Politica Internazionale

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giovedì 4 ottobre 2012

La Turchia coinvolge la NATO sulla Siria

L'attacco siriano contro il territorio turco, che ha causato la morte di cinque civili, ha provocato la decisione della NATO di esprimere formalmente il proprio sostegno alla Turchia, che come paese membro dell'Alleanza Atlantica in situazione di pericolo può avvalersi dell'appoggio militare dell'organizzazione con sede a Bruxelles. La decisione potrebbe costituire la giustificazione dell'intervento sul territorio siriano, tanto invocata dai ribelli, da parte di forze straniere, eludendo il veto del Consiglio di sicurezza dell'ONU, esercitato rigidamente da Cina e Russia. Gli ambasciatori dei 28 paesi che aderiscono alla NATO, in riunione di emergenza, hanno affermato in maniera univoca, che Damasco sta esercitando chiare violazioni del diritto internazionale nei confronti di un loro alleato. Tale dichiarazione potrebbe costituire il preludio a forme di intervento attive nei confronti della Siria. I piani militari delle armate di Assad, nei confronti del vicino turco, rientrano nella volontà di fermare il flusso dei profughi che fuggono oltre frontiera ed al contempo contrastare le basi dei ribelli presenti sul territorio turco. Gli episodi conflittuali tra i due stati, da quando è cominciata la guerra civile siriana, non sono infrequenti, prima dell'ultimo episodio, il caso più rilevante era stato l'abbattimento di un aereo militare turco da parte della contraerea di Damasco. Ma questa volta la risposta all'atto ostile siriano non è stata soltanto diplomatica, infatti l'esercito turco ha bombardato il territorio della Siria, in risposta al razzo caduto entro i propri confini. Appellandosi all'articolo numero cinque del Trattato Nord Atlantico, che prevede la difesa collettiva contro un attacco a uno dei suoi membri, la Turchia costringe la NATO, finora in una posizione di secondo piano nella vicenda siriana, ad esporsi in maniera definita. Per gli USA questo fatto potrebbe essere l'opportunità per intervenire per porre fine ai massacri, azione che sarebbe da tempo nelle intenzioni di Washington, da percorrere però, non come una iniziativa singola degli Stati Uniti, ma di concerto con altre potenze e meglio se con l'approvazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, stante il perdurare dei veti di Mosca e Pechino nella sede del Consiglio di sicurezza, anche un copertura di ripiego, ma sempre importante e sopratutto sovranazionale, come quella della NATO potrebbe giustificare l'intervento militare. Occorre però considerare come si vorrà intendere, sempre nel caso si decida per una azione armata, l'applicazione dell'articolo cinque del patto atlantico. Se verrà optato per una azione limitata alla difesa del suolo turco senza l'invasione di quello siriano, questa si concretizzerà con azioni di contenimento delle forze fedeli ad Assad, l'intervento, cioè, non sarà di una portata tale da alterare l'equilibrio delle forze, lasciando al governo in carica a Damasco notevoli opportunità di potere continuare la sua lotta da un punto di forza maggiore delle forze ribelli. Se si sceglierà questa strada sarà ritenuto politicamente più conveniente non complicare le relazioni con Cina e Russia, per non alterare situazioni diplomatiche già difficili, che potrebbero creare complicazioni di politica internazionale ad Obama nella occasione delle imminenti elezioni presidenziali USA. Viceversa, se si vorrà applicare una lettura ed una applicazione estensiva del già citato articolo cinque, si dovrà fornire una lettura della situazione che ritenga la permanenza al potere di Assad come un pericolo per lo stato turco in modo da giustificare un più massiccio impiego della forza. Questo avrebbe come obiettivo, oltre alla fine della guerra civile, il favorire l'insediamento al potere di quei gruppi con una maggiore inclinazione di simpatia verso il mondo occidentale, anche tenendo conto delle evoluzioni politiche con derive verso forze confessionali islamiche, che si sono verificate nelle precedenti primavere arabe. Questo aspetto è uno dei motivi di maggiore analisi e titubanza da parte degli Stati Uniti, che se da un lato devono impedire la vittoria di Assad, per scongiurare un paese al confine con Israele praticamente sotto il controllo iraniano, non hanno ancora chiaro come sia l'assetto delle forze ribelli, che costituiscono un coacervo di tendenze, che in caso di vittoria, si ritiene difficile mettere d'accordo, con potenziali ulteriori sviluppi di conflitto. Tuttavia pare poco credibile che la Turchia voglia avere ancora al proprio confine una tale situazione di instabilità; l'esercito turco è sufficientemente forte da battere quello siriano, che seppure bene armato, si trova a fronteggiare una guerra civile. Se Ankara dovesse decidere anche in modo unilaterale di dare il via alle operazioni, per la NATO sarebbe impossibile chiamarsi fuori, ma per gli USA ed in generale per l'occidente si potrebbero aprire una serie di difficoltà diplomatiche di non poco conto.

martedì 2 ottobre 2012

L'ONU in difficoltà finanziaria per gli aiuti ai rifugiati

L'ONU è in difficoltà per i costi sostenuti per gli aiuti ai rifugiati nel mondo. Una serie di combinazioni tragiche ed una congiuntura economica sfavorevole, che fa sentire la sua ricaduta anche sugli aiuti umanitari, obbligano le Nazioni Unite ad affrontare le varie crisi mondiali con mezzi finanziari sempre più scarsi. Occorre dire che l'avanzata del fondamentalismo islamico, che genera esodi di massa nel continente africano, rappresenta il fattore politico strategico preponderante, insieme alle guerre spesso scaturite dalle primavere arabe, all'origine del grande incremento del fenomeno dei rifugiati. Dal lato economico vi è l'aumento dei prezzi delle derrate alimentari, determinato dalla combinazione delle avverse condizioni climatiche unito alla crisi economica che sta colpendo l'intero pianeta, ad aggravare la voce di bilancio che il Palazzo di vetro destina agli aiuti umanitari. Ma insieme a questi fattori vi è anche lo scarso finanziamento che l'ONU riceve dai paesi membri, spesso costretti a tagliare i fondi destinati agli aiuti umanitari, per mancanza di risorse interne. Del resto il fabbisogno economico che deve materialmente sopperire agli aiuti di circa 42 milioni di persone è affare di complicata gestione finanziaria. Già nel 2011 il numero dei nuovi rifugiati è stato di 800.000 persone, mentre nel 2012, con l'apertura dei fronti siriano, sudanese, del Congo e del Mali, il tragico conto di chi è stato costretto a fuggire dalla propria terra ammonta già a 700.000 persone. Per cercare di limitare questo triste fenomeno, già caratterizzato dalle difficili condizioni di vita dei profughi ed ora aggravato dalle scarse risorse finanziarie che non potranno che peggiorare il livello della qualità degli aiuti, occorre elaborare una strategia preventiva che ne sappia ridurre sensibilmente il dato numerico. Tale strategia deve vertere su due strumenti essenziali: quello diplomatico e quello militare. Se situazioni contingenti come quella siriana, sono obiettivamente difficili da controllare, come il fallimento della missione di Kofy Annan ha dimostrato, sulle situazioni africane, che rappresentano la consistenza maggiore di profughi, occorre un intervento deciso volto ad eliminare la fonte del problema. Il caso del Kenya, che con i propri militari, sta respingendo le milizie islamiche, costituisce un valido esempio di come possa essere impiegata una forza internazionale, e quindi ben più potente dell'esercito di Nairobi, per liberare interi territori da cui sono fuggite masse ingenti di persone a causa dell'instaurazione di estremisti religiosi. E' chiaro che per fare questo occorre una volontà politica che sappia coinvolgere nazioni di diverso orientamento, ma questo non può che essere un investimento per una maggiore stabilità delle regioni dove il fenomeno dei profughi ha assunto livelli tali da ripercuotersi anche nei paesi più ricchi. Un'altra causa dell'incremento degli esodi sono le sempre più frequenti carestie, che colpiscono determinate zone del pianeta. La mancanza di investimenti volti a procurare l'autosufficienza alimentare è una macchia, che sia l'ONU, che le potenze mondiali e le nazioni industrializzate, devono cancellare. Il ruolo delle Nazioni Unite deve essere di maggiore coordinamento ed impulso a tali forme di aiuto, che possono permettere anche una crescita economica di paesi poveri, fuori dai mercati mondiali. L'attuale situazione dimostra come il solo aiuto inteso come intervento di emergenza è ormai insufficiente, perchè si basa su presupposti economici che non vanno aldilà della situazione di emergenza; la necessità di una programmazione che abbracci piani diversi di intervento è un aspetto non che non ammette rinvii e che, purtroppo, dimostra ancora una volta l'inadeguatezza dell'ONU attuale, con un sistema di gestione non più adatto alla fase storica attuale.

lunedì 1 ottobre 2012

L'Europa meridionale attraversata dalla crisi

Le tante manifestazioni che attraversano, sopratutto il sud dell'Unione Europea, dimostrano che il disagio sociale è sempre più intenso. Alle politiche economiche di austerità varate dai governi di Grecia, Portogallo, Spagna ed Italia sta per aggiungersi la Francia; il fine dichiarato è quello di abbassare i deficit degli stati per raggiungere un pareggio di bilancio, che però, così formato è destinato ad abbassare ulteriormente la già difficile situazione delle famiglie in special modo dei salariati e dei pensionati. L'accoppiata mortale formata dall'aumento delle tasse con la riduzione dei servizi ed anche delle entrate, ha portato la maggior parte dei nuclei familiari dei paesi dell'europa meridionale verso una compressione dei consumi che ha generato una recessione ormai impossibile da contenere. L'impressione è che questo fenomeno non sia stato previsto in modo così profondo da chi ha eleborato le strategie di contenimento economico, infatti, oltre alle tensioni sociali destinate a crescere, questo risultato ha anche provocato il minore gettito fiscale che ha in parte invalidato i duri provvedimenti presi. Questo fatto, aldilà delle promesse di ripresa, blocca la ripartenza dell'economia condannando la situazione ad un avvitamento senza uscita. Le grandi manifestazioni di piazza, sfociate purtroppo in scontri anche violenti, testimoniano che il livello di guardia è ormai oltrepassato e che le conseguenze che si prevedono sull'ordine pubblico sono delle peggiori. Siamo di fronte a governi, eletti e no, che sovvertono in maniera clamorosa programmi elettorali, in alcuni casi annunciati soltanto pochi mesi prima; il corpo elettorale, specialmente quella parte che ha dato il proprio sostegno in sede di voto, si trova spiazzato e tradito da politiche che vanno completamente nella direzione opposta a quella concordata con chi ha concesso la fiducia. Se questo stato di cose si unisce alla prostrazione economica della maggior parte della popolazione, si ottiene una miscela altamente esplosiva; gli stessi sindacati si sono dichiarati più volte incapaci di potere controllare la rabbia dei lavoratori, non avendo più argomenti per calmarli. Una situazione così diffusa di malcontento, che si sta sempre più allargando anche a ceti sociali più abbienti, diventando così un fenomeno trasversale della società, rappresenta una situazione di novità all'interno della UE, proprio per la sua larga diffusione in diversi stati membri, assumendo proporzioni talmente vaste da provocare la domanda se lo stesso concetto di esercizio della democrazia in Europa non abbia assunto una distorsione tale da decretarne una revisione. Se, infatti, alla base dell'azione dei governi deve esserci la maggiore diffusione del benessere della società, da raggiungere con modalità differenti a seconda dell'orientamento politico che detiene la maggioranza, quello a cui stiamo assistendo è un capovolgimento delle finalità che sembra vengano percorse. Le decisioni di salvare istituti finanziari e bancari, spesso colpevoli della crisi per le loro gestioni dissennate, attraverso il taglio di servizi e l'aumento delle tasse a chi ha già spesso patito in prima persona le conseguenze di queste politiche scellerate, penalizzandoli, quindi, in maniera doppia, non può che scatenare il malcontento e l'astio contro i centri di potere che si muovono in direzione univoca. L'assenza di politiche alternative, che pure in un quadro di rigore, permettano il mantenimento dei già bassi livelli occupazionali e trovino soluzioni per l'ingresso nel mondo del lavoro delle fasce di età più basse, rischiano di ingrossare quei movimenti, talvolta estremisti, che puntano alla dissoluzione europea, che nella loro visione rappresenta l'unica via di uscita da una organizzazione sovranazionale identificata, purtroppo talvolta a ragione, con i potentati finanziari responsabili della situazione. Questo pericolo è ancora più grande quando si assiste alla pochezza di Bruxelles nel governare la situazione, che lascia di fatto il comando a mercati e borse; questi, attraverso loro emanazioni, come gli istituti di valutazione, che esercitano metodi anche illeciti, influenzano i governi, con dati anche artificiosamente costruiti e dettano la linea da seguire alle cancellerie. L'assenza della politica da tanti invocata, sebbene con ragioni comprensibili, provoca così un vuoto di potere subito riempito dalle istituzioni finanziarie che non possono non governare a loro favore, facendo pagare il costo della crisi a chi già la subisce. Quello che occorre è una appropiazione della politica dal basso che si esplichi con controlli severi contro quelle distorsioni che hanno favorito questo stato di cose: vi è un bisogno disperato di maggiore legalità, una condizione che dovrebbe essere scontata ma che attualmente è merce sempre più rara. Putroppo senza dare motivi di una inversione di tendenza alle masse che scendono in piazza la situazione è destinata ad aggravarsi, dopo avere richiesto tanti sacrifici occorre dare in cambio qualcosa capace di riportare fiducia nei tessuti sociali di quei paesi che hanno sottoposto i loro cittadini a sacrifici per certi versi poco comprensibili. In questo senso strumenti come la tobin tax e l'introduzione di forme di tassazione del patrimonio, capaci di alimentare fondi in grado di abbassare l'imposizione fiscale sul lavoro ed in grado di creare sostegno all'occupazione potrebbero essere un inizio in grado di calmierare le diverse situazioni difficili, ma questi provvedimenti dovrebbe essere adottati a grande raggio, cioè su basi territoriali sovranazionali e parti di azioni coordinate per avere un maggiore impatto; certo senza una unione politica che sostenga tale volontà la situazione frammentaria non può che favorire il potere economico già esistente.

mercoledì 26 settembre 2012

La necessità di una maggiore presenza araba nell'ONU

Barack Obama, in quello che potrebbe essere il suo ultimo discorso alle Nazioni Unite e che è certamente quello conclusivo di questo mandato, ha affermato che gli attacchi alle missioni diplomatiche, di cui gli USA sono il paese maggiormente vittima, sono profondamente contrari ai principi su cui si basa l'ONU. La considerazione è certamente vera ed apre una seria riflessione sul ruolo e la funzione stessa della più importante organizzazione sovranazionale. Del resto, a complemento di questa riflessione, anche l'opinione espressa da Ban Ki-moon, che ha affermato che "La libertà di espressione e di riunione sono fondamentali, ma nessuno di loro è una licenza per incitare o commettere violenza", apre degli interrogativi importanti sull'uso distorto della libertà di opinione e di espressione, tramutati in pura intolleranza, che sono stati alla base della violazione del diritto internazionale in diversi paesi islamici. L'aspetto più rilevante è che vi è una diversa percezione delle Nazioni Unite nel mondo occidentale ed in quello arabo; nei paesi occidentali, pur con diverse distinzioni, l'ONU è percepito come una possibile occasione di unione tra le nazioni, che possa permettere una discussione generale su problemi comuni, un organismo essenziale, seppure datato e quindi da riformare, ancora di più che nel passato a causa dell'avvento della globalizzazione. Nei paesi arabi, al contrario, specialmente nella popolazione, le Nazioni Unite, sono viste come una emanazione, quasi colonialistica, dello stesso occidente ed in particolare degli USA, che spesso sono accusati di usare l'ONU a proprio uso e consumo. In realtà ciò non è del tutto vero, a causa del meccanismo che permette di esercitare il diritto di veto ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza, che annoverando tra essi, la Cina e la Russia, che sono sovente contrarie agli indirizzi che Washington vorrebbe imprimere all'azione del Palazzo di vetro. La mancanza di uno stato arabo come membro permanente, potrebbe, forse, attenuare questa diffidenza del mondo musulmano verso le Nazioni Unite. Del resto la necessità di una riforma che trasformi radicalmente l'ONU è ormai sempre più urgente: i mutati equilibri di potere ed i diversi assetti mondiali impongono una non rinviabile revisione di quello che è l'unico ente esistente che permette una sorta di continuo confronto tra tutte le nazioni del mondo. Ciò può essere un punto di partenza valido per consentire un maggiore rispetto del diritto internazionale, ormai sempre più spesso violato. La deriva che è conseguita a queste continue infrazioni, sia chiaro praticate da tutte le parti, sta rischiando di portare il mondo verso stati di sempre maggiore instabilità, dove la pace globale viene sempre più spesso messa a repentaglio. Il funzionamento dell'ONU deve essere più inclusivo per permettere di partecipare alle decisioni importanti l'intero consesso degli stati; non è un compito normativamente facile, perchè dovrà coniugare la velocità di decisione e la sua applicabilità con il maggiore consenso possibile, tenendo conto del fattore tempo, sempre più decisivo di fronte, in special modo a quelle crisi di tipo umanitario che necessitano di soluzioni rapide. Certamente l'estenuante balletto delle discussioni inutili e bloccate del Consiglio di sicurezza deve essere abolito. Un altro dei motivi di diffidenza nei confronti dell'ONU è proprio questa incapacità a trovare soluzioni ai problemi di cui è investito, anche a prescindere dal fattore temporale. Troppo spesso le Nazioni Unite hanno superato le percezioni trasformandole in certezze, riguardo alla loro inutilità causata da sfiancanti discussioni che hanno lasciato le nazioni sulle rispettive posizioni, con la problematica in questione di fatto irrisolta. Senza un maggiore coinvolgimento attraverso una condivisione convinta da parte degli stati arabi, che sono maggiormente rappresentativi della religione islamica, l'ONU è destinato a sgretolarsi per mancanza dei suoi stessi presupposti costitutivi. Se una guerra ha determinato la morte della Società delle Nazioni, tanti contrasti di differenti dimensioni, stanno facendo venire meno l'autorevolezza delle Nazioni Unite; ma una loro fine priverebbe il mondo dell'unico strumento esistente capace di aggregare i vari stati in una qualche forma. In questo momento particolare della storia vi è la necessità di una organizzazione sovranazionale che sappia dialogare in maniera fattiva con gli stati arabi, le cui forme di governo sono state oggetto di trasformazione, più che procedere in ordine sparso, come cercano di fare le principali potenze mondiali. Ma, è chiaro, che l'ONU nella sua forma attuale, non riesce ad essere l'interlocutore di cui si sente il bisogno, d'altro canto, se è vero che la situazione contingente è arrivata in maniera praticamente inaspettata, è altrettanto vero che il gruppo dirigente delle Nazioni Unite non si è fatto trovare pronto, mancando di lungimiranza, aspetto che riflette, comunque, la gran parte dei paesi dell'occidente. Tuttavia si potrebbe recuperare il tempo perduto avviando nel minor tempo possibile quella revisione da tanti auspicata, ma che sia capace di recepire le istanze di chi non è sufficientemente rappresentato.

lunedì 24 settembre 2012

La triste evoluzione della Tunisia

In Tunisia, la nazione che ha inaugurato le primavere arabe, si respira una situazione di profondo disagio in gran parte della società civile. Le aspirazioni, che avevano mosso la rivolta contro il dittatore Ben Ali, partivano dalla necessità di instaurare uno stato fondato sui diritti civili, che attraverso questa trasformazione, favorisse la crescita economica della gran parte di popolazione, gravata da difficoltà oggettive di povertà. La velocità dell'affermazione della rivoluzione giunta alla caratteristica di essere stata la meno sanguinosa, non potevano che fare sperare, anche agli osservatori internazionali, un successo del processo che veniva stato intrapreso e di cui la cacciata del presidente tunisino era considerata soltanto il primo passo. Tuttavia l'affermazione alla consultazione elettorale da parte dei movimenti islamisti aveva già generato notevoli dubbi sul nuovo indirizzo del paese, specialmente tra i componenti delle forze laiche, quelle che si erano impegnate maggiormente nella rivolta contro la dittatura. L'instaurazione al governo di forze confessionali di matrice islamista ha favorito la sempre maggiore influenza di gruppi estremisti, come i salafiti, che pur essendo numericamente esigui, sono composti da persone fortemente indottrinate e motivate ad affermare la necessità dell'applicazione della legge coranica, anche attraverso mezzi violenti. Questi gruppi hanno iniziato una occupazione strategica e sistematica dei luoghi di studio, individuati come il terreno più fertile per fare attecchire le proprie idee, grazie alla presenza di giovani sempre più ben disposti verso un islam inteso come elemento distintivo della società araba, capace di esserne allo stesso tempo, fattore identitario ed unificatore e profondamente contrario ad una politica laica sempre più confusa con i sistemi politici occidentali. Questa considerazione pone, però, degli interrogativi sulla reale convinzione dell'intera popolazione tunisina all'adesione della rivoluzione ed alla effettiva condivisione dei valori che sembravano averla mossa. Infatti nelle istanze che parevano avere provocato la prima delle primavere arabe, l'aspetto religioso pareva del tutto assente e le tante analisi che si erano effettuate vertevano su motivi che dalle rivendicazioni economiche si ampliavano al tema dei diritti civili e politici. L'inatteso risultato elettorale aveva, invece, svelato una tendenza inaspettata, sia nei commentatori internazionali, che negli stessi organizzatori della rivolta, sopraffatti dall'affermazione dei partiti confessionali. E' stato un errore fondamentale, che si è poi ripetuto anche nelle valutazioni delle cancellerie occidentali, anche riguardo alle primavere arabe che sono seguite e che si sono evolute secondo uno schema analogo. E' da rilevare, comunque, che tali tendenze non sono state immuni da influenze straniere, con stati islamici sovrani, impegnati a finanziare direttamente questi movimenti estremisti per favorire l'affermazione di un radicalismo che possa impedire, quello che loro considerano una possibile deriva occidentale. In Tunisia si imputa, infatti, ai fondi provenienti dall'Arabia Saudita la causa principale della crescita degli islamici radicali. Se ciò fosse vero, si rivelerebbe da parte di Riyad un comportamento non troppo leale con il suo principale alleato, gli USA, sempre più vittima delle manifestazioni contro l'occidente e svelerebbe un tentativo di colonizzazione culturale e religiosa sulle nazioni da poco liberate da sistemi dittatoriali della sponda sud del Mediterraneo. Ma per la Tunisia, vera o falsa che sia la presunta influenza dei sauditi, il pericolo di scivolare verso una dittatura di tipo diverso è sempre più concreta; nonostante la dittatura vi era comunque una convivenza pacifica tra le diverse tendenze politiche e sopratutto religiose, uno stato di fatto che sembrava l'esatto punto di partenza per lo sviluppo di una democrazia libera da condizionamenti e che ora è messo in seria difficoltà dalla mancanza di una visione islamica mitigata dai suoi aspetti più duri, incapace di conciliare la religione con la democrazia e con il rispetto di chi non rientra in quella cerchia. Per l'occidente la situazione tunisina rappresenta la delusione più grossa, perchè il paese sembrava maggiormente libero dai condizionamenti religiosi, che si erano preventivati in Egitto e Yemen o dalla rigida divisione tribale presente in Libia. Ma ciò costituisce una lezione che difficilmente non avrà ripercussioni in termini di diffidenza verso tutti quei paesi dove i partiti islamici, anche i più moderati, sono al potere: e così il solco tra i due mondi sarà sempre più profondo.

giovedì 20 settembre 2012

La Turchia torna sulla questione del suo ingresso nella UE

La dichiarazione del ministro dell'economia della Turchia, Zafer Caglayan, è destinata a sollevare intense polemiche ed a riaprire un dibattito che pareva chiuso. Secondo il parere di Caglayan, in virtù degli ottimi risultati dell'economia turca, che ha registrato una crescita dell'8,5%, ottenuti grazie ad una politica economica espansiva incentrata sulla produzione di beni ed orientata a forti esportazioni verso i mercati orientali immediatemente vicini, sarà la stessa UE, in grave difficoltà economica, ad implorare l'ingresso della Turchia al suo interno. Secondo i calcoli del ministro economico turco, con la Turchia all'interno della UE, il PIL di Bruxelles sarebbe cresciuto dell'1,8%, malgrado le difficoltà di Grecia e Spagna. Molto dure le critiche verso gli organismi di controllo comunitari, che non hanno impedito i disastri economici della Grecia. Ma queste considerazioni, che si possono senz'altro condividere, appaiono strumentali: l'atmosfera tra Ankara ed Atene è da sempre molto tesa e la Turchia individua proprio nell'atteggiamento della Grecia uno dei maggiori ostacoli per il suo ingresso in Europa. Inoltre imputare l'esclusione turca alla volontà di fare della UE un club cristiano, oltre che avventato appare in questo momento poco responsabile. Tuttavia se la questione dell'entrata delle Turchia in Europa minaccia di riaprirsi in maniera anche molto aspra, occorre fare delle considerazioni sul perchè il governo di Ankara ha scelto proprio questo periodo per riaprire la questione. Un motivo è senz'altro di ordine economico, i mercati che hanno permesso alla Turchia il livello di sviluppo attuale non sarebbero più sufficienti per sostenere il tasso crescita; l'Ankara ha bisogno di entrare nel mercato più pregiato del mondo dalla porta principale, garantendosi così i vantaggi di cui altri paesi emergenti non potranno mai godere. Si aprirebbe, così, una sorta di binario preferenziale per le merci turche all'interno del vecchio continente, non paragonabile alle condizioni dei prodotti provenienti da paesi direttamente concorrenti. In questo caso la crescita della Turchia potrebbe registrare addirittura valori a cifra doppia e questo non malgrado, ma grazie al periodo di crisi che sta attraversando l'Unione Europea. La Turchia vorrebbe sfruttare proprio la fase attuale di difficoltà delle industrie continentali per ritagliarsi un proprio spazio, prima di una possibile ripartenza dell'economia della UE. Ma le condizioni che hanno determinato la bocciatura dell'ingresso nella UE non sono variate: la questione curda e quella dei diritti incompleti restano drammaticamente in piedi, l'islamizzazione, anche se non troppo estremizzata ma in progressiva crescita della società civile, favorita dalle politiche non certo laiche del governo al potere, restano una causa ostativa non indifferente ed anzi, se possibile aumentata, per la crescente diffidenza degli strati sociali europei verso l'affermazione in politica di un islamismo sempre più accentuato. E' vero che le garanzie di democrazia, sebbene ancora incomplete, della Turchia non ne consentono il paragone con l'Egitto, la Tunisia, o peggio, la Libia attuali, tuttavia una libera circolazione di un così grande numero di persone di religione islamica equiparate in tutto e per tutto alla attuale popolazione europea rappresenta un ostacolo ancora insormontabile. Per riuscire ad entrare in Europa sarebbe necessario un processo di maggiore laicità nella società turca, mentre quello che si verifica è il netto contrario. Non è questo un giudizio di merito ed ancor meno un suggerimento, è solo la constatazione effettiva di quelle che dovrebbero essere le condizioni che potrebbero favorire l'ammissione della Turchia nella UE. L'atteggiamento di Ankara, peraltro, non è certo di rassegnazione, la Turchia considera un suo diritto peculiare, il suo ingresso nella UE, ma nello stesso tempo, oltre alle argomentazioni di carattere economico, attualmente, non può presentare altre condizioni che possano favorirne il processo di integrazione europea.

Elezioni USA: la strategia sbagliata di Netanyahu

La strategia di Netanyahu, tenuta nei confronti della competizione elettorale degli Stati Uniti, si sta rivelando totalmente fallimentare. Il premier israeliano si è, infatti, schierato da subito con Romney, a cui lo lega un rapporto di amicizia risalente agli anni 70 del secolo scorso, in virtù dei ripetuti contrasti con il Presidente USA in carica, ritenuto troppo contrario alla politica del governo di Tel Aviv. I difficili rapporti con Obama si fondano sulla volontà di quest'ultimo di rilanciare il processo di pace tra palestinesi ed israeliani, per definire una volta per tutte la questione più spinosa dell'area del medio oriente, questione che serve da alibi ai tanti gruppi di estremisti islamici per la loro attività. Obama intendeva trovare una soluzione definitiva che portare la pace nella regione, fino ad arrivare alla costruzione, forse ancora utopica, di uno stato palestinese. Obiettivi troppo ambiziosi con un interlocutore come Netanyahu, che spesso anche in contrasto con gran parte dell'opinione pubblica del suo paese, ha portato avanti una politica basata sull'acquisizione di territorio, fondata sull'espansione delle colonie, in spregio ai trattati esistenti. Il comportamento del governo israeliano, spesso stigmatizzato anche ufficialmente da Washington, a portato alle relazioni tra i due paesi ad uno dei punti più bassi della storia. Lo stato dei rapporti, si è poi ulteriormente aggravato, con la continua minaccia di Israele di colpire l'Iran mediante un attacco armato, che impegnerebbe inevitabilmente, seppure controvoglia gli Stati Uniti, che hanno, al contrario, portato avanti una politica di dissuasione, peraltro non completamente efficace, nei confronti dell'Iran, basata sulle sanzioni economiche. Le visioni dei due governi, insomma, divergono totalmente e la mancanza di punti di contatto ha favorito una vera e propria critica aperta di Netanyahu nei confronti di Obama, portata fin dentro le istituzioni americane, come, ad esempio, il discorso tenuto dal premier israeliano di fronte al congresso americano, che lo ha osannato grazie alla maggioranza repubblicana. Romney, dal canto suo, ha imperniato molto della parte del suo programma elettorale, proprio in uno smaccato favore alle attuali politiche israeliane, sostenendo l'inferiorità culturale dei palestinesi ed il legittimo diritto per lo stato della stella di David ad eleggere Gerusalemme come propria capitale, stravolgendo ogni ragione e motivo di opportunità politica, su di un tema a cui il mondo arabo risulta particolarmente sensibile. Per inciso sulla comunità ebrea statunitense il programma di Romney non ha avuto praticamente effetto, se, come dicono i sondaggi, le intenzioni di voto di questa parte di elettorato sono per la grande maggioranza in favore di Obama. Probabilmente la situazione dello stato di Israele vista dagli ebrei USA è di grande apprensione, poichè se ad un capo di stato poco incline al dialogo venisse a mancare la diga di contenimento esercitata dal Presidente americano in carica, sostituito da un politico che, pare, condividere le prospettive muscolari di Netanyahu, il destino del paese andrebbe incontro, nel migliore dei casi, a sicure guerre. Tuttavia le possibilità per Romney di essere eletto sembrano diminuire ogni giorno che passa, per Netanyahu, la conferma di Obama per altri quattro anni, significherà dovere cambiare il continuo atteggiamento di sfida, esercitato anche in ragione della presenza delle elezioni, usate come arma ricattatoria. Senza più questa leva, per il premier israeliano, a sua volta impegnato nelle elezioni il prossimo anno, dove viene dato per favorito, sarà difficile continuare nella politica tenuta fino ad ora nei territori e sarà necessaria una maggiore collaborazione sul caso iraniano. Anche se Netanyahu ed Obama non sono certo in buoni rapporti personali, Israele dovrà trattare con maggiore riguardo il suo principale alleato e fare delle necessarie concessioni al processo di pace che, se sarà rieletto, il presidente USA intende portare avanti. Se verrà delineata questa situazione, in Israele, l'opinione pubblica dovrà fare delle attente valutazioni sulla capacità in politica estera, sopratutto verso gli Stati Uniti, di Netanyahu, che si è sempre vantato di esserne un profondo conoscitore: puntare così esplicitamente sul candidato perdente avrà certamente conseguenze non irrilevanti sul giudizio dei suoi cittadini.