Politica Internazionale

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lunedì 3 settembre 2012

Aspettando la convention democratica

Dopo la convention repubblicana tocca al partito detentore della carica di Presidente degli Stati Uniti riunirsi per lanciare la volata elettorale al loro candidato. Ma questa volta per il partito democratico il percorso non sarà agevole come quattro anni fa. Allora finiva il doppio mandato di Bush junior, che aveva suscitato diversi contrasti nel paese, sopratutto per l'applicazione della dottrina dell'esportazione della democrazia tramite le armi, che tanto aveva fatto discutere e tante vittime aveva mietuto tra i soldati americani. Inoltre una situazione economica poco favorevole favoriva lo sfidante del candidato repubblicano perchè prometteva un cambio di rotta, impossibile con una conferma di un uomo dello stesso partito di Bush. Quattro anni dopo Obama si ripresenta agli elettori con due milioni di posti di lavoro in meno, in assoluto è un pessimo risultato ma quale sarebbe stato lo stesso valore con un repubblicano al comando? Tuttavia questa ultima considerazione non basta a preservare Obama da una valutazione critica sui suoi risultati e, sopratutto, non gli permette di fare quelle promesse che poteva permettersi di fare, presentandosi come unanovità nel panorama politico americano. Quindi l'effetto sorpresa non rientra più nelle opzioni a sua disposizione. Il problema del lavoro è centrale ormai in tutto il mondo ed è sentito con particolare intensità nella terra delle opportunità. Insieme ai disoccupati vi è anche il problema dei sotto occupati, per lo più giovani, che, pur arrivando sul mercato dellavoro con titoli accademici, si devono accontentare di lavori part time ed al fuori dal loro ambito; se in Europa ormai vi è una abitudine che rasenta la rassegnazione a questo stato di cose, negli Stati Uniti questa situazione viene vissuta male, anche in relazione all'investimento non più produttivo per la spesa nell'educazione da parte delle famiglie, ciò mette in crisi il consueto modello di sviluppo americano basato sulle opportunità che il paese consentiva, a chi aveva le carte in regola, di salire l'ascensore sociale. Alla fine chi entra nella cabina elettorale valuta chi ha fatto bene per se e la propria famiglia, non tenendo conto dello stato generale di crisi della finanza e dell'economia o della difficoltà a governare per l'ostruzionismo di un parlamento di segno opposto. Su questo tema sono state mosse, talvolta giustamente, alcune critiche ad Obama per non avere messo troppo impegno per migliorare i suoi rapporti con i repubblicani, che hanno sovente provocato reazioni tali da sfiorare la paralisi istituzionale. E' certamente difficile in un sistema politico così polarizzato, dove l'uno ha una visione dell'altro praticamente manichea, cercare di collaborare fattivamente, anche in ragione di obiettivi spesso opposti da raggiungere. Ma l'atteggiamento di Obama è stato spesso troppo piccato e scostante, anche quando poteva sfruttare provvedimenti da lui emanati che sono stati, senza dubbio graditi dai repubblicani. Un esempio è il salvataggio di Wall Street, azione dovuta per preservare l'economia americana, ma risultata particolarmente odiosa alle ali estreme dei due partiti americani. La ribellione del movimento del Tea Party, contro i vertici del partito repubblicano, dovuta in parte anche a questo salvataggio, poteva essere sfruttata in maniera tale da consentire un dialogo maggiore su temi comuni, che poteva costituire una base di partenza per una maggiore collaborazione nelle sedi istituzionali, giustificandola con lo stato di emergenza economica del pianeta.
Tutte queste considerazioni portano ad un inevitabile cambio di strategia per cercare i voti degli americani: non più l'uomo nuovo che fonda la sua azione sul cambiamento, ma quello che tutela i più deboli: le donne, gli anziani, gli ispanici, i poveri, che, con una elezione di Romney, vedrebbero tagliate le loro opportunità di accedere alla sanità ed ai diritti più comuni. Ciò non rappresenta poco ma è anche il meno peggio. Obama è costretto dalla situazione americana, che per molti versi non è riuscito a migliorare non per sua responsabilità, a giocare una partita quasi in difesa, presentando i danni che una elezione di Romney può fare, anzichè optare per delle propopste che non può mantenere. In realtà ciò è tutt'altro che perdente e dimostra una certa onestà intellettuale del candidato democratico, ma, insieme, soffoca il sogno americano e quello in cui tanti, ingenuamente, fanno affidamento: proposte, anche non realizzabili, ma capaci di alimentarne lo spirito. E', alla fine, questo il vero nemico di Obama, più che Romney, che è un candidato mediocre e privo di spessore, il rimanere troppo sulla difensiva e non elaborare un progetto, come era stata la diffusione dell'assistenza sanitaria quattro anni fa, capace di catalizzare l'attenzione e l'entusiasmo dell'elettorato.


giovedì 30 agosto 2012

Le relazioni del Presidente egiziano e del Segretario dell'ONU al vertice dei non allineati

Due interventi molto rilevanti al vertice dei paesi non allineati: quello del presidente egiziano Morsi e quello del Segretario dell'ONU Ban Ki-moon. Morsi, il primo presidente egiziano eletto democraticamente, proprio in virtù di una rivolta popolare come quella che sta accedendo in Siria, ha condannato Damasco, in quanto regime oppressivo e non democratico, provocando l'uscita dalla sala della delegazione siriana. Quello di Morsi è un atto dovuto verso una rivoluzione popolare, che lui stesso ha definito come prosecuzione della primavera araba, partita dalla Tunisia, approdata in Egitto, Libia e Yemen. Data la sua provenienza era scontato che il pensiero di Morsi si attestasse su queste convinzioni, meno scontato è stato proclamarlo in casa degli iraniani, principali alleati di Assad. La mossa di Morsi, che arriva quindi all'improvviso, tenuto anche conto che i due paesi, Egitto ed Iran, hanno riallacciato i rapporti diplomatici, proprio nell'occasione del vertice dei non allineati dopo una lunga interruzione, pone il capo di stato egiziano in una luce del tutto nuova, che lo fa assurgere a statista di primo piano ed affermando, conseguentemente che l'importanza della nazione egiziana, sopratutto nell'ambito regionale, è tutt'altro che diminuita e sopratutto non è appiattita su posizioni accondiscendenti. Malgrado la provenienza da un partito confessionale, Morsi ha posto al centro della sua azione di politica internazionale, il riconoscimento del valore democratico come punto centrale di riferimento per i rapporti con gli altri stati. Anzi, il discorso contro l'oppressione siriana, mette in evidenza come questo valore sia discriminante per ottenere un suo giudizio positivo. La convinzione non è frutto di un calcolo politico, vuole dire semmai come l'Egitto intenda cavalcare un ruolo da protagonista senza essere subalterno ad alcuno. Certamente sarà un paese che gli Stati Uniti controlleranno meno che con Mubarak al comando, tuttavia il discorso di fronte alla platea dei non allineati può rappresentare una attenuazione delle paure da parte di chi temeva, dal risultato delle urne egiziane, un assetto particolarmente condizionato dalla religione. D'altra parte Morsi, pur non negando mai la sua provenienza, ha sempre affermato che può esistere un islam moderato capace di percorrere una propria via democratica nel rispetto dei valori civili, dai quali comunque è partita la rivoluzione che ha rovesciato il vecchio regime. Questa affermazione, vista con sospetto da diversi osservatori, pare, invece diventare sempre più reale, il problema è che non esistevano termini di paragone validi cui accostare la nuova esperienza egiziana. Per importanza storica, vastità del territorio e numero della popolazione, l'Egitto rappresenta un caso molto probante di questo indirizzo che pare avviato a percorrere. Un primo riconoscimento all'importanza del paese egiziano è l'inserimento nel comitato quadripartito, assieme ad Arabia Saudita, Iran e Turchia, che dovrà cercare una soluzione alla crisi siriana. Sarà interessante vedere gli sviluppi dei rapporti tra le delegazioni saudita ed iraniana, divise da rivalità profonde. Ma e il discorso di Morsi ha rappresentato una tappa importante per l'evoluzione della politica estera nella regione, non da meno è stato l'intervento del segretario delle nazioni Unite. Ban Ki-moon non ha esitato a riprendere i padroni di casa, gli iraniani, per la questione nucleare, che rischia di fare deflagrare un conflitto con esiti difficilmente prevedibili. La mancata cooperazione di Teheran con gli ispettori dell'AIEA, ha minato la fiducia internazionale verso gli scopi realmente percorsi dagli iraniani, fiducia che Teheran deve assolutamente riconquistare per evitare minacce alla pace mondiale. Ban Ki-moon non ha tralasciato la questione della rivalità con Israele, più volte provocato verbalmente da Ahmadinejad, affermando che è intollerabile negare il diritto all'esistenza della nazione israeliana, insieme alla negazione di un fatto storico acclarato, come l'Olocausto. Se gli iraniani speravano di girare a proprio vantaggio l'organizzazione di un vertice così importante, devono rivedere le proprie convinzioni, dato che hanno ottenuto di essere ripresi pubblicamente sul loro territorio, su argomenti che erano il proprio cavallo di battaglia. Se Teheran sperava di essere meno isolata grazie alla presenza di capi di stato e delegati dei paesi non allineati, dopo gli interventi di Morsi e Ban Ki-moon ne esce, al contrario, tutt'altro che rinforzata e più sola sul palcoscenico internazionale. Resta da vedere se questi fatti determinino un cambiamento di rotta da parte del governo iraniano.

mercoledì 29 agosto 2012

Assad definisce il conflitto siriano come guerra internazionale

La recente intervista, che il Presidente siriano Assad ha rilasciato alla televisione Al Dunia, conferma che le intenzioni di Damasco non sono affatto quelle di cercare la pace. Del resto la situazione è ormai talmente compromessa, che una soluzione condivisa tra i contendenti appare impossibile, troppi morti e troppe stragi costituiscono un ostacolo insormontabile. Assad definisce la guerra in corso nel suo paese come un conflitto sia regionale che internazionale. Ciò è vero soltanto in parte, giacchè l'affermazione trascura i motivi di politica interna che hanno mosso la ribellione: uno stato fortemente autoritario, senza libertà democratiche, governato da una dinastia che ha sempre risolto i dissidi soffocandoli con il sangue. Tuttavia su queste ragioni si sono innestate motivazioni di ordine internazionale che sarebbe miope non vedere. La posizione strategica del paese, infatti, sta essenzialmente dietro il forte interesse, sia delle potenze occidentali, sia della Russia, che dell'Iran. Il controllo del paese permette un vantaggio strategico essenziale in ottica Israele, potendo esercitare pressioni sul principale alleato americano, condizionando così l'intera politica regionale. Ma anche dal punto di vista religioso, risulta determinante per il continuo confronto tra sciti e sunniti, con questi ultimi impegnati a limitare la crescente voglia di potenza del principale paese scita: l'Iran. Per quest'ultimo, poi, le ragioni sono duplici: sia di politica estera e militare, per mantenere l'unico alleato vicino di una certa importanza, sia religiose perchè permette di mantenere l'avamposto contro l'Arabia Saudita principale nemico religioso. Infine la Russia ha l'unica base navale propria nel Mediterraneo, struttura che difficilmente un nuovo governo potrebbe concedere di mantenere, sia per la storica alleanza con Assad, sia per l'ostruzionismo praticato nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Assad, quindi ha parzialmente ragione, ma dice comunque una affermazione veritiera: il territorio siriano interessa ad altre potenze, che pur non avendo intenzione di esercitare un potere diretto nel paese, vedrebbero di buon occhio un cambio al vertice che comprendesse anche un cambio di indirizzo in politica estera o, al contrario, accentuassero quello attuale. Nell'immediato il presidente siriano individua tre paesi stranieri che sosterrebbero direttamente i ribelli: Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Tutti e tre sono però alleati degli Stati Uniti è quindi facile comprendere a chi sia diretta l'accusa proveniente da Damasco, nonostante che Washington abbia, fino ad ora, tenuto un atteggiamento di basso profilo, pur condannando costantemente il regime di Damasco. Assad è convinto della vittoria finale, per la quale però, è necessario maggiore tempo. Questa ammissione manifesta l'incertezza del regime di fronte all'esito finale, sebbene la situazione attuale sia di sostanziale stallo, anche un piccolo intervento esterno a favore dei ribelli potrebbe fare volgere a loro vantaggio il destino della guerra, proprio per questo è essenziale per Assad ristabilire al più presto l'ordine costituito per eliminare la resistenza ed eliminare materialmente i possibili destinatari degli aiuti. Senza una forza autoctona impegnata sul terreno, ogni determinazione diverrebbe inutile. Per fare ciò Assad ha un solo modo: intensificare le violenze e le azioni militari con mezzi convenzionali e no; ma un eventuale uso di armi chimiche farebbe scattare in automatico la rappresaglia occidentale, come più volte minacciato. Restano le armi convenzionali, di cui l'esercito ha una grande disponibilità e la cui intensificazione dell'uso potrebbe essere limitata solo da incursioni aeree. Si ritorna così daccapo: o l'ONU riesce a trovare una risoluzione che passi il Consiglio di sicurezza o si adotta una soluzione analoga la caso libico, praticata cioè soltanto da alcuni paesi, non vi sono altre soluzioni, dato che la via diplomatica è fallita più volte.

martedì 28 agosto 2012

Francia: la politica estera di Hollande

L'incontro avvenuto durante la conferenza degli ambasciatori, è stata per il Presidente francese, François Hollande, l'occasione di fare il punto della situazione sulla politica estera francese. Accusato da più parti, ma sopratutto da destra, di praticare una politica estera caratterizzata da un atteggiamento poco deciso ed immobile, che risulterebbe deleterio per il ruolo francese sulla scena internazionale sempre più dominato dai paesi emergenti, Hollande ha opposto la propria tattica, che pur parendo attendista è ,invece, imperniata sul dialogo e sull'azione politica come preminente sull'azione militare, che aveva contraddistinto l'ultimo periodo del mandato del predecessore Sarkozy, come soluzione vincente. Questo non vuole dire scartare a priori un potenziale intervento armato in un contesto di necessità, per Hollande l'eventualità è praticabile soltanto se inquadrata in una iniziativa sotto l'egida dell'ONU. In realtà la Francia, al pari dei propri alleati occidentali, sta già operando dietro le linee del conflitto siriano con azioni di intelligence e sostegno, ufficialmente non armato, alle forze contrarie ad Assad, ma si tratta di operazioni limitate che niente hanno a che vedere con quanto accaduto in Libia. La convinzione francese sulla Siria è che il rapporto della nazione con Assad sia ormai irrecuperabile e l'unica soluzione sia un governo di transizione che traghetti il paese verso elezioni democratiche, ma per arrivare a questa soluzione occorre convincere Cina e Russia che mantengono posizioni di estrema rigidità sulla questione. E' proprio questa situazione dove si potrà vedere l'efficacia e la capacità di convinzione dei diplomatici francesi, su cui tanto punta il presidente Hollande. L'impresa, in effetti è quasi disperata, l'immobilità di Mosca e Pechino appare difficilmente sormontabile, ed in queste condizioni sperare in una decisione dell'ONU, che possa aprire ad un intervento in Siria, è fortemente improbabile. Proprio a causa di questa consapevolezza Hollande potrebbe convincersi, come più volte sollecitato da diversi paesi, primo fra tutti la Germania, di una riforma radicale dell'ONU, che permetta di superare il problema del veto del Consiglio di sicurezza, aspetto fortemente negativo causa del blocco di quasi tutte le decisioni rilevanti, che potrebbero essere prese dalle Nazioni Unite. Una delle sfide internazionali più importanti e senz'altro più vitali per la Francia, individuata del presidente francese, è costituita dal problema europeo. La necessità di preservare la moneta unica va di pari passo con il rafforzamento delle istituzioni europee, che deve essere alimentato con continui vertici tra i governanti della UE, per favorire lo scambio di idee e soluzioni ed aprire a forme istituzionalizzate comuni che sappiano elaborare una politica europea valida per tutti i paesi membri. Hollande ha evidenziato anche, come sia necessario, nel quadro attuale fortemente instabile, arrivare ad un accordo mondiale sulla non proliferazione nucleare, indispensabile per preservare la pace mondiale, pensieri ovvii nel momento storico in corso, dove la possibilità di una guerra tra Iran ed Israele è ormai una minaccia costante. Nella recente campagna elettorale la politica estera è stato uno dei temi più trascurati dal candidato socialista, poi diventato presidente, per avere privilegiato i problemi interni legati all'economia ed alla sicurezza. Questa mancanza è stata fonte di critica, quasi scontata, in un paese dove si respira ancora l'aria della "grandeur" ed anche le prime azioni di politica estera del nuovo presidente, non hanno elevato il paese a quel ruolo di protagonista, che parte dell'opinione pubblica, ma maggiormente schierata con Sarkozy, si attendeva. Certo l'approccio è completamente differente, ma non meno pratico. Il rifiuto di operazioni militari condotte in maniera singola o con un numero ristretto di stati partecipanti, poteva generare sospetti di neocolonialismo, che Hollande rifiuta completamente, la sua concezione di agire nell'ambito del diritto internazionale e sopratutto sotto la tutela dell'ONU, rispecchia una visione della politica estera, maggiormente integrata con altri soggetti, come la tendenza globalizzatrice impone. Del resto pur proclamandosi una grande potenza la Francia non è più tale proprio per i nuovi soggetti che hanno preso il ruolo di protagonista sulla scena internazionale in forza di una maggiore ricchezza economica. L'attuale ruolo francese, seppure ridimensionato, resta di grande importanza anche se inquadrato ad un livello forse inferiore, che si potrebbe definire come potenza medio grande. Questa dimensione comporta certamente una minore autonomia e la necessità di coordinarsi con altre potenze analoghe o inferiori, sempre del campo occidentale, ma impone di seguire con ancora maggiore facilità gli steccati del diritto internazionale e del rispetto di regole comuni. Sarkozy non seguiva questa linea, perchè puntava sul successo internazionale come mezzo per l'affermazione nazionale, anche se doveva pagare un costo molto alto sia dal punto di vista economico, che delle relazioni internazionali. Hollande, sia per formazione personale, che per provenienza politica, ha saputo sfruttare la minore propensione ai successi internazionali da parte dell'opinione pubblica in favore di una maggiore concentrazione sugli aspetti interni e, quindi, la soluzione di limitare l'azione diplomatica con il motivo di seguire il diritto internazionale rappresenta, oltre che un buon motivo, anche una vera e propria strategia per sganciarsi con eleganza da operazioni non gradite e, forse, non condivise.

lunedì 27 agosto 2012

Gaza verso una povertà ancora maggiore

Un rapporto dell'ONU, avverte che la situazione, già difficile, della striscia di Gaza è destinata a diventare esplosiva, per quanto riguarda le condizioni economiche ed igieniche, nel prossimo futuro, andando ad innescare sia una bomba umanitaria, che rafforzare i duri motivi di contrasto con lo stato israeliano. La stima si basa sulle previsioni della crescita della popolazione, destinata ad aumentare di mezzo milione di abitanti entro il 2020, senza che vi sarà una crescita economica altrettanto consistente ed in grado di assicurare condizioni di vita adeguate. Quello che preoccupa maggiormente è la scarsità di infrastrutture che non consentono un accesso diffuso ai servizi elettrici, all'acqua potabile ed all'istruzione. Sono presupposti che non possono fare scattare segnali di allarme, perchè relegano una popolazione già sacrificata verso scarsità di igiene ed ignoranza, condannandola ad una continua regressione che nega una qualsiasi possibilità di miglioramento. La necessità di aumentare le scuole, i posti letto negli ospedali e lo stesso personale medico, potrebbe diventare una causa scatenante di ribellioni ed atti di terrorismo, andando ad incrementare l'avversione per Israele, individuato come il primo responsabile di questo degrado, sia dalla popolazione, che dai paesi arabi, nei quali sono in atto sovvertimenti dei regimi politici che garantivano a Tel Aviv una relativa sicurezza alle sue frontiere. Nonostante, infatti, l'esercito egiziano sia responsabile della chiusura di un gran numero di tunnel che attraversano la frontiera e che permettevano ai palestinesi di Gaza, di recarsi al lavoro in Egitto, impiegati sopratutto nel settore edile, il sentimento popolare maggioritario in Egitto è sempre più contrario ad Israele, che vede come uno stato oppressore di un popolo che sta di diritto tra gli arabi. La mancata soluzione che la costituzione dello stato palestinese, poteva rappresentare, per permettere una effettiva distensione verso Israele è destinata a pesare in modo preponderante nello sviluppo dei nuovi governi dei paesi usciti dalla primavera araba. Il biglietto da visita di una parte di palestinesi tenuta in situazione di emergenza continua a causa dei blocchi imposti dall'esercito israeliano, sarà per Tel Aviv un argomento centrale con cui dovrà confrontarsi se vorrà avere rapporti diplomatici con diversi paesi arabi. Senza una soluzione positiva della questione, l'isolamento di Israele si farà sempre più marcato e, con esso, la crescente avversione delle popolazione arabe, che non potrà non influenzare l'operato dei propri governi. Ma gli stessi palestinesi devono superare i loro contrasti interni, per procedere di pari passo verso la costruzione dello stato palestinese, che rappresenta l'unica alternativa allo stato di miseria di gran parte della popolazione. Senza che Hamas e l'OLP riescano a trovare una intesa comune e sopratutto duratura, la profonda divisione in atto favorisce soltanto Israele, che ha tutto l'interesse a tenere divise le due anime politiche della Palestina, viceversa un visione univoca dei due movimenti, focalizzata sulla costruzione dello stato, come esigenza fondamentale del popolo palestinese, da cui fare discendere tutte le altre questioni, non può che obbligare Tel Aviv a riconsiderare le proprie posizioni, anche perchè le questioni contingenti dello stato israeliano potrebbero costringerlo alla ricerca, su questo fronte, di una soluzione rapida, come caldeggiato da più parti, tra cui, nonostante gli atteggiamenti ondivaghi, gli Stati Uniti, per permettere la concentrazione esclusiva sulla questione iraniana.

venerdì 24 agosto 2012

AIEA - Iran: incontro con poche prospettive

Malgrado la scadenza dell'incontro tra i rappresentanti dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica e l'Iran sia arrivata, dando così luogo ai colloqui bilaterali, che dovrebbero portare ad un accordo per maggiore livello di accesso ai siti di arricchimento dell'uranio presenti nel paese, le aspettative per una soluzione positiva sono molto ridotte. Già nel mese di Maggio doveva essere firmato un protocollo d'intesa tra le parti, tentativo fallito per la mancata intesa tra le parti. Le intenzioni dell'agenzia sarebbero quelle di raggiungere un accordo che consentisse uno sviluppo della questione il più vasto possibile, per risolvere tutte le questioni in sospeso e dare finalmente una soluzione definitiva della trattativa, ma proprio queste ambizioni così estese inducono molte riserve sulla riuscita dei colloqui, tra gli stessi ispettori dell'AIEA. I rappresentanti iraniani, viceversa, ostentano sempre ottimismo, dichiarando di aspettarsi nuovi progressi dall'incontro. L'atteggiamento iraniano non si discosta da quello tenuto nei precedenti incontri: molta disponibilità a parole, ben poca nei fatti. Mentre la tattica ostruzionista continua, permettendo di guadagnare tempo, probabilmente la ricerca iraniana va avanti, come paventato dall'occidente e sopratutto da Israele, che teme fortemente che Teheran raggiunga il così detto punto di non ritorno, oltre il quale, la conoscenza acquisita dagli iraniani sarebbe tale da permettere la costruzione dell'ordigno atomico e renderebbe inutile l'attacco armato preventivo programmato da Tel Aviv. L'AIEA arriva all'incontro con Teheran alla vigilia della pubblicazione del rapporto trimestrale sull'Iran e ciò potrebbe rappresentare un ulteriore elemento a sostegno delle tesi israeliane se il paese iraniano continuasse a vietare l'accesso ai siti sospetti. Se poi venisse inserito nel rapporto, come richiesto da diversi diplomatici occidentali, che il paese iraniano ha installato nuove centrifughe, che permettono l'arricchimento dell'uranio, per Obama sarebbe ancora più difficile riuscire a contenere la volontà di Israele di procedere con le armi. La responsabilità, che grava sul rapporto che stilerà l'AIEA, è quindi molto pesante, sopratutto se sarà evidenziato che l'Iran continua a progredire nelle sue attività nucleari nonostante le sanzioni internazionali a cui è soggetto. In sostanza significherebbe che la tattica di Obama, nonostante i buoni propositi di partenza, non avrebbe portato risultati e sarebbe stata sostanzialmente un fallimento. Ciò sarebbe quasi una certificazione, seppure non certo volontaria, per dare il via alle bellicose intenzioni di Israele. Forse non tutti si rendono conto che ci stiamo avvicinando ad un punto di non ritorno di una situazione già in bilico da tempo e che altre situazioni contingenti non fanno che aggravare. Sia la crisi siriana, che le imminenti elezioni americane potrebbero, infatti provocare la decisione singola ed autonoma da parte di Israele di dare il via all'attacco aereo tanto temuto, in quel caso, malaugurato, gli USA non potrebbero lasciare solo il loro maggiore alleato, scatenando una guerra i cui costi, sia umani, che economici, diretti ed indiretti, sono praticamente impossibili da preventivare. Resta incomprensibile l'atteggiamento iraniano, che pur continuando a proclamare di stare effettuando una ricerca per scopi pacifici, non collabora, lasciando vietati gli accessi ai siti incriminati. Se la bravura politica di Ahmadinejad è sempre stata quella di sapere arrivare un attimo prima del punto di rottura, sopratutto in situazioni delicate, peraltro da lui stesso provocate, questa volta un rapporto dell'AIEA scritto con toni negativi potrebbe rendere vane le attitudini del presidente iraniano e causare al paese, e non solo ad esso, conseguenze non immaginabili.






Il Pakistan vuole espellere i rifugiati afghani

In Pakistan la presenza dei rifugiati afghani ammonta a circa 1.700.000 persone registrate ufficialmente, più un milione di clandestini, secondo le stime delle organizzazioni internazionali. La condizione di queste persone, sfuggite al conflitto presente nella propria nazione, che sta continuando oltre il previsto, è al limite; essi sono ospitati, per lo più, in case di fortuna, confinate in zone senza le più elementari infrastrutture. Eppure nel paese pachistano sta montando un crescente malessere verso questi immigrati, con sfumature sempre più accentuate di xenofobia. Se è vero che alcuni fanno parte di gruppi terroristici o si occupano del traffico di droga, attraverso le montagne al confine tra i due stati, la maggioranza è composta da una massa di disperati, che accettano di vivere in una condizione di miseria molto dura per sfuggire alle violenze del proprio paese. Lo stesso governo di Islamabad ha già minacciato diverse volte l'espulsione dei cittadini afghani rifugiati sul proprio territorio, adducendo a misure di sicurezza per i propri cittadini. In realtà la minaccia rappresenta uno strumento di pressione politica su Kabul, che sta andando verso una alleanza sempre più salda con l'India, il nemico principale del Pachistan. Si tratta dell'evoluzione della lotta commerciale nella regione, in corso tra Cina ed India, con Pechino, che ha stipulato accordi molto stretti con il Pachistan e Nuova Delhi che ha bilanciato la presenza cinese attraverso accordi con l'Afghanistan. Nei programmi pachistani, in realtà, vi erano tutte le intenzioni per portare Kabul sotto la propria sfera di influenza o, almeno, evitare che uno dei partner principali fosse l'India per non correre il rischio di avere il principale avversario anche su di un altro lato della frontiera. Tra l'altro gli accordi tra India e Pachistan prevedono sia forniture militari, che addestramento alle forze regolari di Kabul, con la conseguente presenza di militari indiani praticamente al confine con il Pachistan.
Occorre anche ricordare che i rapporti tra Afghanistan e Pachistan, sono già deteriorati da parecchio tempo, a causa delle accuse del governo di Karzai a quello di Islamabad, di ospitare, tollerandole, sui propri territori, basi talebane, da cui partirebbero gli attacchi verso le forze regolari e gli alleati della NATO. Peraltro questa accusa è sostanzialmente veritiera per essere stata verificata dalle truppe americane ed è stata sostenuta anche dal governo Obama in più di una occasione, tanto da non ritenere più il Pachistan un alleato affidabile, come più volte riscontrato nelle azioni militari USA, dove l'esempio più eclatante è stata l'uccisione di Bin Laden, avvenuta, senza prendere accordi ne essere stata preceduta da un avvertimento formale, sul territorio di Islamabad. Per contro il Pachistan accusa l'Afghanistan di ospitare sul proprio territorio talebani pachistani che andrebbero a compiere attacchi contro la madrepatria, proprio partendo dalle base afghane. Risulta difficile credere che questa eventualità possa essere possibile con la presenza costante di truppe americane, in costante pattugliamento sul territorio di Kabul. Malgrado le minacce di espulsione, gli osservatori internazionali, ritengono poco verosimile, che l'eventualità sia messa in atto dal Pachistan, principalmente per limiti tecnici oggettivi, si tratterebbe, infatti, sommando la cifra degli immigrati regolari con quelli clandestini, di espellere circa 7.400 persone al giorno per un anno. Peraltro l'Afghanistan non possiede la capacità di assorbire un tale numero di persone, che rappresenta, comunque, il 10% del totale della sua popolazione. In ogni caso se non si dovesse arrivare ad un accordo, anche attraverso l'ONU o le sue agenzie, si rischia di sfiorare la tragedia umanitaria, perchè questa massa di persone rappresenta comunque uno strumento di pressione sul quale può abbattersi qualunque decisione capace di aggravarne le già precarie condizioni.