Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 1 giugno 2012
Israele alle prese con la paura della bomba iraniana
In Israele non si smorza il dibattito su di un possibile attacco preventivo all'Iran, al fine di contenere la progressione di Teheran verso l'acquisizione definitiva della tecnologia per la costruzione della bomba atomica. Il paese vive in uno stato di agitazione che si sta allargando a macchia d'olio, non solo più tra i vertici militari, ma anche nella popolazione civile. Le sanzioni cui l'Iran è sottoposto sono percepite come una misura insufficiente e facilmente aggirabile dal governo iraniano ed il fatto contribuisce ad aumentare nella sfiducia verso la soluzione diplomatica. Per gli israeliani, Teheran, di fronte alla pressione diplomatica, starebbe soltanto guadagnando tempo per raggiungere il proprio obiettivo. L'opzione militare torna così prepotentemente di attualità a causa del crescente nervosismo della società di Israele. L'impatto emotivo, che riveste il fatto di una minaccia atomica concreta, è una novità per la popolazione israeliana, abituata si a situazioni di tensione forti ed anche prolungate, ma comunque limitate sopratutto in uno spazio fisico ben definito e mai riguardanti la totalità del territorio dello stato. Anche la consapevolezza della forza militare dell'esercito israeliano, in una fase di attacco atomico, perde di peso di fronte ad una minaccia così rilevante. Certo Israele possiede una capacità di risposta analoga e maggiore per intensità ad un attacco atomico, ma ciò significherebbe soltanto una ecatombe nella regione, che metterebbe a rischio l'esistenza stessa dello stato. Anche l'atteggiamento USA, il maggiore alleato di Israele, improntato alla cautela, costituisce un ulteriore fattore destabilizzante per la società israeliana, nella cui maggior parte non viene compresa la ritrosia statunitense ad un attacco preventivo, giudicato ormai il minore dei mali. Quello che si teme concretamente in Israele è arrivare ad un punto in cui sarà troppo tardi per una azione capace di impedire in tempo all'Iran di sviluppare la bomba atomica. Per come è costruito lo stato israeliano e per come è organizzata la sua società, sempre allerta per le minacce provenienti dall'esterno e con il complesso di essere, molte volte non a torto, un bersaglio troppo importante per una parte consistente del mondo, questa situazione di stallo è oggettivamente difficile da sostenere. Il dilemma tra avere uno stato che chiama Israele entità sionista, ed usa questa propaganda in modo massiccio per avere sempre maggior presa sul mondo arabo, in possesso della bomba atomica ed esercitare una opzione militare che stronchi questa possibilità, pende chiaramente per la seconda soluzione. Inoltre lo scorrere del tempo non aiuta: il Vice Primo Ministro Moshe Yaalon è convinto che all'inizio del prossimo anno, senza azioni che ne impediscano i progressi, l'Iran avrà la sua bomba nucleare. Quindi tensione e fretta rischiano di fare precipitare la tensione, anche se le osservazioni dell'ex capo del Mossad Meir Dagan, una delle poche voci contrarie all'azione militare, pone delle osservazioni, che dal punto di vista diplomatico e strategico sono molto difficili da non considerare. Secondo Dagan infatti un attacco israeliano permetterebbe una forte coalizione del mondo arabo contro Tel Aviv, che al momento non è così coesa, inoltre i dubbi dell'ex capo del Mossad sono anche di natura prettamente militare perchè non ritiene che Israele abbia le complete capacità logistiche per attuare il bombardamento preventivo, sopratutto senza l'appoggio materiale degli USA, che al momento non è garantito. In effetti le forze armate israeliane sono costruite su di un modello di difesa del territorio, che non prevede grandi mezzi per operazioni al di fuori dei propri confini. Tuttavia in una situazione fortemente condizionata dalla paura, una azione singola, addirittura con concordata con Washington, non è da scartare a priori; d'altra parte è se i progressi iraniani sono veritieri è anche comprensibile la voglia di azione israeliana. In tutto questo clima di profonda incertezza, sempre che la situazione non precipiti in maniera irreparabile, la diplomazia mondiale, anche tra chi non è alleato o non intrattiene rapporti al di là della cortesia internazionale, dovrebbe attivarsi tutta per scongiurare una eventualità i cui effetti non sembrano essere soppesati in maniera adeguata. Oltre l'ONU devono essere le potenze del Consiglio di sicurezza, la UE, la Lega Araba e tutti quei soggetti sovranazionali il cui impegno di approntare una strategia comune è, quanto meno, doverosa. Con la Siria già alle prese con una guerra civile sanguinosa, un ulteriore conflitto regionale, inquadrato in una situazione di instabilità politica anche degli stati circostanti, rischierebbe di trascinare soggetti apparentemente lontani, come l'Europa, in una situazione di pericolo molto lunga e dannosa. Occorrono al più presto elementi nuovi in grado di contenere la paura israeliana, mentre sul medio termine l'inizio di una moratoria efficace degli ordigni nucleari, da bandire nel maggior numero possibile sui tempi lunghi.
giovedì 31 maggio 2012
La situazione siriana resta senza sblocco
La situazione siriana subisce una stasi diplomatica, che ha il solo risultato di favorire i massacri, il cui conto è pagato principalmente dalla popolazione civile. Le formazioni ribelli, che si battono contro l'esercito regolare, nei cui effettivi cresce il numero dei disertori, hanno invitato l'inviato dell'ONU e della Lega Araba Kofi Annan a dichiarare ufficialmente il fallimento del suo piano di pace, sancito dai mancati effetti, che tanto erano attesi sia nel paese siriano, che in tutta la platea diplomatica. La situazione siriana, infatti continua a destare viva preoccupazione, sia nelle cancellerie occidentali, che in quelle orientali, per il tanto temuto allargamento del conflitto in una zona nevralgica degli equilibri mondiali. In effetti la presa d'atto del fallimento del piano di Annan è ulteriormente dimostrata dalle ripetute violazioni dell'ultima tregua proclamata e concordata fino dalla metà di Aprile. L'esercito regolare ha mantenuto le sue posizioni, impedendo non solo la creazione di corridoi umanitari in grado di alleviare la sofferenza dei civili, ma aumentando la repressione con violenti bombardamenti. Anche l'atteggiamento dell'ambasciatore siriano all'ONU non è sembrato conciliante, riversando l'intera responsabilità dei massacri su quelle nazioni che, parteggiando per i ribelli, continuano a rifornirli di armi. In questo quadro trovare un accordo resta impossibile e l'immobilità congiunta di Cina e Russia non aiuta alcuno sviluppo positivo. Se Pechino e Mosca insisteranno nell'imporre l'astensione militare all'ONU non sarà impossibile che altri soggetti decidano di intervenire in armi di propria iniziativa. La questione è comunque complessa perchè senza l'ombrello delle Nazioni Unite, un intervento militare nasce privo dell'adeguata copertura diplomatica ed è più facilmente attaccabile sul piano politico, in prima battuta, e militare in sequenza. Tuttavia la soluzione militare è quella che sta acquisendo maggiori possibilità di essere intrapresa; in questa fase si nota l'attivismo del neo presidente francese Hollande, che spera di convincere sia la Cina, che la Russia a cambiare atteggiamento di fronte al regime siriano, anche se l'opzione militare è soltanto una possibilità sul tavolo delle trattative, dove sono presenti anche ulteriori inasprimenti delle sanzioni già in atto contro Damasco. le idee di Hollande sarebbero condivise dal premier inglese Cameron, in una sintonia franco-inglese già sperimentata contro la Libia di Gheddafi. In ogni caso per Assad il destino sembra segnato, gli ultimi massacri compiuti lo hanno reso definitivamente non presentabile come alleato od interlocutore di qualsiasi soggetto internazionale. Resta da vedere quanto tempo potrà ancora resistere e sopratutto il destino che lo aspetta. Senza una exit strategy concordata con i suoi storici alleati russi o al limite gli iraniani, per il presidente siriano il destino più probabile appare come una replica del rais libico, la sua immagine appare troppo compromessa per potere sperare in qualcosa di meglio che un esilio dorato lontano il più possibile dalla scena pubblica, possibilità che però potrà verificarsi soltanto con l'avvallo di paesi non aderenti alla Corte dell'Aja. In tutto questo stride il silenzio americano, provocato da una campagna elettorale ormai alle porte, che non permette ad Obama impegni troppo vincolanti in politica estera. Ragionevolmente gli USA si terranno alla larga dalla questione, se non per aspetti marginali e di secondo piano, a meno che la situazione non degeneri a tal punto da coinvolgere Israele: a quel punto l'intervento degli Stati Uniti sarebbe obbligatorio.
mercoledì 30 maggio 2012
Romney sarà lo sfidante di Obama
Per Mitt Romney è fatta, nonostante le primarie siano ancora da disputare in sei stati, la vittoria in Texas consente all'ex governatore del Massachusetts di raggiungere la fatidica soglia di 1.144 delegati, quella che permette di dichiarare il vincitore nella designazione al titolo di rappresentante del Partito Repubblicano degli Stati Uniti nella corsa alla Casa Bianca. Mitt Romney, che sarà il primo candidato alla preseidenza repubblicano di religione mormona, ha eliminato il paladino della destra conservatrice Rick Santorum, il cui programma elettorale verteva su temi come l'opposizione alla contraccezione, ai matrimoni gay ed all'aborto, argomenti cari ad una grande parte dell'elettorato repubblicano, ma insufficienti per permettere la vittoria alla candidatura contro Obama. La ricetta di Romney per l'economia, il vero campo di battaglia su cui verrà decisa la corsa alla presidenza USA, non presenta però grosse novità con i soliti programmi repubblicani, molto liberismo e scarse tasse per i ricchi statunitensi. Nel campo delle idee Obama ha portato sicuramente maggiore contributo, cercando una maggiore diffusione del benessere, proprio con proprositi differenti nel campo della tassazione; peccato che molto di quanto promesso non sia stato possibile mantenere, sia per la congiuntura mondiale, sia per l'ostruzionismo in parlamento dove i repubblicani erano in maggioranza. Romney, vincendo a dichiarato che il partito arriva unito all'appuntamento elettorale per mettere riparo ai fallimenti del paese degli ultimi tre anni e mezzo, riferendosi alla politica dell'inquilino uscente della Casa Bianca. In effetti però ciò non corrisponde del tutto al vero, giacchè i repubblicani sono tutt'altro che uniti, principalmente a causa del movimento del tea party, che non essendo riuscito ad esprimere un proprio candidato rischia di alimentare il già corposo fenomeno dell'astensionismo. Male comune, peraltro, anche in casa democratica, dove nell'ultimo anno è cresciuta l'insoddisfazione della politica presidenziale a causa degli scarsi provvedimenti contro la speculazione finanziaria, che tanto danno ha fatto anche nell'economia USA. Gli ultimi sondaggi danno avanti il Presidente uscente per soli due punti percentuali, segno che il risultato è tutt'altro che scontato. Obama, che partiva da posizioni molto più favorevoli, paga un immobilismo pericoloso maturato negli ultimi tempi, sia in politica estera che in politica economica, proprio a causa della paura dei sondaggi, che ha cercato di risollevare con il tema del matrimonio omosessuale. Romney può così sfruttare una tattica maggiormente attendista lasciando l'iniziativa al Presidente in carica e sperando che ogni novità messa in campo, specialmente nell'ultimo scorcio di campagna elettorale, non vada a buon fine. Per Obama l'unica tattica possibile è stanare il suo avversario sul campo dei programmi portandolo sul terreno minato della crisi sociale che si innescherebbe a seguito dei provvedimenti liberisti che i repubblicani caldeggiano. Quella che parte sarà comunque una campagna molto difficile per entrambi i contendenti assediati dalle ali estreme dei propri schieramenti: un elettorato tutto da conquistare.
martedì 29 maggio 2012
Per l'Europa salvare la Grecia è l'investimento migliore
Secondo recenti stime la somma per salvare la Grecia sarebbe intorno ai 400 miliardi di euro; non è certo poca cosa, ma nemmeno moltissimo se questo investimento potesse permettere di superare, non soltanto la crisi finanziaria della UE, ma sopratutto la crisi poltica incombente. In questo momento Atene è sottoposta a fortissime tensioni da parte dei membri più forti dell'Unione Europea, Germania e Francia, che sostanzialmente stanno praticando prestiti ad altissimi tassi di interesse, in una visione di cortissimo raggio. Per Berlino ciò è imposto dall'incalzare dei sondaggi elettorali sfavorevoli alla Merkel, sebbene la data delle elezioni, il 2013, sia ancora troppo lontana. Questo è la ragione principale che determina l'assenza di elasticità tedesca nei confronti di Atene. Per la Francia la questione è più tecnica che politica, nonostante il neo eletto Hollande prema per politiche di crescita, le banche francesi sono le più esposte nei confronti del debito greco ed una eventuale insolvenza del governo ellenico potrebbe provocare una serie di fallimenti di illustri istituti bancari francesi con ricadute evidenti sul credito e sull'economia del paese. Ma in un quadro del genere la solvibilità greca non è certo garantita dai prestiti ad alto tasso, la cura rischia di essere infatti, probabilmente, peggio della malattia, aggravando ulteriormente una situazione già insostenibile a livello sociale. Inoltre una caduta di Atene aprirebbe il baratro anche per la Spagna, il Portogallo, l'Italia ed anche per paesi fino ad ora creduti al riparo come l'Olanda. E' uno scenario che rischia di vanificare tutto l'impianto politico dell'Unione, quale futuro potrebbe esserci per una federazione di paesi senza l'aspetto psicologico della moneta unica o peggio con velocità differenti? Si è detto più volte che l'euro sconta l'assenza di una adeguata protezione politica sia a livello normativo che di azione governativa, dovuto alla scarsità dell'impianto legislativo ed esecutivo dell'Europa e questo è stato confermato a più livelli dall'evoluzione della crisi attuale; tuttavia non è ancora troppo tardi per mettere in campo azioni e strumenti che sottolineino la volontà, qualora essa ci sia veramente, di dare un segnale sia alla speculazione, il nemico da regolare più urgentemente, che allo scetticismo verso l'europa unita che sta rapidamente scivolando verso espressioni di populismo, capaci di annullare definitivamente la costruzione della casa comune europea. Aiutare immediatamente la Grecia attraverso una manovra della Banca Europea, concordando un reintegro del debito più tollerabile, è la prima mossa da mettere in campo per arginare con sicurezza i pericoli futuri ed immediati, certo questa soluzione deve essere programmata con una visione di lungo periodo, che abbracci anche una evoluzione politica delle istituzioni europee. Anche la Germania dovrà rinunciare a quelle che sono le retribuzioni più alte del continente, per investire sulla competitività globale dell'Europa, una competitività in grado di concorrere nel mercato mondiale puntando a livelli qualitativi alti che consenta il mantenimento delle quote di mercato nei prodotti di eccellenza. Ma queste quote possono essere mantenute soltanto continuando a fare in modo che sia possibile l'accesso a questi prodotti anche alla stessa Unione Europea, perchè perdere i mercati continentali significa impoverimento e scarso sviluppo sia di produzione, che di innovazione e quindi di ricerca. I tanti populisti di moda nei vari paesi europei si contraddistinguono per un motivo comune, che consiste nel ritornare ad una divisione che porti, in definitiva alla cancellazione del progetto europeo. Pensare di potere competere con colossi del calibro della Cina, dell'India e del Brasile, senza parlare degli USA, andando divisi e magari utilizzando politiche inflazionistiche è totalmente fuori dal tempo e rappresenta un comportamento irresponsabile se non complice di chi sta dietro alla speculazione. Salvare la Grecia non mette fine comunque ad una situazione difficile, che richiede continui interventi, ma, senza dubbio, costituisce il primo essenziale tassello da cui ricostruire lo spirito europeo.
Le ultime vicende del Vaticano
Quello che sta accadendo in Vaticano, aldilà dello squarcio su di una organizzazione da sempre molto riservata, rappresenta una sorta di resa dei conti, che sta attraversando da tempo la chiesa cattolica. La forte eterogeneicità del cattolicesimo, composto da tendenze spesso in profondo contrasto tra di loro, ha contribuito più volte ad alimentare scontri sotteranei senza esclusioni di colpi. Con il magistero di Giovanni Paolo II, queste divergenze sono state sedate per la grande personalità del pontefice e per la sua capacità di mettere nei posti chiave prelati di particolare fiducia, che hanno affermato l'orientamento conservatore dal papa polacco. Il grande prestigio del capo della chiesa di Roma ed anche la sua abilità politica, spesso preziosa anche per altri stati, ha limitato scandali di portata ben maggiore del risalto cui la stampa mondiale ha riservato; per tutti valga l'episodio dell'Istituto delle Opere Religiose e la vicenda di Marcinkus. Nella fase attuale, finito, tra l'altro, il ruolo storico di Wojtila nella caduta del comunismo nell'Europa dell'Est, la chiesa cattolica si ritrova al timone un capo meno politico e più ecclesiastico, certamente non sprovveduto ma maggiormente in balia di una situazione politica interna ben meno controllabile. Anche in questa fase una parte molto importante ha rivestito la questione della banca vaticana, in cerca di inserimento della white list per operare a livello mondiale, ma con il processo di trasparenza intrapreso, bloccato per forti contrasti tra parti importanti delle gerarchie vaticane, a causa di visioni diametralmente opposte sulle reali intenzioni di dare all'istituto finanziario della chiesa cattolica quella chiarezza alle procedure, che non potrebbe più consentire una larga libertà di movimento. Ma la questione finanziaria pare solo una punta dell'iceberg delle questioni che si agitano sullo sfondo. La necessità di una maggiore modernizzazione di una chiesa che pare sempre un passo indietro ai problemi sociali, sia generali, che proprio dei fedeli, ha comportato una crisi di vocazioni e di seguito, che i grandi eventi, come le tante giornate della gioventù, non hanno saputo nascondere. La chiesa di Roma, proprio a causa della direzione conservatrice imposta da Wojtila, non ha saputo dare risposte concrete ai bisogni dei fedeli, se non arroccarsi in una strenua difesa di posizione di quella che viene presentata come una ortodossia che dovrebbe essere capace di contenere gli slanci in avanti del corpo ecclesiale più sensibile alle istanze del cambiamento sociale. Papa Ratzinger, pur essendo di estrazione conservatrice, ha praticato aperture significative intorno ai temi del lavoro e dei diritti sociali, così come anche ha tentato timide aperture in campo sessuale ed ha condannato la malattia della pedofilia, che tanto ha contribuito ad allontanare i fedeli dalla chiesa. Tuttavia le posizioni del papa sono rimaste isolate, non nelle periferie della chiesa, ma proprio nelle stanze vaticane, da dove non sono arrivati segnali di apertura e di appoggio. Anche nella chiesa italiana, pur in un ambito sempre circoscritto ad un conservatorismo molto accentuato, i contrasti sull'indirizzo da dare sia al clero che ai fedeli, non hanno permesso una univocità che permettesse di cavalcare le istanze dei tempi. Non va meglio in altre parti del mondo con l'Austria, dove una parte consistente del clero cattolico è in aperta rottura con Roma a causa del tema del celibato dei sacerdoti. Le vicende vaticane quindi, anche se viste da lontano, danno il sentore di una sfida tra chi vuole una modernizzazione, seppure molto controllata e chi propende per una conservazione ormai fuori dal tempo e perciò perdente, almeno sul lungo periodo. L'evoluzione dei fatti dirà dove vuole andare la chiesa romana.
giovedì 24 maggio 2012
Alcuni suggerimenti contro l'astensionismo elettorale in Italia
L'Italia, alle prese con una crisi economica molto dura, rischia di affogare nel pantano dell'antipolitica. Il clima di sfiducia verso partiti che sembrano esistere solo per salvaguardare se stessi ha portato alle ultime elezioni livelli raramente raggiunti di astensionismo. Il fenomeno, condannato da più parti, in realtà deve essere letto come una estensione del diritto di voto, una casistica valida per chi non ritiene l'offerta elettorale all'altezza o per chi non si riconosce in alcun partito presente sulla scheda elettorale. Sostanzialmente questa accezione non si differenzia da chi, pur recandosi alle urne, non esprime comunque il proprio voto, consegnando una scheda priva di indicazione, scheda bianca, o sceglie di annullarla. Il ritornello del diritto-dovere di voto, allora non ha più senso, in quanto l'elettore assolve il proprio dovere di scelta semplicemente non esercitandola per mancanza delle condizioni materiali affinchè possa essere praticata. Ciò rappresenta così una lettura estensiva e più matura, una vera e propria evoluzione del diritto di voto. La soluzione consente di evitare la scelta del meno peggio e quindi di rendersi complici di scelte che si è già consapevoli di non potere condividere. Ma nonostante queste accezioni positive l'astensionismo troppo elevato resta una patologia del sistema democratico, perchè, essenzialmente manifesta la mancanza di proposte adeguate, l'assenza di soluzioni convincenti e la sfiducia in una classe politica immobile, statica e composta da sempre le stesse persone e, peggio ancora, molte volte appartenenti alle stesse famiglie. Se si vuole combattere questa tendenza, che per le prossime elezioni politiche italiane del 2013, rischia di diventare maggioranza assoluta, occorre mettere mano da subito, sia ad una legge che renda i partiti maggiormente democratici e trasparenti, sia ad una legge elettorale che si focalizzi, piuttosto che sulle alchimie della composizione del parlamento, su un insieme di norme capaci di frenare e limitare la perpetuazione del potere e che invece punti ad un maggiore coinvolgimento nelle istituzioni. A questo proposito sarebbe essenziale limitare i mandati ad un massimo di due consecutivi per gli eletti, ai quali deve seguire uno stop per almeno una legislatura; allargare le incompatibilità vietando assolutamente di avere più di una carica contemporaneamente, mettere un controllo sulle assenze, prevedendo che oltre un certo numero, per qualsiasi motivo, sia prevista la decadenza dalla carica, l'impossibilità di abbandonare una carica per concorrere per un'altra, magari più prestigiosa, la fine delle attuali condizioni economiche, prevedendo il percorso nelle istituzioni per i fini pensionistici, una semplice tappa nel percorso lavorativo della persona. L'astensionismo dovrebbe, poi essere conteggiato al fine della composizione di una assemblea elettiva: fatta salva una quota fisiologica di astenuti, ad esempio il 10%, i seggi da assegnare dovrebbero essere sottratti e lasciati vuoti in proporzione del numero dei non votanti; ciò determinerebbe una azione maggiormente attenta della classe politica ai bisogni ed ai sentimenti del corpo elettorale. Decisiva anche la questione partiti, che sono i soggetti principali dell'azione democratica: in quest'ottica non è ammissibile che queste organizzazioni politiche non abbiamo obbligatoriamente un governo di tipo democratico della loro vita. Ma quello che resta centrale per combattere il fenomeno dell'astensionismo che va inevitabilmente a sconfinare nell'antipolitica intesa come sentimento nettamente contrario a quelli che sono i soggetti della politica attiva, è cercare di coinvolgere la maggior parte possibile di persone nell'amministrazione della cosa pubblica: proprio in questa ragione prende corpo la motivazione della rotazione negli incarichi pubblici ed il divieto di ricoprire più cariche pubbliche contemporaneamente. E' chiaro che sono provvedimenti di rottura non graditi ai professionisti della politica, ma assolutamente necessari per risvegliare quel senso civico, di cui si sente in maniera troppo marcata la mancanza in Italia.
Il cambiamento di rotta di Hollande può portare al blocco delle decisioni UE
Come previsto l'elezione di Hollande alla carica di Presidente della Repubblica francese, ha provocato una frattura in seno alla direzione impressa dal duo Merkel-Sarkozy. Il neo presidente di Parigi sta mantenendo gli impegni presi in campagna elettorale, volti ad incrinare la rigida egemonia tedesca nei confronti del debito pubblico a scapito della crescita. Nell'ultimo vertice europeo, in Olanda, è stato chiaro da subito che per la Cancelliera tedesca, tra l'altro punita da una consultazione elettorale anche nel proprio paese, è finito il periodo di supremazia, garantito, oltre che dalla forza economica tedesca, anche dal costante appoggio del presidente francese uscito sconfitto dalle urne. Hollande, inoltre, può contare sull'appoggio esplicito del premier italiano Mario Monti, alle prese con una situazione particolarmente difficile nel proprio paese, per avere imposto sacrifici molto duri senza, finora, averli bilanciati con provvedimenti efficaci sul tema della crescita, l'unico ritenuto indispensabile per la ripartenza dell'economia. La necessità di scalfire l'atteggiamento tedesco, arriva quindi da più parti e Berlino non può tenere conto di istanze così pressanti, che provengono anche dal proprio interno. Ma sebbene la leadership europea della Merkel sembri vacillare, non altrettanto la propria risoluzione nell'ostacolare i prestiti comuni europei, visti da più parti come necessari per sbloccare la situazione economica del vecchio continente. L'atteggiamento della cancelliera tedesca è dettato dall'intimo convincimento che i nuovi eurobond siano, da un lato un pericolo per l'aumento del debito e dall'altro una minaccia all'industria tedesca, perchè favorirebbero la concorrenza delle industrie degli altri paesi europei. Per la Merkel un cedimento sulla questione significherebbe anche un segnale di debolezza verso quell'elettorato che ancora rappresenta la base del consenso della cancelliera. Il rischio per l'intero sistema europa è di arrivare ad un blocco che rappresenterebbe un intoppo di non poco conto, nella soluzione della crisi. Anche perchè la situazione greca è tutt'altro che vicina a risolversi e malgrado le dichiarazioni di Berlino, che paiono francamente solo di facciata, la Germania è molto preoccupata da una uscita di Atene dalla moneta unica, con un poco remunerativo ritorno alla Dracma. Il pericoloso incrocio tra debito pubblico e debito degli istituti bancari rischia di fare retrocedere a posizioni meno nobili diversi paesi che si fregiano di bilanci in ordine e sopratutto la pericolosità dell'apertura di una falla di tali dimensioni nell'eurozona avrebbe conseguenze difficilmente sopportabili dall'intero sistema. Quali scenari si aprono così alla spaccatura franco-tedesca? Se si esclude una uscita tedesca dall'euro con un impossibile ritorno al marco tedesco, l'unica via è quella di una mediazione che si preannuncia estenuante, in un momento in cui la velocità delle decisioni rappresenta un fattore fondamentale nella possibile ricerca di una soluzione. Se il governo della Germania continua a non volere cedere alcunchè, rischia però materialmente anche in casa propria, come successo nelle recenti elezioni, che hanno avuto il merito di sottolineare come anche sul suolo tedesco vi sia una forte corrente che preme per provvedimenti a favore della crescita. Del resto più che gli industriali sono i settori finanziario e bancario ad esprimere le maggiori riserve verso una apertura agli eurobonds. Una soluzione potrebbe essere fissare canoni particolarmente rigidi per le nuove aperture di linee di credito, in modo da tranquillizzare, almeno parzialmente i settori più restii. In ogni caso occorre considerare la stabilità sociale come fattore destabilizzante più pericoloso, come voce sempre più importante nel bilancio globale, ben più importante di quello strettamente finanziario. La pericolosa incrinatura della pace sociale rischia di diventare molto determinante nell'elaborazione delle politiche economiche, da cui è impossibile ormai prescindere, altrimenti ad implodere non sarà l'euro ma l'intera impalcatura dell'Unione Europea.
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