Politica Internazionale

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mercoledì 11 luglio 2012

L'Egitto in piena crisi istituzionale

La vittoria dell'islamico Morsi in Egitto, ha rovinato i piani dei militari e sopratutto, sta innescando una crisi istituzionale, che potrà avere anche soluzioni tali da rimettere in discussione il processo democratico del paese. Uno dei primi atti del nuovo presidente è stato quello di reintegrare il parlamento nelle sue funzioni, confutando così il provvedimento della Corte Costituzionale che ne aveva decretato l'illegittimità. Questa decisione ha però riaperto le profonde divergenze con le forze armate, vere mandanti della sospensione dell'organo legislativo egiziano, ed ha provocato un conflitto con la stessa Corte Costituzionale, che, al momento, pare insanabile, con il risultato di avere creato una situazione in cui la vita istituzionale risulta bloccata. La risposta della Corte Costituzionale, infatti, è stata quella di sospendere il decreto presidenziale ristabilendo la situazione ante risultato elettorale, con il parlamento di nuovo dichiarato illegale. Va ricordato che, tecnicamente, alla base della decisione della Corte vi è un difetto nella legge elettorale. Proprio per questa ragione Morsi ha il solo appoggio dei partiti islamici, Fratelli Musulmani e Salafiti, mentre per le formazioni laiche il decreto che rimetteva al proprio posto il parlamento è stato addirittura definito golpe istituzionale. Questo significa che la frattura nel paese non è solo istituzionale ma anche sociale, d'altro canto i partiti laici avevano preferito schierarsi a favore del candidato sconfitto, espressione dei militari ed in un certo senso anche del passato regime, piuttosto che vedere un esponente degli islamici nella carica di presidente. Quello che è uscito dalla primavera araba è un Egitto profondamente diviso, in bilico tra attaccamento alla religione, che negli anni bui del regime ha rappresentato un sicuro rifugio, e voglia di modernizzazione sociale e politica, che male sopporta il bavaglio religioso al posto di quello della dittatura. Sono due mondi in aperto contrasto e probabilmente inconciliabili, che hanno trovato nel terreno istituzionale la loro arena di scontro. Ma questa volta l'esercito non è imparziale ed è intenzionato a fare pesare la propria importanza sia come soggetto politico, che stabilizzatore del paese. La sentenza della Corte costituzionale, composta da uomini nominati da Mubarak e quindi ritenuta moralmente illegittima dai partiti musulmani, affida il ruolo del parlamento alle Forze Armate, che ricoprono quindi un doppio ruolo, alquanto inedito in un regime democratico, ma quello che si sta sviluppando in Egitto è una forma di stato ancora incompiuta, dove si può presentare il paradosso di un esercito maggiore garante delle libertà individuali rispetto ad una assemblea eletta. Del resto il timore di gran parte della società egiziana, ma non certo della maggioranza che si è recata alle urne, è l'applicazione della sharia come legge vigente nel paese, mentre sulpiano internazionale si teme una deriva dell'Egitto verso paesi fondamentalisti come l'Arabia Saudita, che, tra l'altro sarà il primo viaggio all'estero di Morsi. Inoltre per i militari è ritenuto fondamentale non alterare i rapporti diplomatici con Israele e Stati Uniti, attraverso i quali giungono gli aiuti in materiale e tecnologia. Quelli che si aprono sono scenari segnati dalla grande imprevedibilità: se il potere maggiore è in mano ai militari, non è interesse di questi passare come coloro che, tramite un colpo di stato per ora non violento, hanno invalidato la competizione elettorale di uno dei paesi arabi più importanti, ma, tuttavia, godono anche dell'appoggio, certamente insperato, dei partiti laici usciti sconfitti dalle elezioni, che tutto volevano, durante le dimostrazioni contro Mubarak, tranne passare dalla dittatura alla legge islamica. I vincitori delle elezioni, dal canto loro, hanno la forza per mobilitare masse numerose, ma minori rispetto a quando nelle piazze scendevano anche quelli che ora sono i loro avversari politici, hanno però il risultato a loro favorevole da presentare sul piano internazionale, anche se tutto il panorama diplomatico, conscio dell'equilibrio precario della situazione, invita i due contendenti ad un dialogo serrato per superare la crisi.

martedì 10 luglio 2012

Sempre più tesi i rapporti tra Cina e Vaticano

I rapporti, interrotti ufficialmente nel 1951, tra Cina e Vaticano, sono destinati a deteriorarsi, nonostante il riallaccio con Pechino, fosse uno dei programmi del pontificato di Benedetto XV. Il nodo centrale resta sempre la questione della nomina dei Vescovi cinesi, che il Vaticano ritiene, conformemente alla dottrina, propria prerogativa, oltre che garanzia per l'unità della chiesa. Non la pensa così lo stato cinese, che vede una violazione della propria autonomia, fino a diventare una interferenza vera e propria, la nomina di un funzionario ecclesiastico operante sul proprio territorio. La questione non è nuova, tanto da avere generato due corpi cattolici, formalmente ben distinti all'interno della Cina. Infatti oltre alla Chiesa cattolica ufficiale, costretta a vivere in semi clandestinità, vi è l'Associazione Patriottica, che rappresenta l'organizzazione attraverso la quale il Partito Comunista controlla i cattolici, si tratta di cattolici atipici perchè mettono lo stato cinese davanti al Papa e godono di minore libertà di espressione, giacchè il clero dirigente è allineato in modo ortodosso ed acritico alle direttive di Pechino. In realtà la divisione tra queste due chiese non è poi così netta e spesso vi è chi ne fa parte di entrambi, anche se la situazione non è uniforme in tutto il paese e vi sono differenze, anche sostanziali, da regione a regione. La presenza cattolica in Cina si aggira ufficialmente intorno ad i cinque milioni, mentre il dato stimato ammonta a dodici milioni, ma non si hanno dati certi, proprio perchè la chiesa ufficiale è osteggiata dall'apparato, quindi il dato ufficiale si riferisce agli appartenenti alla Associazione Patriottica, molti dei i quali però, ricordiamo potrebbero fare parte anche della chiesa ufficiale. Nei giorni scorsi l'ordinazione da parte del governo di un nuovo Vescovo, padre Yue Fusheng, a capo della diocesi di Harbin, la maggiore città del nord-est, ha provocato la reazione vaticana, che l'ha definita illeggittima ed ha minacciato la scomunica per il nuovo vescovo ed i prelati a lui vicini. Fatto che ha una duplice implicazione perchè il nuovo vescovo è anche il vice presidente dell'associazione patriottica e chi lo ha ordinato, il vescovo Fang Xingyao, ne ricopre addirittura la carica di Presidente. In quest'ottica la reazione vaticana assume anche una implicazione politica e quindi non solo dottrinale, perchè attacca, con le minacce di scomunica, lo stesso stato cinese. Ciò non può non implicare un raffreddamento dei rapporti diplomatici in una fase storica dove il Vaticano si sta battendo per la libertà religiosa e la Cina cerca in tutti i modi di accreditarsi come potenza mondiale. Ma senza l'imprimatur di Roma, Pechino rischia di avere un problema in più sul piano del mancato rispetto dei diritti individuali. In effetti la reazione cinese, che ha definito la protesta vaticana come oltraggiosa ed irragionevole, rileva uno stato di apprensione sul tema, che non può che fare riflettere sulle difficoltà, sia esterne che interne, che Pechino sta affrontando. Se la nomina di un prelato favorevole può aiutare a smorzare l'opposizione interna, sul piano internazionale ha una risonanza tutt'altro che positiva. La polemica è aggravata dalla sparizione di Thaddeus My Daquin, un vescovo ausiliare di Shanghai, arrestato dalla polizia cinese e del quale si sono perse le tracce. Troppo spesso la chiesa ufficiale pare essersi schierata con con chi richiedeva maggiori garanzie a favore dei diritti, sfuggendo oltre modo al controllo dell'apparato e ciò ha generato la necessità di aumentare l'influenza dell'Associazione Patriottica per incanalare in qualche modo questa protesta. Tuttavia i conti di Pechino potrebbero essersi rivelati sbagliati se l'eco delle proteste vaticane consentirà una maggiore attenzione al problema della libertà religiosa all'interno dello stato cinese.

Obama punta ad una riforma delle tasse

La questione della tassazione è da sempre al centro dei programmi elettorali, a qualsiasi latitudine; ma è negli USA che è particolarmente sentita e fonte di pesanti scontri. Nella patria del liberismo è da sempre considerato autolesionistico parlare di incremento della tassazione, per questo la proposta di Obama, seppure nella sua semplicità, è destinata a fare da spartiacque alla propaganda elettorale per le presidenziali. In realtà la proposta di aumentare le tasse non è destinata all'universalità della popolazione americana, ma soltanto a chi supera la soglia di reddito dei 250.000 dollari. Pur non essendo una cifra da normalizzazione sovietica la proposta del presidente uscente ha già incontrato le resistenze dei repubblicani, che hanno la maggioranza al congresso. La ragione della volontà di ridurre la tassazione per quella che è definita la classe media americana, il serbatoio di voti maggiore, è la creazione di una maggiore disponibilità economica per un numero maggiore di persone, capace di fare da volano per una economia sempre in stato di difficoltà. Il contraltare a questa manovra è l'azzeramento dei benefici per i più ricchi, tramite la fine delle agevolazioni fiscali combinate con l'aumento delle aliquote, andando così ad applicare una sorta di redistribuzione, peraltro molto attenuata. L'obiezione repubblicana si basa sulla minore ricaduta degli investimenti da parte dei ceti più ricchi, posizione opinabile in quanto già ora l'apporto dei ceti abbienti alla ripresa non ha garantito la ripresa economica tanto decantata dalle teorie liberiste. Viceversa la possibilità di una maggiore spesa per un numero maggiore di persone potrebbe dare maggiori risultati in ottica di sviluppo. Il punto di partenza è la revisione di una legge del presidente Bush che prevedeva una serie di tagli fiscali per l'intera popolazione, Obama è sempre stato contrario all'applicazione universale della defiscalizzazione, ma l'avversa maggioranza al Congresso gli ha sempre impedito una revisione verso una maggiore equità del provvedimento. Ma questa legge deve affrontare la scadenza fissata entro la fine dell'anno, Obama è favorevole a mantenerla soltanto per i redditi sotto i 250.000 dollari, che tradotto in aliquote fiscali vuole dire tassazione al 30% per chi percepisce un reddito entro la soglia dei 250.000 dollari ed una aliquota che può variare dal 33% al 39% applicabile a scaglioni, per gli importi superiori. E' su questo tema che verteranno i sondaggi elettorali per capire chi sarà eletto presidente ed oltre gli steccati politici, quella lanciata da Obama è una provocazione alla politica fiscale statunitense che dagli anni ottanta, cioè dall'era Reagan, ha caratterizzato il sistema USA. Riuscire ad invertire questa tendenza potrebbe aprire una nuova via anche nel resto dell'occidente, restio a tassare i grandi patrimoni familiari a scapito dei redditi da lavoro, sempre più penalizzati dalla crisi. Sarebbe la conferma della statura da leader mondiale di Obama.

lunedì 9 luglio 2012

Elezioni in Libia: verso la sconfitta dei partiti musulmani

I primi exit poll delle elezioni libiche, le prime dopo il dominio incontrastato di Gheddafi, la cui affluenza è stata di circa il sessante per cento degli aventi diritto, vedrebbero sconfitto il partito dei Fratelli Musulmani libico a favore dell'Alleanza delle forze nazionali, formazione che riunisce circa quaranta formazioni, nel tentativo di creare una sintesi dei vari gruppi impegnati nella lotta contro il rais di Tripoli. Il vantaggio della formazione laica sarebbe certo in quasi tutti i distretti del paese. Se il risultato dovesse essere confermato, la Libia interromperebbe le vittorie elettorali di tipo confessionale, che hanno portato al potere, in tutti i paesi attraversati dalla primavera araba, le formazioni di matrice islamica. Sopratutto la Libia andrebbe a rappresentare una enclave tra Egitto e Tunisia, diventando, potenzialmente, un interlocutore preferito per il mondo occidentale, sia per la sponda meridionale del Mediterraneo, che per il mondo arabo. Tuttavia non bisogna confondersi sulla natura dell'Alleanza delle forze nazionali, descriverlo come movimento di matrice liberale appare esagerato, in quanto, pur non essendo una forza islamica dichiarata, sostiene la sharia come fonte di diritto. Questo fattore costituisce una anomalia in una forza politica che si definisce laica, ma rappresenta anche uno spunto di riflessione sulle modalità di definizione sui nascenti movimenti politici arabi, derivanti dalla primavera araba. Infatti il metro di valutazione applicato ai partiti occidentali non può valere in questo contesto, dove possono coesistere l'impronta non confessionale con l'apprezzamento della legge islamica.
Anche la complicata legge elettorale adottata dal paese libico non aiuta a costruire una ipotesi certa, giacchè si stima che circa 120 eletti su 200, sarà di matrice indipendente e quindi soltanto i restanti 80, saranno espressione dei partiti; ma proprio questa prevalenza di candidati eletti indipendenti dovrebbero costituire la base per la sconfitta degli islamisti e portare Mahmoud Jibril alla vittoria. Il solo fatto di rappresentare una alternativa ai partiti islamici ha provocato la definizione di candidato degli europei, tuttavia per ora questa possibilità non è una certezza, il vincitore, comunque, dovrà fare sfoggio di equilibrio e lungimiranza, per governare un paese più frammentato che diviso: la grande sfida infatti sarà riuscire ad unire le regioni occidentali con quelle orientali, divise anche al loro interno in diversi gruppi tribali. Compito non facile, le divisioni che hanno contraddistinto la lotta di liberazione sono rimaste tali, anche dopo l'uccisione del Colonnello; le stesse difficoltà dell'esercizio del voto, ostacolato con attentati, specie nella regione della Cirenaica, rappresentano ulteriori segnali di ostativi nel cammino della costruzione dello stato ed anche l'assoluta assenza di almeno un inizio di un processo di pacificazione nazionale, non costituisce certo una buona premessa. Con queste basi di partenza il vincitore delle elezioni dovrà misurarsi poi con una serie crescente di difficoltà rappresentate dalla gestione dei ricchi giacimenti petroliferi e del conseguente reimpiego dei proventi, sia in ottica di redistribuzione del reddito per innalzare una qualità di vita decisamente bassa, sia in ottica della costruzione di infrastrutture per sviluppare l'economia del paese, creando alternative all'industria energetica capaci di attirare investitori esteri. Il compito non è agevole perchè quella libica è stata una società che Gheddafi ha basato sulla corruzione per catturare il consenso delle tribù più importanti. Per creare la nuova società libica le tribù saranno il punto di partenza obbligato, ma che andranno poi superate nel tentativo di dare un assetto maggiormente moderno, per lo meno a quella che dovrà essere la classe dirigente del paese, cercando di dare una maggiore articolazione al tessuto sociale, attraverso la creazione di partiti ed associazioni e la partecipazione attiva alla politica delle donne, molto osteggiate in campagna elettorale.

venerdì 6 luglio 2012

Presidenziali USA: Romney gioca la carta della politica estera

I temi della politica estera irrompono sulla scena della campagna elettorale americana. Mitt Romney, che ha finora preferito discutere quasi esclusivamente di questioni economiche, deve essere stato sollecitato dai suoi collaboratori ad affrontare quello che per lo sfidante repubblicano è un terreno difficile. Infatti sulla carta, su questo argomento, Obama pare troppo in vantaggio perchè può mettere sul piatto della bilancia l'eliminazione di Bin Laden, il ritiro dall'Iraq e quello prossimo dall'Afghanistan, l'atteggiamento equilibrato tenuto nei confronti dell'Iran, sottoposto a sanzioni dure, ma senza mai travalicare verso posizioni irresponsabili. Dove può sfondare, invece, Romney è sul rapporto con Israele, deterioratosi con la presidenza Obama a causa degli eccessi del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, che ha praticato una politica espansionistica nei territori palestinesi in aperta violazione dei trattati e del buon senso. In realtà il rapporto tra USA ed Israele, visto nell'ottica democratica è stato gestito bene da Obama, che finora è riuscito ad impedire le tanto minacciate azioni preventive di Tel Aviv verso Teheran. Ma questo è proprio il punto che intende sfruttare Romney per conquistare la potente lobby ebraica americana. Aldilà delle incomprensibili dichiarazioni, che hanno rivelato un certo dilettantismo ed una scarsa conoscenza del panorama diplomatico, relative a possibili bombardamenti sull'Iran in caso di una sua elezione, Romney intende visitare Israele per fare sentire la sua vicinanza, più che al popolo al governo israeliano. E' però anche un'operazione di facciata in omaggio all'elettorato più conservatore, che interpreta l'atteggiamento di Obama verso l'Iran come una debolezza anzichè apprezzare lo sforzo di cercare di evitare potenziali conflitti. Questo aspetto è collegato al desiderio, mai sopito, dei repubblicani di vedere il proprio paese come potenza predominate sulla scena internazionale, tendenza opposta alla politica praticata da Obama, che anzi spesso ha lasciato gli Stati Uniti in una posizione defilata in più di una occasione presentatasi, valga come esempio per tutti l'appoggio ai ribelli libici che hanno visto gli USA in una posizione di seconda fila rispetto a Francia ed Inghilterra. Romney ritiene che questo sia un buon argomento elettorale e non ha esitato a rispolverare un clima da guerra fredda con pesanti dichiarazioni sul comportamento della Russia. Effettivamente occorre riconoscere che Mosca dalla rielezione di Putin ha praticato una politica estera quanto meno ardita, regalando il proprio appoggio a dittatori e stati potenzialmente pericolosi, situazione ben conosciuta da Obama, che però evita posizioni di evidente contrasto con il Cremlino, continuando nella tattica, seppure faticosa del dialogo ad oltranza. La posizione dello sfidante repubblicano, ha così provocato le immediate critiche del governo russo, che ha pronosticato, nel caso di elezione di Romney, una probabile crisi diplomatica tra i due paesi nel corso del primo anno del suo mandato. Un confronto più duro e serrato di quello attuale trai due paesi preventiva uno sconvolgimento degli equilibri attuali, che seppure poco stabili, consentono ancora margini di collaborazione tra Mosca e Washington. Vista sotto questa prospettiva la mossa di Romney di demonizzare la Russia sembra un autogol, ma potrebbe trattarsi di una mossa calcolata per tentare di recuperare l'elettorato del tea party che si è allontanato dal partito repubblicano, tuttavia negli ambienti ufficiali del partito la sortita di Romney è stata condannata da esponenti autorevoli e di grande competenza internazionale come Henry Kissinger e Colin Powell, che hanno sottolineato come il rapport con la Russia attuale non deve essere rovinato solo per la questione nucleare iraniana. L'avere affermato che Mosca rappresenta per gli USA la più grande minaccia geopolitica pare così essere un miscuglio di inesperienza e voglia di esagerare per sfondare a destra, che non segnala lo sfidante presidenziale per la sua competenza in politica internazionale, inoltre la mancanza evidente di cautela si evidenzia come una caratteristica molto pericolosa per un individuo che intende guidare la nazione più importante del mondo.

Cuba verso il modello cinese

Per uscire dalla gave crisi economica, che sta condizionando materialmente la vita del paese, il presidente cubano Raul Castro ha iniziato una visita in Cina, per capire la trasformazione della nazione in colosso economico, mantenendo un ordinamento nominalmente comunista. Il motivo ufficiale della visita è costituito dalla firma di accordi commerciali tra l'Avana e Pechino, tesi a rilanciare l'economia cubana. La Cina, dopo il Venezuela rappresenta il secondo partner commerciale di Cuba, ed intende intensificare i rapporti, anche per la posizione strategica di Cuba e per il basso costo del lavoro. Significativa a questo proposito l'apertura di linee di credito capaci di creare investimenti infrastrutturali capaci di richiamare la presenza di imprese straniere. Per l'Avana è importante anche rompere l'embargo internazionale provocato dal blocco imposto dagli USA, che ha di fatto affossato la già gracile economia cubana. Tuttavia, aldilà dell'importanza degli accordi commerciali e delle basi gettate per creare i presupposti per una industrializzazione del paese, il rilievo più importante della visita a Pechino del presidente cubano è costituito dalla volontà di comprendere il modello cinese per applicarlo nel proprio paese. La trasformazione in economia di mercato, pur nella rigidità di un sistema politico tutt'altro che democratico, tanto da non prevedere la pluralità dei partiti ed anche il mancato riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, della Cina pare una strada adeguata ai dirigenti de l'Avana da seguire per l'evoluzione del paese cubano, ormai consapevole di dovere dare una svolta ad una struttura produttiva insufficiente per uscire dalla miseria in cui è sprofondato il paese. Il punto di partenza è stato probabilmente individuato nella fase che la Cina ha attraversato negli anni 80 e 90 del secolo scorso, quando ha avviato una privatizzazione graduale di vecchie industrie statali in un contesto protetto da fenomeni inflattivi giunto alla garanzia di un mercato stabile, anche per il ferreo controllo del partito unico al potere, che ha potuto impedire i problemi tipici presenti in una forma di governo democratica, quale rivendicazioni sindacali o di altri gruppi di pressione. Il basso costo del lavoro, analogia che Cuba può garantire da subito, è stato il volano iniziale dello sviluppo cinese, sopratutto mantenuto e garantito per le imprese dalla rigidità dei salari non gravati da forme di contrattazione e quindi imposti dall'alto. Un doppio ossimoro sia per il comunismo, a cui si rifaceva e si rifa il regime cinese, che per lo stesso capitalismo che aveva trovato in Cina il terreno maggiormente favorevole nel corso della storia. In sostanza la Cina si è sviluppata in un capitalismo senza controllo proprio grazie ad una politica che non ammetteva dissenso. Ciò ha permesso, pur in assenza di diritti democratici l'uscita dalla povertà di una grande massa di persone, ma ha anche creato profonde differenze sociali, capaci creare forti tensioni in una società in grande evoluzione. La situazione di Cuba attuale presenta numerose analogie con la situazione di partenza della Cina verso lo sviluppo, un partito unico capace di un controllo capillare sulla società del paese ed in grado di imporre soluzioni anche pesanti dal punto di vista lavorativo, un tessuto sociale sull'orlo della miseria, che può garantire una mano d'opera a basso costo ma insieme desideroso di affacciarsi al consumo generalizzato e così capace di alimentare anche un mercato interno, che può essere rilanciato proprio grazie all'ingresso di soggetti stranieri, invogliati da una situazione garantita dall'assenza di forme di opposizione e quindi dalla certezza di avere di fronte un interlocutore unico per le trattative. Se per Cuba la strada verso questo modello sembra così avviata, occorre rilevare la pericolosità della diffusione nel mondo del sistema cinese in quel mondo che si definiva comunista, come succede anche in Vietnam, che infatti sarà la prossima tappa della visita di Raul Castro. E' un tipo di sviluppo che si concreta in assenza totale di regole e tutele per i lavoratori, spesso sottoposti sia ad orari massacranti che esposti ad ogni tipo di rischio per la propria salute. Certo all'inizio garantisce una via d'uscita dalla miseria, ma questo non può giustificare i soprusi e gli abusi subiti per riscuotere un misero salario. L'occidente dovrebbe fare maggiore pressione affinchè la tutela di questi lavoratori compia una sostanziale evoluzione, non solo per considerazioni morali, ma anche economiche: il minor costo del lavoro e le minori garanzie costituiscono una forma di concorrenza sleale che impoverisce il tessuto industriale dei paesi più ricchi, che sono già stati colpiti da delocalizzazioni selvagge e che hanno impoverito il tessuto sociale. Avviare un dibattito nelle sede internazionali per elaborare forme minime di tutela universale per i lavoratori è ormai diventato improcrastinabile.

giovedì 5 luglio 2012

Le milizie problema della Libia alla vigilia delle elezioni

La Libia del dopo Gheddafi, resta uno stato che non è in grado di assicurare i diritti civili. Da questa motivazione parte la richiesta di Amnesty International ai politici in lizza per le prossime elezioni, le prime dopo quaranta anni di dittatura, di dare precedenza alla costruzione di uno stato in grado di rispettare i diritti umani, fondato sul diritto. La situazione nel paese mediterraneo sarebbe contraddistinta da continue violazioni dei diritti umani, grazie alla presenza di arresti arbitrari e tortura. Non è un buon biglietto di presentazione per il rinnovato stato libico, dove non è stato sconfitto il fenomeno delle bande armate, che continuano a porsi al di fuori della legge, rifiutando la consegna delle armi e l'arruolamento in strutture dello stato. Quello delle milizie armate è un problema che si è posto ancora prima della caduta di Gheddafi, espressione militare delle tribù, le formazioni paramilitari, costituiscono uno stato nello stato, anzi tanti stati nello stato, gestendo intere porzioni di territorio dove dominano incontrastate in virtù della grande conoscenza geografica e dell'appoggio della popolazione. Tuttavia spesso sono protagoniste di eccessi talmente gravi, che sono capaci di alterare l'immagine che il governo centrale cerca faticosamente di costruirsi. D'altronde era risaputo che lo stato libico era una nazione artificiale, senza un retroterra culturale comune, che non si è creato neppure dopo l'eliminazione della dittatura di Gheddafi. La Libia stava insieme soltanto perchè era governata dal pugno di ferro del dittatore, abile a distribuire parte delle ingenti ricchezze alle tribù più fedeli. Ma ciò non ha creato una coscienza statale comune, anzi una delle strategie del Rais era proprio quella di alimentare le divisioni tribali, per volgerle a proprio vantaggio. Uno degli errori occidentali è stato quello di lasciare il paese a se stesso dopo l'eliminazione fisica di Gheddafi, senza aprire una conferenza, tra tutte le forze della ribellione, capace di valutare e trovare una soluzione, anche dividendo il paese, capace di assicurare da subito stabilità. Gli sforzi di tenere insieme il paese, grazie agli sforzi di una parte delle forze che hanno rovesciato il regime, non paiono così avere sortito un effetto apprezzabile e ciò non fa guardare positivamente alle prossime elezioni. Anche senza l'investitura ufficiale il governo di transizione avrebbe dovuto avere già saldamente in mano la situazione, ma così non è stato e la minaccia delle bande armate grava pesantemente sul processo democratico libico. Una ulteriore particolarità che non ha segnato una rottura con il regime è costituita dall'ingiusta ed ingiustificata detenzione dei migranti che arrivano sul territorio libico per attraversare il Mediterraneo e giungere in Europa. C'è il sospetto che questa sia una bomba a tempo da puntare sulle nazioni della sponda settentrionale del mare mediterraneo, per costringerli a forme di aiuto concordate: una pratica già messa in atto con successo dal Colonnello.