazione nazionale. Del resto storicamente la Libia non è mai esistita e non è stato certo il governo di Gheddafi a sviluppare un sentimento nazionale unitario in una società arcaica dove tuttora l'elemento tribale, non certo fattore aggregativo, è l'unico organismo sociale presente di un certo rilievo. Ma se Gheddafi aveva interesse a mantenere uno stato diviso in modo da avere maggiore facilità a dominarlo, l'interesse dei politici del Consiglio Nazionale di Transizione va nella direzione opposta. Nella loro visone, molto comprensibile, soltanto una forte unità dello stato può permettere la costruzione di una nazione stabile. In questa fase storica, dare spazio a tendenze separatiste può effettivamente portare alla divisione dello stato ben oltre l'assetto federativo. La regione è ben chiara lo stato libico, come è ora sistemato, poggia su fondamenta tutt'altro che solide, proprio per la totale assenza di spirito nazionale nei diversi clan tribali, che è bene sottolinearlo ancora, restano l'elemento fondante della struttura sociale libica. Anche il fatto che non si è voluto dare da subito una costruzione di tipo federale allo stato, fin dalla sconfitta di Gheddafi, significa che tale soluzione è stata scartata perchè troppo destabilizzante per il processo post bellico che stava per intraprendere il paese. Tuttavia queste differenze sostanziali esistono e sono le fessure che possono permettere ad agenti stranieri di infiltrarsi nella costruzione della nuova Libia. E' quanto ha espressamente dichiarato Moustapha Abdeljalil, capo del Consiglio Nazionale di Transizione, accusando i paesi arabi di alimentare la volontà indipendentista della Cirenaica, regione notoriamente petrolifera e quindi dotata di una ricchezza fondamentale per il nascente stato libico. Se ciò fosse vero l'ingerenza potrebbe giustificare la volontà di dividere un potente concorrente economico nel mercato del greggio. Del resto i finanziamenti ai ribelli provenienti dai paesi arabi sono stati ingenti, anche se pare obiettivamente difficile che siano stati pianificati per arrivare ad un tale risultato. Questo elemento, rappresentato dalla creazione di una entità autonoma nella Cirenaica, rappresenta un ulteriore elemento di disturbo nel cammino della formazione dello stato, che nonostante la scomparsa di Gheddafi, presenta numerosi segnali contrari al percorso democratico, come le ripetute segnalazioni da parte delle organizzazioni dei diritti umani per episodi di violenze perpetrate dalle milizie ai danni dei presunti seguaci del colonnello, che vanificano la pacificazione nazionale necessaria per stabilire un clima sereno nel paese. Risulta difficile ipotizzare le conseguenze del gesto dei dirigenti di Bengasi, ora il Comitato Nazionale di Transizione deve fare in modo di fare cambiare idea alla Cirenaica, impresa che pare difficile, in modo diplomatico e non pare possibile che Tripoli intraprenda una azione militare a guerra appena conclusa. Del resto l'atteggiamento di Bengasi, che riconosce sia la Libia unita, che l'autorità del Comitato Nazionale di Transizione chiude la porta ad azioni violente, che aprirebbero, allora si, la creazione di una entità statale separata. Più facile che Tripoli accetti la decisione di Bengasi e modifichi, anche se di malavoglia, i propri convincimenti sull'assetto dello stato verso la forma federale. Del resto questa è la tendenza dominante nel mondo, la valorizzazione delle piccole patrie, attraverso distacchi dall'organismo centrale di tipo morbido ed entro binari comunque ben definiti, se succede in Europa può accadere anche in Africa.

martedì 6 marzo 2012

La vittoria di Putin, nonostante i brogli

E' lo stesso vincitore delle elezioni presidenziali russe Vladimir Putin che riconosce anomalie ed irregolarità avvenute durante il voto che lo ha portato alla vittoria. Putin è diventato nuovamente Presidente della Federazione Russa con il 63,3% dei voti, una percentuale largamente prevista dai sondaggi, un vantaggio ben oltre la soglia che richiedeva il turno di ballottaggio, un vantaggio che gli consente tranquillamente di ammettere le irregolarità avvenute in fase di scrutinio, ma che garantisce anche un margine di consensi talmente ampio da fare rientrare i brogli denunciati in una quota quasi fisiologica del sistema, comunque non in grado di intaccare il largo successo ottenuto. Putin, forte di questo calcolo, apre così alle opposizioni e si mette in regola con la denuncia del capo degli osservatori dell'OCSE, che ha espressamente affermato la presenza di elementi di slealtà nella conta dei voti. L'auspicio del nuovo Presidente russo, che siano gli organi competenti ad investigare sui presunti brogli suona come l'ennesimo mancato rispetto delle procedure elettorali e fanno della Russia una democrazia incompiuta, dove vige il potere oligarchico. Tuttavia l'ammissione di Putin in altri tempi sarebbe stata impensabile, le grandi proteste di questi giorni che hanno coinvolto un gran numero di persone indicano, che determinati comportamenti non passano più sotto silenzio e dimostrano la formazione di una coscienza collettiva, che seppur minoritaria, scuote un mondo ancora condizionato dal rapporto col potere tipico dell'era sovietica. Putin, pur con la grande maggioranza di voti, regolari o no, acquisiti, dovrà per forza cambiare il rapporto con le altre parti sociali, che hanno rinunciato alla accettazione passiva delle direttive dall'alto per portare in piazza le proprie istanze in modo chiaro. Certamente la grande divisione delle forze di opposizione gioca in suo favore, ma non è detto che con il tempo non possa evolversi una intesa che consenta di formare alternative al gruppo di potere che guida la Russia da tempo. Per ora Putin può limitarsi a bollare il disaccordo delle altre forze politiche sulla correttezza del voto, come mezzo di azione politica, che non rispetta il risultato delle urne. Politicamente, poi, la mossa di presiedere la Commissione elettorale centrale, avente il compito di indagare sulla regolarità del voto sembra più che altro una via di mezzo tra provocazione e sfacciataggine, comunque sicuramente non un buon punto di partenza per stabilire un corretto rapporto con le forze di opposizione. La manovra appare come un vecchio rimasuglio dell'era sovietica, dalla quale Putin non si è mai affrancato del tutto. La questione non è irrilevante, giacchè vede minata dalla base la possibilità per il paese di scrollarsi di dosso vecchie usanze, mai abbandonate, che hanno ben poco a che fare con la democrazia. Nonostante il risultato fosse atteso la delusione che serpeggia tra gli oppositori è notevole, con la speranza di un voto regolare potevano ambire almeno ad un ballottaggio, dal quale, però, sarebbero usciti difficilmente vincitori. L'apparato messo in piedi da Putin, vecchio colonnello del KGB, è praticamente imbattibile per penetrazione della società russa, che alla fine si è fidata di una figura non completamente distaccata dall'Unione Sovietica, malgrado la distribuzione fortemente ineguale di ricchezza, sviluppata sotto i suoi precedenti governi. Per la maggioranza dei russi Putin incarna una sorta di classe media che pur abbracciando le novità del nuovo stato, non ha completamente abbandonato i vecchi costumi, rappresentando così una sorta di garanzia di una transizione che non si vuole del tutto completa. Resta però il dubbio della presenza dei brogli elettorali, che sul piano diplomatico, inficiano il successo del nuovo Presidente, malgrado il potere riconquistato, con tali dubbi, per Putin non sarà facile agire da primo attore, per lo meno nel breve periodo, sulla scena internazionale. Non è un handicap da sottovalutare per le sfide mondiali che attendono la Russia e che Putin vuole ritorni ad avere un rilievo di grande potenza.

Sull'economia la Cina è ad un bivio

La globalizzazione. che costituiva il punto di forza dell'economia cinese, riverbera i propri effetti negativi anche su Pechino. L'andamento negativo delle economie occidentali, che costituiscono il principale mercato di sbocco delle merci cinesi, costringe a rivedere le stime di crescita ribassando di mezzo punto, dall'8% al 7,5%, la crescita prevista. Viene così abbattuta la barriera psicologica del fatidico 8% di crescita, valore mantenuto fermo per tutto il decennio scorso. Mezzo punto in meno per un gigante come la Cina significa molto, Pechino dovrà rinunciare a progetti in vari campi e sopratutto potrebbe avere a che fare con una crescente protesta, fattore sociale che già preoccupa molto i dirigenti cinesi, tanto da avere stanziato ben 85 miliardi di euro, con un incremento dell'11,5% rispetto all'anno precedente, la somma da destinare alle forze di polizia per prevenire e contenere i disordini interni. Si stima che ogni giorno in Cina vi siano circa 246 rivolte, dovute, in maggior parte, sia alla corruzione dei funzionari sia alla grande diseguaglianza che la grande crescita economica ha generato. Una causa individuata dai vertici del Partito è di natura squisitamente economica ed è l'elevato tasso di inflazione, sintomo negativo comune alle economie di mercato occidentali, proprio per questo le intenzioni dei governanti cinesi sono di contenere entro il 4% l'inflazione cinese, grazie ad una scrupolosa politica che controlli rigidamente il livello dei prezzi giunta ad una offerta creditizia mirata. Ciò dovrebbe scongiurare crisi di tipo finanziario, anche grazie alla volontà di mantenere stabile il tasso di cambio ed il contenimento del costo degli immobili. Questa ultima azione è necessaria per coprire due fronti: evitare le bolle speculative di tipo immobiliare e soddisfare la richiesta della popolazione, tema che è stato spesso fonte di proteste e manifestazioni. Il governo centrale ha finalmente riconosciuto anche il problema delle amministrazioni locali, che spesso con la loro cattiva gestione sono fonte di instabilità sociale, che può creare pericolosi e potenziali contagi dalla periferia al centro dell'impero, anche perchè il fenomeno della corruzione degli organismi locali è strettamente connesso con l'elevato debito pubblico relativo proprio alle amministrazioni locali. Su questo tema si innescano a loro volta tematiche che riguardano i dati finanziari cinesi nel loro complesso, in quanto il centro scarica sulle realtà locali il debito pubblico relativo alla massiccia costruzione di infrastrutture, che ha caratterizzato pesantemente il PIL generale. Le commesse della gestione delle infrastrutture generano corruzione a cascata andando a chiudere il cerchio del problema generale che affligge sia lo stato nel suo complesso, sia la preoccupazione per le rivolte e la stabilità sociale degli organismi centrali. Proprio per questi motivi Pechino ha dichiarato di aumentare l'attività ispettiva presso le amministrazioni locali per combattere e prevenire la dilagante corruzione. In ogni caso il problema del debito è stimato a circa 1.300 miliardi di euro frazionati nelle varie amministrazioni che gestiscono l'immenso territorio cinese, è un problema che prima o poi Pechino dovrà affrontare perchè altera i valori fondamentali dell'economia cinese, sui quali rischia di avere un impatto devastante. Tutti questi fattori nel loro complesso segnalano che per l'economia cinese è forse arrivato un momento cruciale, quello di ridurre la partecipazione dello stato nelle imprese. Secondo diversi economisti soltanto immettendo dentro al sistema forti dosi di economia di mercato, con l'aumento della concorrenza e del mercato interno, la Cina potrà riprendere la crescita a due zeri. Tuttavia tali scelte non potranno essere compiute se non in un quadro di maggiore libertà politica, necessaria a fornire gli spazi di manovra necessari per questo indirizzo. Al riguardo l'apparato cinese non appare ancora pronto a lasciare quote di potere e ad allentare il controllo ferreo sulla società, per questo motivo la Cina rischia una sorta di una transizione incompiuta a grande paese industriale, senza il riconoscimento dei diritti civili e sindacali prevedere una maggiore liberalizzazione dell'economia è soltanto un'ipotesi di scuola che non arriverà mai a compimento.

lunedì 5 marzo 2012

In Africa la prossima primavera araba?

E' possibile immaginare un movimento simile alla primavera araba in altre parti del mondo, dove, cioè rivolte, nate spesso da episodi scatenanti, ma con una grave situazione stratificata precedente, possano rovesciare i governi in carica? Per qualche tempo si è pensato che la Cina potesse essere protagonista di fatti analoghi, ma la grande forza dell'apparato di repressione giunta alla diffusione di un consumismo capace di anestetizzare le coscienze hanno bloccato quelle che sembravano le prime avvisaglie di ribellione. Certo restano presenti focolai pericolosi per Pechino, come il Tibet, dove vi è però l'elemento della patria negata a funzionare come propellente per rivolte che vengono soffocate con la violenza. Il caso siriano rappresenta una continuazione ideale, sia per l'elemento geografico che politico, della primavera araba, anche se l'affermazione dei gruppi contrari alla dittatura incontra maggiori difficoltà, per la presenza di un regime ancora più sanguinario di quelli della sponda sud del Mediterrano, ed in effetti è difficile ipotizzare una sconfitta di Assad senza un aiuto straniero, ipotesi che per ora, grazie alla presenza di ragioni politico diplomatiche contrastanti, pare ancora lontana. Pur in tutta la sua gravità il caso siriano è comunque circoscritto ad una popolazione ed un territorio limitati e la sua conclusione avrà un impatto senz'altro minore di quanto temuto da Kandeh Yumkella, direttore generale dell'UNIDO, l'agenzia dell'ONU per lo sviluppo industriale. Quello temuto da Yumkella è una primavera araba in versione africana, che prendendo spunto dai recenti disordini avvenuti a Dakar, individua nel territorio subsahariano, una zona ad alto potenziale di rivolta. Come negli stati arabi la mancanza cronica di lavoro e prospettive, qui aggravata da oggettive situazioni di carenza alimentare, potrebbe innescare ribellioni capaci di sovvertire l'ordine costituito. La facilità di accesso ai moderni mezzi di comunicazione, dato il loro basso costo è l'altro dato comune con i giovani arabi, ed è già stato sperimentato con successo in Senegal. Il problema è che una situazione analoga alla primavera araba nei paesi africani potrebbe avere sviluppi ancora più devastanti perchè in territori formati da stati artificiali, composti da etnie spesso nemiche, un po come in Libia, ma moltiplicato almeno per dieci. Un'Africa instabile non è nell'interesse di nessuno, le conseguenze anche per l'occidente possono essere incalcolabili: si andrebbe dall'incremento dei profughi al blocco di interi settori economici che si basano sulle materie prime provenienti dal continente africano. L'allarme del direttore dell'UNIDO non è da sottovalutare, anche perchè le contromisure potrebbero convenire sia ai paesi africani che a potenziali soggetti capaci di prestare le proprie conoscenze per favorire lo sviluppo economico dell'Africa e sopratutto la diffusione di un benessere tale da placare le istanze di rivolta. Un ruolo che potrebbe essere ricoperto dall'Unione Europea, in maniera da placare possibili esplosioni di violenza ma, nel contempo, generare occasioni di sviluppo tali da sviluppare collaborazioni comuni in un'ottica che sappia cancellare il ricordo colonialista, ancora ben presente.

USA, Israele ed Iran e le presidenziali americane

Per Obama la questione iraniana rappresenta l'ostacolo maggiore, per i temi di politica estera, nella campagna elettorale. Il problema coinvolge diversi aspetti: dal rapporto con Israele e con la potente lobby ebraica americana, all'uso delle forze armate a stelle e strisce, che per una parte consistente dell'opinione pubblica USA è stato abusato negli ultimi anni in scenari che alla fine sono stati visti lontani dall'interesse americano, al fattore del conflitto in senso stretto con l'Iran, su cui si hanno ancora meno certezze della conclusione e dei risultati rispetto a situazioni che parevano più sicure come Iraq ed Afghanistan, che si sono poi rivelate molto problematiche. Il Presidente uscente deve usare una tattica che non lo comprometta su posizioni che possano sembrare o troppo morbide o troppo rigide. Probabilmente Obama è sinceramente contrario all'intervento militare e la sua linea è quella di insistere sulla pressione diplomatica, inoltre il risultato elettorale iraniano che ha penalizzato Ahmadinejad, gioca in suo favore; ma la volontà di Netanyahu va nella direzione opposta, perchè non condivide la possibilità che i risultati diplomatici blocchino i progressi sull'ordigno atomico iraniano e propende per un attacco che alcuni analisti danno per sicuro nel giro di pochi mesi. Questo atteggiamento intransigente del governo di Tel Aviv ha obbligato Obama ad una apertura, per la verità piuttosto esplicita, ad una possibile soluzione militare ed al riconoscimento della sovranità israeliana di prendere in modo autonomo la decisione dell'attacco preventivo. E' una concessione logicamente dovuta sopratutto alla potentissima lobby ebraica che più volte ha accusato il Presidente USA di appoggiare le istanze palestinesi a discapito di Israele. In realtà non è mai stato così, l'amministrazione americana, ha sempre appoggiato, per lo meno per quanto riguarda i passi ufficiali, un governo israeliano con il quale però ha avuto spesso profonde differenze di vedute. Nel processo di pace israelo-palestinese non si può non imputare ad Obama una posizione chiara, aldilà delle dichiarazioni di prammatica, che abbia saputo condurre ad una conclusione la pur difficile trattativa. L'impressione è che la massima carica statunitense non abbia mai voluto urtare la lobby ebraica in USA, per non compromettere un giudizio già non positivo. Riconoscere la possibilità di un impiego militare a fianco di Israele o anche consentirne un piano di attacco autonomo può significare l'apertura di una linea di credito notevole, che fino ad ora non vi è stata. Tuttavia non esiste solo la lobby ebraica, Obama deve continuare a rimarcare la sua differenza con le amministrazioni repubblicane per una ricerca spasmodica di un'alternativa pacifica per la risoluzione di ogni controversia. Un candidato democratico che presentasse un attacco militare come unica risoluzione del caso iraniano perderebbe una mole ingente di voti. In quest'ottica Obama cerca di guadagnare tempo, come peraltro fanno gli iraniani, sperando negli effetti delle sanzioni ed ora anche delle divisioni interne all'elitè conservatrice al potere. Ma per le elezioni presidenziali USA mancano ancora otto mesi, difficile, senza risultati importanti, fare desistere israele dai propositi bellici contro Teheran: in caso di guerra tutta la campagna elettorale sarebbe stravolta ed è obiettivamente difficile fare un bilancio preventivo tra i costi ed i benefici di una decisione rispetto ad un'altra. Una via di mezzo sarebbe dare l'appoggio di forze e basi USA senza un coinvolgimento ufficiale diretto, che sarebbe comunque difficile da smentire e che sarebbe interpretato come una decisione pilatesca. Se gli USA dovessero trovarsi in guerra, contro un nemico del calibro dell'Iran, durante la campagna elettorale, a meno di una vittoria istantanea tale da garantire un successo chiaro e veloce, potrebbe prefigurarsi un calo di consensi per Obama, non altrettanto riscontrabile per altri temi, capace di alterare le previsioni fin qui positive per la sua rielezione. Il Partito Repubblicano potrebbe sfruttare questa occasione, grazie ai suoi maggiori contatti con la lobby ebraica, ma soltanto a patto di avere un candidato di una certa forza, cosa che fin qui pare lontana dal verificarsi, tuttavia, sull'onda emozionale di un'eventuale insuccesso, potrebbero aprirsi spiragli insperati per quello che sarà il contendente di Obama.