Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
Cerca nel blog
martedì 12 giugno 2012
E' possibile una guerra tra Israele e la Siria?
Nella speranza di vedere, almeno, indebolita la grande minaccia iraniana, Israele rinuncia alla propria neutralità nei confronti delle diatribe del mondo arabo, e si pronuncia a favore dei ribelli siriani. Si tratta di un cambiamento profondo nel panorama diplomatico regionale, sebbene, per ora senza ricadute efficaci, aldilà dell'appoggio formale agli insorti contro Assad. Con il presidente siriano, fino ad ora, il rapporto, ufficialmente di inimicizia, è stato in realtà improntato alla non aggressione reciproca, tanto che la frontiera con la Siria, per Israele, era quella ritenuta meno pericolosa dall'esercito di Tel Aviv. Ufficialmente la pronuncia israeliana è dovuta alla crudele repressione attuata dal governo di Damasco contro i civili, in realtà la dichiarazione a favore dei ribelli non è venuta sull'onda dell'emozione di quanto visto da tutto il mondo, ma è frutto di una profonda riflessione maturata con ponderazione nel tempo. Lo sviluppo che hanno preso i rapporti, sempre più stretti, tra Damasco e Teheran è alla base del ragionamento israeliano: Assad non è più ritenuto un vicino affidabile, ed anzi la piega che ha preso la guerra civile nel suo paese, ne fa un personaggio ormai imprevedibile, capace, per distogliere l'attenzione dalla sua politica di repressione, di azioni diversive molto pericolose, che potrebbero riguardare anche Israele. Damasco possiede un grande arsenale di armi chimiche, che potrebbero essere girate verso il territorio israeliano o direttamente dalle forze regolari siriane o girate agli Hezbollah che potrebbero usarle dal Libano. Si tratta di uno scenario estremo ma potenzialmente verificabile, Assad potrebbe guidare tutta la rabbia dell'estremismo islamico, contro un nemico facile, capace di aggregare forze più disparate. La mossa consentirebbe, insieme al sempre più incomprensibile atteggiamento cinese e russo, di guadagnare tempo prezioso, da investire in ulteriori repressioni degli oppositori, che continuano a combattere con il solo conforto di aiuti matriali esterni. Va anche detto che l'oggetto maggiore a cui sono indirizzate le azioni militari governative siriane è la parte di popolazione sunnita, la meno determinata contro Israele, al contrario di quella scita, pesantemente influenzata dalla teocrazia di Teheran e più favorevole al mantenimento di Assad al potere. Si sono così riposte le antiche speranze di Israele di vedere la Siria avvicinarsi ai paesi sunniti più moderati per abbracciare, ormai totalmente l'alleanza con l'Iran. Questo elemento è fondamentale per valutare la sicurezza futura del paese della stella di David: una condivisione della politica estera iraniana, da parte di Damasco, non può non comprendere Israele come principale nemico. In questa ottica una permanenza al potere di Assad, potrebbe fornire a Teheran basi per i propri missili, anche nucleari, particolarmente vicini allo stato israeliano, che diventerebbe sotto minaccia costante. E' una considerazione che apre la possibilità, per Israele, della valutazione di un attacco diretto alla Siria. Per i ribelli si tratterebbe del più inaspettato degli aiuti, ma anche del più controverso, a non tutte le correnti, spesso in contrasto tra di loro, che formano l'opposizione ad Assad, questo aiuto sarebbe gradito. Ma la misura porterebbe strategicamente Israele più vicino all'Iran, nel quadro di un possibile attacco preventivo ai centri di produzione dell'atomica. Si tratterebbe anche si una situazione nella quale gli USA, non potrebbero esimersi dall'intervento, magari insieme a partner europei, coperto da evidenti ragioni umanitarie. Questo scenario amplia così le possibilità di un conflitto in medio oriente, dietro cui le ragioni fondamentali sono costituite dall'irresponsabilità della politica estera iraniana, reale minaccia alla pace nella regione.
lunedì 11 giugno 2012
La decisione sbagliata di aiutare le banche spagnole
La decisione di cento miliardi di aiuti alle banche spagnole deve imporre una seria riflessione. Intanto sulla facilità con la quale l'aiuto è stato concesso è bene dire che nelle banche spagnole vi sono cospicui investimenti tedeschi, quindi tutta la retorica a favore dell'unità dell'Europa del governo di Berlino è del tutto fuori luogo, perchè la Germania è la prima ad essere interessata a che le banche iberiche non falliscano. Ma, esclusa questa doverosa introduzione, che può offrire ulteriori spunti per sviluppare domande sulla sincerità dell'europeismo di tanti statisti e statiste impegnati in discorsi che paiono costruttivi, la domanda centrale non può che essere se è giusto finanziare gli istituti di credito, in forza del criterio grazie al quale vengono considerati canali privilegiati per ridare impulso alle economie. Si sta parlando di banche indebitate per operazioni sbagliate ed oltretutto spesso non in buona fede, alle quali vengono accordati prestiti a tassi molto agevolati, che utilizzano il denaro ricevuto, oltre che per ripianare i propri debiti, anche lucrando sui tassi di interesse che impongono, per mettere in circolo questi aiuti. Viene così ad instaurarsi un circuito perverso che premia due volte chi ha operato in modo pessimo, portando al dissesto istituti bancari impegnati in attività al di fuori di quelle istituzionalmente previste. Il ragionamento di fondo degli eurocrati è che portare al fallimento le banche può innescare guai ancora peggiori della situazione attuale, ma è giusto fare ricadere sui cittadini, il costo di manovre errate? Non sarebbe più opportuno finanziare il debito degli stati, i quali, a loro volta, dovrebbero impegnarsi in prima persona nella circolazione degli aiuti, saltando così soggetti che si sono dimostrati, per lo meno, incapaci della gestione di capitali? La risposta sarebbe logica se non ci trovassimo, ormai è assodato, in una spirale perversa del rapporto tra banche, governi nazionali ed istituzioni centrali. Le negative esperienze degli ultimi anni, dove le banche non hanno praticamente più fatto il loro lavoro, spingendo sempre più a fondo l'acceleratore del facile guadagno, rivelatosi poi per quello che doveva essere: bolle speculative incapaci di mantenere le promesse fatte, dovrebbe fare radicalmente cambiare l'assetto del credito per vie legali, nel senso che i parlamenti dovrebbero impegnarsi più a fondo per la costruzione di una legislazione che tuteli maggiormente l'investitore ed assieme garantisca una maggiore circolazione del denaro, prevedendo sanzioni pesanti per chi non adempie al proprio mandato. Viceversa ci troviamo in una situazione, dove non solo non vi sono provvedimenti, anche estremi, per chi sbaglia, ma, anzi, si prendono iniziative quasi premianti, che consentono alle banche di sopravvivere in una situazione che sarebbe di fallimento per qualsiasi altra azienda. Senza una nuova legislazione, che riguardi almeno l'intera area euro, che innovi la materia in senso punitivo per chi sceglie gli investimenti facili, non si può pensare di sbloccare una situazione che rischia di protrarsi a lungo nel tempo. Le tasse dei cittadini non possono essere impiegate per salvare banche, ma anche aziende, che hanno dilapidato ingenti patrimoni per rincorrere speculazioni evidenti. Quella che deve essere cambiata è la mentalità della banca come unico canale creditizio, se il sistema bancario di un paese non è affidabile si lascia andare al suo destino e lo stato lo sostituisce, fintanto che il sistema non recupera la sua affidabilità. D'altronde questo provvedimento non sarebbe altro che l'applicazione di una teoria effettivamente liberista, mentre non è liberista chi specula, anche in nome del mercato, e poi accetta gli aiuti di stato. Un provvedimento come quello di questi giorni che impegna ben cento miliardi di euro per salvare un sistema bancario deficitario è soltanto il chiaro segnale di una classe politica che o non vuole trovare alternative o non sa trovarle, in entrambi i casi si tratta dell'ennesimo segno del declino comune.
venerdì 8 giugno 2012
Quale soluzione per la Siria?
La tenace resistenza di Cina e Russia all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU determina l'impossibilità di un intervento armato in Siria sotto l'egida dell'ONU. Assad è conscio che le due super potenze, per ragioni comuni ma anche differenti, non toglieranno mai il veto ad una azione militare nei confronti di Damasco; del resto le occasioni per autorizzare l'intervento di una forza multinazionale sono state, purtroppo, molteplici. Non è bastata la feroce repressione che è sfociata in una tragica guerra civile, dove si sono verificati diversi massacri, anche di bambini. Eppure niente è servito a fare cambiare idea a Mosca e Pechino, che continuano imperterriti su di una linea che prevede sterili trattative, che hanno il solo effetto di fare guadagnare tempo al dittatore siriano. Il quale, malgrado l'entità delle sanzioni a cui è sottoposto il suo regime, è tutto tranne che isolato. Proprio i contatti con i governi cinese e russo e con quello iraniano, gli consentono ancora di godere di una platea internazionale che gli permette di continuare la feroce repressione in atto. Neppure le minacce dei paesi del Golfo hanno spaventato il presidente siriano, tuttavia è impossibile non chiedersi come sarà l'evoluzione della situazione, non potendo Assad eliminare fisicamente la gran massa di oppositori, tra l'altro destinata a crescere, presente nel paese. Difficile elaborare previsioni, la situazione è troppo caotica per un'analisi che consenta di formulare qualsiasi ipotesi. Occorre però fare alcune considerazioni, basandosi, ad esempio sulla fine del rais libico Gheddafi. Anche in quel caso il mondo si è trovato di fronte ad una carneficina operata per imbrigliare il dissenso, ma le analogie finiscono qui. Gheddafi è rimasto totalmente isolato nella platea internazionale a differenza di Assad, che può giocare sulla sicurezza del veto in sede di Consiglio di sicurezza. Nell'occasione libica sia la Cina che la Russia alla fine si astennero e ciò determinò l'invio di forze armate, essenzialmente aeree ma poi seguite anche da piccoli contingenti di terra, che si rivelarono determinanti per la caduta del regime di Tripoli. Gli insorti godevano già di aiuti materiali provenienti dall'estero, ma senza l'intervento esterno, la capacità militare delle forze armate fedeli a Gheddafi avrebbe avuto la meglio. I ribelli siriani si trovano in una situazione analoga a quella libica prima degli aiuti militari, possono contare su rifornimenti di armi da parte di paesi amici ma ciò non è sufficiente per rovesciare un esercito meglio armato e preparato come quello leale ad Assad. Questo anche se interi reparti hanno disertato e si sono schierati al fianco degli insorti. Quello che fa Assad è una guerra repressiva di forte logoramento, che si basa sia su di un annientamento fisico degli avversari, sia su quello psicologico operando massacri sui civili inermi delle zone dove la ribellione è più forte e radicata. La particolare crudeltà di Assad proviene in parte anche dalla sensazione di impunità derivante dalla sicurezza, che, per lo meno, la Russia non toglierà mai il veto nel Consiglio di sicurezza, ad un intervento militare, perchè ritiene la Siria, questa Siria governata da Assad, particolarmente strategica per i propri interessi (si deve ricordare che l'unica base navale russa nel Mediterraneo è in Siria). Diversi analisti ritengono così, fortemente improbabile una azione militare al di fuori dell'ombrello ONU da parte di altre potenze, come ad esempio la Francia, come minacciato da Hollande appena eletto, minacce a cui, per ora, non ha fatto seguito alcun passo pratico significativo. Inoltre Assad ha un'altra arma in mano, che ha minacciato più volte di usare e cioè fare in modo di allargare il conflitto al Libano, gettando la regione in una pericolosa instabilità. Difficile dire se questa minaccia possa avere un seguito reale, in quel caso Damasco andrebbe al centro di una situazione oltre i propri confini, creando una eventualità da gestire al di fuori del proprio controllo, tenendo conto anche della pericolosa vicinanza degli israeliani, già fortemente allarmati per la questione iraniana. In ogni caso per i ribelli l'unica possibilità è continuare la propria guerra contando solamente sugli aiuti in armi e materiale provenienti dall'estero. Si tratta di resistere e temporeggiare per un tempo praticamente non quantificabile, ne prevedibile, ed in attesa dell'insorgenza di una eventualità che intervenga a modificare in qualche modo la situazione presente. Se è impossibile, come abbiamo visto, contare su di una variazione dell'atteggiamento russo, per la Cina la questione potrebbe essere differente, non a caso è una delle nazioni che si è spesa di più nel tentativo di risolvere la situazione attraverso le trattative diplomatiche. Inoltre il veto cinese è motivato dalla dottrina internazionale che Pechino si è data e che vieta l'ingerenza negli affari interni degli altri stati. E' però pur vero che il no cinese ad un intervento militare ha anche motivi di ordine diplomatico nei confronti degli Stati Uniti e dell'Europa, di cui non vuole apparire succube. Tuttavia un ammorbidimento, anche non ufficiale, nei confronti delle ragioni dei ribelli, comprendendo la necessità anche di apparire non complice sul piano internazionale, di chi è l'autore di veri e propri massacri, potrebbe costituire quella novità in grado di non fare pendere più la bilancia a favore di Assad. Se si vuole convincere la Cina a cambiare atteggiamento occorre renderla protagonista del proprio cambio di indirizzo senza forzare la mano, ma il tempo per un cambiamento di rotta pare sempre più urgente.
UE: i propositi di unità politica non bastano se non sono sostenuti da azioni forti
Dopo avere chiesto espressamente un maggiore sforzo di tutti i paesi europei per raggiungere l'unità politica dell'Europa, la cancelliera Merkel ha indicato una via alternativa per raggiugere questo scopo: l'Europa a due velocità. Appare quanto meno singolare come possa concretizzarsi una unione effettiva ed efficace tra un gruppo di paesi regolato in una maniera con un altro gruppo regolato in maniera differente. Sostanzialmente la tesi della Merkel è che già ora vi siano forme di integrazione diverse, da una parte la zona Euro e dall'altra nazioni come il Regno Unito e la Danimarca, che pur essendo nella UE, non aderiscono alla moneta unica. E' fin troppo facile obiettare che è già molto difficile definire integrazione quella di Londra e Copenaghen con il resto dell'Europa, si tratta di una integrazione poco più che nominale, una forma di adesione nettamente euro scettica tesa più che altro a prendere i vantaggi e le opportunità offerte dall'Unione Europea, senza che queste siano bilanciate da un impegno forte e convinto nelle istituzioni europee. La Gran Bretagna e la Danimarca non costituiscono un grande esempio di europeismo ed occorrerebbero politici coraggiosi che ammettessero il fatto senza mezze misure, con tutte le possibili conseguenze del caso, anche quelle più estreme, come l'espulsione dalla UE. Una delle cause della debolezza politica dell'Unione Europea è, infatti, la scarsa capacità di imporsi come istituzione centrale a livello politico, da cui discende anche la capacità coercitiva inesistente. Ciò è il frutto di avanzamenti troppo poco convinti del processo di integrazione europea, che non è stato capace di elaborare strategie di esclusione dei paesi troppo tiepidi; anzi è avvenuto il contrario: una corsa ad ammettere quasi tutti quelli che ne facevano richiesta, tranne la Turchia, senza la necessaria valutazione politica dei requisiti della reale convinzione sul tema centrale dell'unità politica. Si sono così disperse risorse economiche importanti a favore di stati che hanno acquisito diritti tali da intralciare il processo di unificazione, quello per il quale prima la Comunità Europea e poi l'Unione Europea sono state create. Questo tradimento degli elementi fondativi dell'istituzione sovranazionale è avvenuto soltanto per favorire la parte economica, la finanza, senza avere tenuto dell'adeguato conto, che ciò ostacolava invece il processo politico. Tale visione miope pare continuare ancora oggi, nel pieno di una crisi economica violenta. Se la Germania ha l'ambizione di essere il paese capofila della UE, deve esprimere politici di livello capaci di dichiarazioni forti perchè la sola forza economica non è sufficiente, sul lungo periodo, per imporre politiche di sacrificio agli altri paesi. L'atteggiamento della Merkel, in questo senso non pare adeguatamente convinto, quale apporto possono portare Londra, che fa della speculazione finanziaria esasperata e quindi dannosa per il resto dell'Europa la sua principale industria, e la scettica Copenaghen, ad una unità politica europea auspicata dalla stessa cancelliera della Germania? L'Europa ha bisogno di statisti che dicano senza mezzi termini chiaramente che a chi non vanno bene determinate regole debbano uscire dalla casa comune europea, senza timori di creare casi diplomatici o di perdere chi sa quale alleato già di per se poco affidabile. La UE deve ripartire da quei paesi pienamente convinti delle opportunità offerte da una unione politica transnazionale e sopratutto sovranazionale, che metta il continente in condizione di gareggiare e pesare sul piano dei rapporti internazionali alla pari di USA e Cina. Il timore è quindi che Angela Merkel o sia poco convinta di ciò che dice o sia prigioniera del timore elettorale circa la consultazione politica del prossimo anno. Ed è questo il vero problema europeo che ne limita gli orizzonti e quindi il raggio di azione: una visione a breve termine troppo spesso condizionata da fattori alla fine esterni al bene comune.
giovedì 7 giugno 2012
Gli USA avvertono il Pachistan
Gli USA sono in difficoltà a continuare a gestire il loro rapporto con il Pakistan. Ufficialmente i due stati sono alleati contro i fondamentalisti islamici, che dalle zone montuose al confine con l'Afghanistan attaccano Kabul e costituiscono il principale ostacolo al processo di pacificazione del paese di Karzai. E' questo il motivo fondamentale degli attriti tra Washington ed Islamabad, l'assoluta inaffidabilità pachistana nella lotta al terrorismo, che si concreta, appunto, nella tolleranza continua che Islamabad concede alle basi talebane. In realtà si tratta di una tolleranza che confina con la connivenza, in un gioco pericoloso dove rientrano i servizi segreti pachistani, più volte sospettati di doppio gioco alle spalle degli Stati Uniti. In questo clima, particolarmente teso, rientra la dichiarazione ufficiale del segretario alla difesa USA, Leon Panetta, rilasciata a Kabul nel corso di una visita di stato. Panetta ha chiaramente dichiarato che la pazienza americana è agli sgoccioli, parole particolarmente gradite al presidente afghano Karzai, che da diverso tempo accusa lo stato confinante di offrire protezione ai nemici del suo governo. La presa di posizione di Washington fa seguito a diversi tentativi, che si sono succeduti nel tempo, di trovare un accordo con il governo pachistano per la gestione dei rifugi talebani presenti nelle zone di confine. Si tratta di valli spesso inaccessibili, che offrono rifugi sicuri, anche all'assalto dei droni, dai quali i talebani operano azioni di guerriglia molto efficaci, la cui ritorsione si sta rivelando sempre più problematica senza l'appoggio di forze armate del luogo. Non solo la commistione dei servizi segreti pachistani con gli stessi talebani, rende praticamente impossibili azioni la cui riuscita dipende in gran parte sull'effetto sorpresa. La dichiarazione di Panetta, mai avvenuta con tali toni, è anche il chiaro segnale di una situazione difficilmente colmabile dalle due parti, che paiono ormai troppo distanti. Il problema reale è che senza un rapporto leale con il Pachistan, la soluzione del problema afghano, per gli USA è praticamente impossibile, perlomeno cercando di mantenere il programma di ritiro previsto da Obama. La forza e l'abilità dei Talebani all'interno del proprio territorio, con in più una protezione, più o meno estesa, da parte del Pachistan, rende la situazione di stallo, finchè gli USA assicurano una presenza massiccia sul territorio, ma nel momento in cui il programma di ritiro farà sentire la carenza numerica degli effettivi, lasciando all'inesperto esercito afghano, la situazione andrà a vantaggio dei fondamentalisti islamici, che potrebbero prendere il sopravvento e rendere così vani anni di combattimento portati avanti dell'esercito a stelle e strisce. Probabilmente per gli Stati Uniti è venuto il momento di compiere scelte drastiche come intensificare gli attacchi in territorio pachistano, prestando così il fianco sia a censure diplomatiche, che ad avere Islamabad come avversario diretto, piuttosto che falso alleato. E' uno scenario estremo, ma che ha sempre maggiori probabilità di verificarsi. Certo anche se ciò dovesse accadere, il ritiro delle truppe non dovrebbe subire variazioni, sopratutto in campagna elettorale, più probabile l'intensificazione dell'uso dei droni ed il mantenimento sul terreno di esperti sia di guerra elettronica, che di intelligence. Ma ancora più pericolose potrebbero essere le conseguenze sul piano diplomatico, con il Pachistan che già usufruisce dell'aiuto cinese specialmente in chiave anti indiana, infatti su questo terreno Pechino ed Islamabad hanno delle particolari assonanze in chiave di rivalità con Nuova Delhi, i primi per tradizionali ragioni storiche, i secondi per più prosaiche ragioni di concorrenza economica. Se Washington interrompesse i rapporti con il Pachistan, la Cina ne potrebbe diventare il maggiore alleato, con conseguenze imprevedibili sul piano degli equilibri regionali, peraltro già molto instabili.
La Merkel auspica maggiore unione politica nella UE
La cancelliera Merkel, bersagliata da più parti come responsabile della mancata crescita europea, gioca la carta del rafforzamento dell'unione politica. Si è detto più volte che l'euro è nato senza il dovuto sostegno di un apparato politico in grado di intervenire in caso di difficoltà, ma la diffidenza dei singoli governi verso provvedimenti che ne potessero limitare il raggio d'azione ed il crescente successo degli ultimi anni di partiti e movimenti territoriali, hanno sempre impedito il regolare corso del processo di unificazione europea, che è un processo essenzialmente politico, anzichè economico. Quello che sembrava una conquista, la moneta unica europea, si è rivelato un fallimento proprio perchè doveva essere il passo successivo e non quello iniziale, da dove partire per l'effettiva unificazione del vecchio continente. Gli ultimi avvenimenti di natura economico finanziaria hanno messo in luce tutta la debolezza dell'Euro, causata proprio dal mancato sostegno istituzionale; infatti le misure sia di natura fiscale, che creditizia, che finanziarie, messe in campo, sia dai singoli stati, che dalle istituzioni centrali, sono apparse fin da subito provvedimenti slegati e mancanti di un indirizzo politico unitario e concreto, che li caratterizzasse sui mercati, in modo tale da garantire un indirizzo preciso tale da dare sia ai mercati, che agli speculatori un segnale forte ed inequivocabile. Ora finalmente anche il governo del paese più importante, l'azionista numero uno della UE, si rende conto, aldilà delle necessità elettorali e dei gradimenti dei sondaggi, che iniziare a pensare concretamente all'ipotesi della creazione di strumenti volti a dare una politica unitaria, non è più procrastinabile. Tuttavia siamo già in ritardo e l'urgenza necessaria a sveltire il processo sarà tutt'altro che garantita. Il punto di partenza, ancora una volta non è corretto, infatti anzichè partire dalla creazione di istituzioni politiche comuni con a disposizione strumenti efficaci, si vuole iniziare dall'unione fiscale da attuare con maggiore coordinamento delle politiche di bilancio. Ciò significa, tecnicamente, sempre tempi lunghi a cui sottoporre i programmi elaborati dai singoli stati, sempre poco propensi a perdere autonomia. Il pericolo concreto è di trovarsi di fronte a trattative sfiancanti, quando il requisito della velocità è, di questi tempi, il più essenziale per contrastare le ondate speculative. La Merkel conosce il problema e probabilmente ritiene il suo approccio l'unico possibile: un avanzamento graduale dove il risultato ultimo è l'unione politica. La cancelliera tedesca infatti prospetta diversi vertici per arrivare ad un risultato conclusivo che soddisfi il criterio dell'unicità dell'indirizzo politico. Se teoricamente e, purtroppo anche praticamente, la Merkel ha ragione, non si può non imputare alla classe politica europea la responsabiltà del ritardo con il quale continua a muoversi: questi punti dovevano essere affrontati e risolti molto tempo prima ed è ben triste che soltanto una crisi profonda come quella attuale costringa finalmente a muoversi verso quei provvedimenti la cui utilità appariva chiara già da diversi periodi.
mercoledì 6 giugno 2012
Elezioni egiziane e questione palestinese: futuro legato a filo doppio
Il risultato elettorale egiziano non avrà effetti diretti soltanto in patria, ma, si teme, che andrà ad influire, inevitabilmente sul processo di pace tra israeliani e palestinesi. Se Mubarak consentiva un controllo ferreo dei possibili fiancheggiatori di Hamas provenienti dalla nazione delle piramidi, e per questo Israele ha sempre guardato con diffidenza alla primavera araba egiziana, è anche vero che il suo ruolo aveva una sorta di funzione stabilizzatrice tra le due anime del movimento della liberazione della Palestina, appunto il più estremista Hamas, leader nella striscia di Gaza e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, più forte nella West Bank. Una eventuale vittoria del Fratelli Musulmani, favoriti nei sondaggi, rispetto al concorrente, uomo dell'apparato dell'ex leader condannato all'ergastolo, potrebbe provocare problemi sia al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che al presidente palestinese Mahmoud Abbas. Per il primo potrebbero aprirsi le porte di una eventuale revisione del trattato di pace tra Israele ed Egitto sul piano ufficiale, mentre sul piano informale l'eventualità di favorire elementi a contatto con l'area terroristica islamica contraria allo stato di Tel Aviv direttamente da parte del governo egiziano, potrebbe diventare una dura realtà con la quale fare i conti. E' una minaccia che preoccupa molto Israele, che dovrebbe rivedere, come già in parte è accaduto, la disposizione delle forze armate ai suoi confini, andando appunto a rafforzare la presenza sulla frontiera con l'Egitto. Ed anche sul piano diplomatico, eventuali aiuti diretti da uno stato sovrano ad Hamas andrebbero a costituire fonte continua di lavoro per la politica estera di Tel Aviv, andando a distogliere, quindi, forze sia militari che diplomatiche da altri fronti. In sostanza potrebbe aprirsi una sorta di falla nel sistema difensivo israeliano, che per essere coperta necessiterebbe di diminuire risorse da altre zone comunque delicate per la sopravvivenza dello stato. Nonostante le risorse israeliane siano ingenti non sono illimitate, sopratutto nell'eventualità di un conflitto con l'Iran per la questione atomica. Non tutti in Israele sono pessimisti riguardo ad una vittoria dei Fratelli Musulmani, alcuni analisti, infatti, considerano altamente improbabile un cambiamento di rotta dello stato egiziano anche in caso della temuta vittoria delle forze politiche confessionali; sono in gioco elementi fondamentali per la disastrata economia dell'Egitto: gli aiuti americani ed il turismo, senza i quali il bilancio del paese non è in grado di sostenere le spese necessarie. All'OLP si respira altrettanta apprensione, l'esito temuto da Tel Aviv è altrettanto temuto in Cisgiordania dove si pensa ad un possibile sbilanciamento dell'Egitto nei confronti di Hamas: questo fattore potrebbe portare a due conseguenze, entrambi in grado di dividere i due schieramenti e favorire però Israele che avrebbe un avversario non più unito. Nel primo caso gli aiuti del Cairo potrebbero favorire Hamas, ma soltanto nella striscia di Gaza determinando una possibile richiesta di autonomia di quel territorio sganciata dalla panoramica più ampia dell'intera Palestina, compromettendo anni di sforzi, nel secondo caso, invece, l'appoggio egiziano determinerebbe un sopravvento di Hamas sull'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, indirizzando la lotta ad un maggiore radicalismo contro Israele. Insomma per chi come Abbas ha sempre tentato la via diplomatica sarebbe comunque la sconfitta. Ma tra le due parti, Israele ed OLP, in apprensione chi starebbe peggio in caso di vittoria dei Fratelli Musulmani è sicuramente il secondo perchè potrebbe andare incontro ad una sconfitta politica non mitigabile, almeno non come Tel Aviv, dal taglio degli aiuti americani. Resta da vedere, comunque, come i Fratelli Musulmani potranno gestire al loro interno, che non è monolitico, la questione palestinese da una posizione di responsabilità, riuscendo a conciliare le varie anime e le diverse idee che compongono il movimento.
Iscriviti a:
Post (Atom)