Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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giovedì 20 dicembre 2012
In Asia si può sviluppare una nuova guerra fredda
Con l'elezione della conservatrice Park Geun-hye alla presidenza della Corea del Sud, si chiude il trittico dei rinnovi di governo nell'area destinata a diventare centrale nelle analisi delle questioni internazionali. Il Sud-Est asiatico aveva già visto la salita la potere di Xi Jinping in Cina e di Shinzo Abe in Giappone. Si tratta di tre leader che hanno in comune una visione che pare eccessivamente nazionalista e, forse, poco propensa al dialogo; non sono le qualità più indicate per affrontare l'evoluzione della situazione di una regione sempre più caratterizzata da potenziali instabilità a causa di molteplici fattori di contrasto. A questo si deve aggiungere la mutata strategia statunitense, che ha messo al centro della propria azione l'area meridionale dell'Oceano Pacifico. Essenzialmente le cause di conflitto potenziale risiedono nel confronto per il possesso di piccoli arcipelaghi tra Cina e Giappone, tra Giappone e Corea del Sud, la già citata strategia americana che irrita i cinesi e la minaccia nucleare della Corea del Nord. Come si vede un complesso di situazioni capace di scatenare quella che, non a torto, è stata definita come la nuova guerra fredda dell'Asia. L'equilibrio già fortemente instabile e destinato a peggiorare ulteriormente, proprio grazie ai risultati elettorali o, comunque, ai diversi cambi di potere, ha già scatenato una preoccupante corsa agli armamenti, che pare dirigersi verso il già sperimentato equilibrio del terrore. Xi Jinping, il primo leader a salire al potere, ha presentato un volto falsamente conciliante, propugnando una crescita cinese nel rispetto degli altri paesi. Questa premessa, tuttavia, aveva solo lo scopo di rendere meno preoccupante il resto del suo programma. In realtà ciò non è bastato ad allarmare i vicini e gli USA: la volontà cinese di migliorare le forze armate più grandi del mondo nella capacità di combattere guerre regionali, spiega ampiamente quale sia l'intendimento della nuova leadership di Pechino. Il budget cinese per gli armamenti nell'ultimo decennio ha avuto un incremento costante e soltanto nel 2012 sono stati stanzianti 80.423.000 di euro, spesi per costruire la prima portaerei cinese e migliorare generalmente tutta la struttura della marina militare, col chiaro significato che l'elemento acqueo acquisterà sempre maggiore centralità nella strategia complessiva della Cina. Ciò ha preoccupato subito il Giappone che è parte in causa sulla disputa delle isole con il governo cinese. Shinzo Abe, nuovo premier giapponese, ha fatto del nazionalismo una delle sue bandiere elettorali ed a poco sono valse le sue parole, dopo l'elezione, verso la Cina, che sottolineavano come Pechino rappresentasse il più grande partner economico del Giappone. Una delle intenzioni del nuovo premier è però quella di continuare la linea della spesa degli armamenti, talmente ingente da porre il budget di Tokyo al sesto posto nel mondo dei bilanci militari. Le intenzioni di Abe sono di fare pressione sugli USA affinchè limitino la crescente potenza cinese sia dal punto di vista militare che economico. Pechino individua nell'atteggiamento USA una ingerenza nella sua volontà di sviluppo pacifico, le continue critiche di Washington alle spese militari cinesi provengono da una nazione che destina ben il 2% del suo PIL, contro l'1,8% cinese e rappresentano, agli occhi della Cina, una volontà imperialista sulla regione, che si sta attuando con la fitta rete di alleanze sviluppata da Washington in chiave anti cinese. Gli accordi stretti con Filippine, Vietnam, India e Myanmar, paesi relativamente vicini al territorio cinese, danno a Pechino la sensazione di essere circondata e generano, in una nazione in forte espansione, sentimenti di grande sospetto. Ma anche gli Stati Uniti hanno le loro rimostranze verso Pechino, che sono legate sopratutto, all'azione non sempre univoca della Cina nei confronti della Corea del Nord. Per gli americani i cinesi non fanno molto affinchè Pyongyang interrompa i propri esperimenti nucleari ed il sospetto nell'amministrazione a stelle e strisce è che la Corea del Nord sia uno strumento di pressione verso l'Occidente. Ma anche nella stessa orbita americana vi sono dispute che possono mettere in pericolo i rapporti di alleanza; è il caso della contesa tra Giappone e Corea del Sud per le isole Takeshima, anche se a preoccupare maggiormente Seul è il comportamento sempre imprevedibile di Pyongyang; l'argomento è particolarmente sensibile anche per la politica interna della Corea del Sud, in quanto esiste un movimento di opinione molto consistente che auspica un miglioramento sensibile delle relazioni tra i due paesi, con il fine, in un futuro non si sa quanto prossimo, di unificare la penisola coreana. Le diverse situazioni concorrono a rendere sempre più incerto l'equilibrio di un'area sempre più importante per l'economia del pianeta, sia dal punto di vista della produzione delle merci, che del loro trasporto. Non è azzardato dire che le possibilità di superamento dell'attuale crisi economica globale, passano, in gran parte, dagli sviluppi che prenderanno le diverse situazioni che compongono lo scenario della regione, sia a livello singolo, che globale.
La Corea del Sud ha eletto, per la prima volta, un presidente donna
Park Geun-hye, sessanta anni, è la prima donna a diventare presidente della Corea del sud. Di orientamento conservatore, la nuova presidentessa del paese che vanta la quarta economia asiatica, è la figlia del dittatore Park Chung-hee, che prese il potere con un colpo di stato nel 1961 e fu assassinato nel 1979. Per i crimini del genitore, Park Geun-hye, ha espresso le scuse al popolo coreano, durante la campagna elettorale. Il risultato della consultazione ha dato la maggioranza, alla vincitrice con il 51, 6% dei voti, rispetto al 48% del suo rivale, il progressista Moon Jae-in. Anche in Corea del sud, malgrado una crescita positiva, ma più contenuta rispetto al passato, il tema centrale delle contesa elettorale è stata l'economia e la gestione della crisi. Il cosiddetto miracolo coreano sembra ormai un ricordo a causa della crisi delle esportazioni, per altro per ragioni più che altro esterne alle dinamiche coreane, il cui calo ha prodotto una contrazione della crescita del PIL, salito appena del 2% dall'inizio dell'anno. Il rilancio dell'economia è stata, quindi, la promessa che ha determinato la vittoria alle elezioni della neo eletta presidentessa; la quale ha anche promesso di migliorare la sicurezza dei luoghi di lavoro e di volere promuovere condizioni di maggiore equità. Il rilancio economico è individuato nella promozione della piccola e media impresa, piuttosto che un rafforzamento dei grandi gruppi del paese, che in realtà hanno trasferito la maggior parte della loro produzione in altri paesi, a causa del minor costo della manodopera. Questo fattore, della delocalizzazione produttiva, è stato individuato come una delle cause dell'indebolimento della classe media e per la sempre maggiore mancanza di posti di lavoro qualificati, sopratutto per i giovani. La nuova presidentessa della Corea del Sud, intende, invece, attraverso una politica di incentivi promuovere le aziende minori, rispetto alle multinazionali, per la creazione di nuovi posti di lavoro sul territorio nazionale. In politica estera il paese non dovrebbe subire grandi variazioni: le relazioni bilaterali principali saranno sempre con gli Stati Uniti, con i quali saranno rinforzate le relazioni commerciali ma sopratutto militari, in un'ottica di protezione dalle minacce provenienti dalla Corea del Nord e dal profilarsi del possibile peggioramento con la Cina.
mercoledì 19 dicembre 2012
Egitto: per Mursi sempre più problematico il rapporto con la magistratura
In Egitto la questione della costituzione si complica: il vantaggio dei si, cioè il voto favorevole alla promulgazione della nuova carta fondamentale, ha riscosso un margine ben più basso che quello previsto e ciò determina un valore meno rilevante del risultato della consultazione per il Presidente Mursi. Questo risultato aumenta la pressione delle opposizioni, che continuano a mettere in dubbio la legittimità del procedimento, anche in relazione alle molteplici segnalazioni di irregolarità, che avrebbero condizionato l'esito della votazione. La sensazione generale che una consultazione così importante sia stata viziata da diversi episodi non conformi, getta molto discredito su quello che Mursi voleva fare apparire un processo limpido proveniente dal popolo, per accreditarlo come una via islamica alla democrazia. Va detto che se esistevano forti dubbi sulle reali intenzioni e sull'effettivo senso della democratico del Presidente egiziano, gli ultimi interrogativi sulla regolarità del voto, non fanno che aggravare il giudizio sulla transizione egiziana. Quello a cui si trova davanti l'opinione pubblica internazionale pare essere tutto tranne uno stato che possa definirsi democratico, l'Egitto sembra passato da un regime dittatoriale laico ad uno confessionale, con l'unica differenza che quest'ultimo vuole darsi una patina di democrazia, con tentativi, peraltro maldestri. Nell'attesa della seconda fase del plebiscito, si segnala la forte opposizione della magistratura, che in quanto custode del diritto non può sottrarsi ad esprimere la sua contrarietà allo sviluppo della questione. Perfino il nuovo procuratore generale, nominato dallo stesso presidente egiziano e fortemente sospettato di parzialità, ha rassegnato le dimissioni dalla sua carica, lanciando un chiaro segnale del malessere presente nel potere giudiziario. Quello con tra magistratura e presidente, peraltro, è un rapporto molto deteriorato, praticamente alla pari con quello dell'opposizione dei partiti laici. Mursi combatte con il potere giudiziario una partita sulle regole e la contesa è diventata ancora più aspra dopo la promulgazione della legge che consegnava alla massima carica del paese poteri addirittura superiori a quelli di Mubarak. Se questa mossa ha smascherato la profonda avversione alla democrazia di Mursi, ne ha svelato anche la profonda ingenuità e l'avventatezza sul piano politico: infatti soltanto uno sprovveduto, oppure un personaggio totalmente manovrato dai partiti usciti vittoriosi dalle elezioni, poteva credere che un tale provvedimento sarebbe passato con facilità dopo tutta la lotta combattuta dal popolo egiziano contro Mubarak. Ma il confronto con la magistratura rischia di peggiorare ancora a causa del boicottaggio annunciato da gran parte dei giudici del Consiglio di Stato per la seconda tornata referendaria, che complica l'effettivo svolgimento, dal punto di vista pratico, della consultazione. Resta, poi, ancora lo scoglio maggiore per Mursi e l'approvazione della Costituzione: i tanti probabili ricorsi per le irregolarità in sede di voto, annunciati dalla opposizione, che, se accertati, costituiranno reati di ordine penale e che possono andare a creare un cortocircuito istituzionale con l'organo di presidenza, capace di portare il sistema ad un blocco.
martedì 18 dicembre 2012
L'offensiva diplomatica della Palestina
Il recente trionfo diplomatico dei palestinesi all'ONU, deve essere valorizzato al massimo attraverso una nuova offensiva diplomatica, che costringa Israele a sedersi nuovamente al tavolo delle trattative. Sarebbe questo l'intendimento dei dirigenti palestinesi per combattere lo stato di crescente nervosismo presente in Cisgiordania come nella striscia di Gaza, portato a livelli pericolosi dalle ritorsioni israeliane per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, con dignità di stato indipendente. Il tentativo di edificare nella zona E1, con il chiaro intento di interrompere la continuità territoriale palestinese, elaborato in dispregio del diritto internazionale e poi bloccato sotto lo sdegno delle cancellerie occidentali unito alla disposizione di confiscare il denaro da destinare all'Autorità Palestinese proveniente dalle tasse riscosse da Tel Aviv, sta creando concretamente il pericolo che si verifichi una terza intifada. Se, in teoria, entrambe le parti dovrebbero avere interesse che ciò non si verifichi, in realtà per Israele potrebbe tradursi in un'occasione per mostrare ancora di più i muscoli, come la politica dell'esecutivo in carica ha fino ad ora fatto, costruendo una linea politica, nei confronti dei palestinesi, niente affatto basata sul dialogo. La risposta palestinese, viceversa, vuole vertere su armi di tipo diplomatico, che si basano, innanzitutto sulla simpatia registrata nella sede delle Nazioni Unite, proveniente da diverse nazioni del pianeta. In effetti non si tratta di un sentimento fine a se stesso, ma la consapevolezza, ormai diffusa a livello mondiale, della necessità di mettere fine all'annosa questione della creazione dello stato palestinese, che costituisce sempre una potenziale minaccia, anche solo come pretesto, alla stabilità regionale e con ampi riflessi sul vasto panorama delle relazioni internazionali. La proposta palestinese verso Israele, che dovrebbe essere presentata nel prossimo gennaio, si articolerebbe sulla ripresa delle trattative dal punto in cui furono interrotte nel 2008, alla condizioni dello stop agli insediamenti di Tel Aviv nei territori arabi ed il rilascio dei prigionieri della Palestina. La durata massima delle trattative dovrebbe essere fissata in sei mesi, durante i quali si cercherà di raggiungere un accordo, che preveda, finalmente, la creazione dello stato di Palestina e la relativa definizione certa dei confini. Se questa proposta dovesse essere formalizzata Israele non avrebbe scusanti per sottrarsi alle trattative, che sono viste, anche se non in forma ufficiale, con favore da Obama sempre impaziente di chiudere la partita. Va detto, ancora, che su Israele grava la minaccia, molto temuta a Tel Aviv, di essere citato alla Corte penale internazionale per crimini di guerra, se la richiesta palestinese di adesione all'organismo internazionale verrà accettata. Non è però detto che questa arma, letteralmente puntata su Israele, venga usata, sembra, piuttosto, una opzione di riserva, nel caso il governo israeliano non accetti di sedersi al tavolo delle trattative. Il leader dell'ANP ha, intanto,intrapreso un tour diplomatico, che toccherà i principali paesi europei per perorare la causa della creazione dello stato palestinese.
lunedì 17 dicembre 2012
L'Italia alla prese con l'incertezza elettorale
Il futuro dell'Italia, probabilmente a due mesi dalle elezioni, si fa sempre più incerto. Se fino a poco tempo fa la vittoria del principale partito di opposizione al governo Berlusconi, il Partito Democratico, era fortemente probabile, la ridiscesa in campo del presidente del Consiglio che ha preceduto Mario Monti, ha avuto l'effetto di scompigliare le carte. Berlusconi in un estremo tentativo di tenere uniti quelli che lui stesso definisce moderati, ha offerto al dimissionario premier in carica, la leadership dello schieramento di centro destra, ma in maniera alquanto confusa e maldestra. In realtà ciò è stato solo in apparenza, Berlusconi, in base ad un preciso piano politico, ha fatto a Monti una offerta irricevibile perchè partita da un settore politico che lo aveva appena sfiduciato, inserendo nell'ipotetica coalizione anche la Lega Nord, partito che ha fortemente fatto opposizione alla politica rigorista del governo in carica. Ciò ha provocato la compattazione delle formazioni che stanno al centro ed invece, si riconoscono nell'azione, sopratutto economica, del rettore dell'Università Bocconi: Mario Monti. Forti del consenso espresso in campo internazionale, sopratutto europeo e della benedizione della Chiesa Cattolica, da sempre molto influente nella penisola, i partiti di centro, sia di ispirazione cristiana, che le nuove formazioni che si richiamano ad una politica liberista inquadrata in un rigore europeo, cioè fuori dalla concezione di Berlusconi favorevole ad un liberalismo più propenso ad una spesa pubblica finanziata dal debito, hanno fatto pressing su Mario Monti per coinvolgerlo fino a farlo diventare il leader di un movimento che auspica la continuazione dell'esperienza del governo dei tecnici. Il Presidente del Consiglio, che fino ad un mese prima dichiarava di non volere prolungare l'esperienza alla guida del paese, pare ora concretamente tentato di prolungare la sua carica. Questa mossa pare dettata dalla consapevolezza che una eventuale vittoria del Partito Democratico, che lo ha lealmente sostenuto anche contro il proprio elettorato, possa determinare una virata della politica del paese, in favore del ceto medio, quello che ha sostenuto fino ad ora il costo imposto dal governo in carica. Il Partito Democratico, una versione molto annacquata di qualunque forza definita di sinistra, è alleato con il movimento del Governatore della regione Puglia, Vendola, più propenso ad una politica che mira a rinforzare il welfare, incentivare politiche di redistribuzione e penalizzare gli aiuti alle banche, in sostanza una direzione contraria da quella intrapresa da Monti. Va detto che il Partito Democratico, secondo i sondaggi più recenti, il maggiore partito italiano, ha sempre considerato la fase del governo tecnico come transitoria ma necessaria per rimediare al malgoverno di Berlusconi; infatti per Monti prefigurava la massima carica super partes quale è quella del Presidente della Repubblica, che nel 2013 dovrà essere eletto per sostituire Napolitano, giunto alla scadenza del proprio mandato. Anche se per ora Monti non ha sciolto la riserva di presentarsi alla candidatura di Presidente del Consiglio, il solo fatto che questa eventualità possa verificarsi, ha generato all'interno del Partito Democratico parecchio nervosismo per due principali ragioni: la prima è che la candidatura di Monti, che ha un indice di gradimento molto alto per le politiche restrittive praticate, potrebbe erodere voti, la seconda è che, oltre ai voti, potrebbero andare a confluire verso le formazioni di centro, tutti quei componenti del partito che non si riconoscono in un'alleanza con la sinistra più radicale, ritrovando quell'affinità che avevano perso con il centro politico dalla morte della Democrazia Cristiana. A ciò si deve aggiungere che il principale partito del centro: l'Unione Cristiano Democratica, che ha avuto un rapporto privilegiato con il Partito Democratico durante l'esperienza del governo Monti e che pareva l'alleato più naturale per un futuro programma di governo, si è invece distaccata proprio in occasione dell'alleanza del Partito Democratico con Sinistra Ecologia e Libertà, che ritiene incompatibile con i suoi programmi. Berlusconi, che ha i sondaggi peggiori è riuscito così a dividere i suoi nemici politici in previsione della tornata elettorale, che sarà regolata dalla discussa legge in vigore, che dovrebbe dare una maggioranza certa alla camera ma non al senato e quindi bloccare la vita istituzionale del paese. Tuttavia nel centro destra, all'interno del Partito delle Libertà, la formazione fondata proprio da Berlusconi, che ha guidato il paese negli ultimi anni, vi sono divisioni profonde, acuite dal ritorno del leader, al quale sembrava destinato un ruolo di padre nobile, ma senza incarichi di primo piano. Molti, ma non tutti, consideravano finita l'esperienza di Berlusconi, per trovare una formazione più moderna e meno fondata sulla personalità del leader, che andasse a seguire le orme dei partiti di destra di Francia, Germani ed Inghilterra; una sostanziale rifondazione, insomma. Ma il grande potere finanziario di Berlusconi ha impedito questa evoluzione, se si eccettua pochi temerari, piuttosto, quello che sta accadendo è un fenomeno analogo al centro sinistra che consiste in una fuga verso il centro per dare sostegno, da destra, ad un nuovo esecutivo Monti. Il panorama politico italiano, quindi, torna ad essere segnato da incognite profonde che non ne favoriscono la stabilità; dalle urne infatti, come già detto, con questa legge elettorale ed una offerta politica così frammentata, a cui si deve aggiungere il pesante pronostico dell'astensionismo, non potrà uscire un paese facilmente governabile a meno di evoluzioni, per ora inaspettate e difficili da pronosticare.
La Cina guarda con preoccupazione al nuovo assetto politico del Giappone
Sale la preoccupazione di Pechino, dopo l'affermazione della destra giapponese nelle consultazioni elettorali del paese nipponico. Il problema più pressante riguarda i rapporti internazionali che potranno svilupparsi tra i due paesi per la questione delle isole contese: Senkaku, per Tokyo, Diaoyu, per Pechino. Sebbene il precedente leader giapponese avesse un atteggiamento che pareva più conciliante, i contrasti avevano già assunto dimensioni tali da produrre preoccupazione nel mondo diplomatico. La vittoria del Partito Liberal Democratico, con a capo Shinzo Abe, che sarà il futuro primo ministro del Giappone, rappresenta un ulteriore elemento di potenziale aggravamento della frizione diplomatica. Shinzo Abe è infatti, considerato un falco della politica internazionale ed un acceso nazionalista, che già in campagna elettorale ha affermato l'assoluta indisponibilità a qualsiasi negoziazione sul problema delle isole. La Cina, per contro, considera le isole parte integrante del territorio cinese, ma Pechino considerava favorevolmente l'eventualità di lavorare insieme al Giappone a rapporti più stabili, vi era, insomma, una apertura più conciliante verso una soluzione condivisa che non dispiacesse nessuno. La rigidità annunciata di quello che sarà il nuovo primo ministro, però, sicuramente invertirà la linea cinese, creando i presupposti di un muro contro muro, di cui risulta difficile fare una previsione. Questo confronto rischia, poi, di ripercuotersi anche negli altri casi di contesa presenti nel Mar Giallo meridionale, legati sia ad altre isole su cui esiste contenzioso, sia all'ampiezza delle acque territoriali. Se il problema tra Cina e Giappone poteva risolversi grazie ad una soluzione della controversia raggiunta in modo condiviso, poteva costituire un precedente importante anche per le altre situazioni che rappresentano casi fonte di contrasto, viceversa, come pare possa svilupparsi la questione, tutti i casi sul tappeto entrano in una incertezza pesante. L'unica speranza è che gli interessi economici tra i due stati possano essere il mezzo per attutirne i contrasti. Le grandi dimostrazioni avvenute recentemente in territorio cinese contro le attività economiche giapponesi, che hanno assunto anche toni particolarmente violenti, rappresentano soltanto un primo assaggio di quello che potrà succedere a livello internazionale. Risulta facile prevedere ed attendersi una escalation fatta di sanzioni economiche e sgarbi diplomatici nei due sensi, che potrebbe avere ripercussioni sul commercio mondiale; inoltre non appare inverosimile lo schieramento delle rispettive flotte militari nei pressi delle isole, con il concreto pericolo che un incidente dia il via a conseguenze ben più gravi. Già nella scorsa settimana il caso dell'aereo militare cinese che aveva sorvolato il piccolo arcipelago aveva causato la pronta reazione di Tokyo, con lo schieramento della sua forza aerea. Per ora siamo nella dimensione delle scaramucce e delle provocazioni, ma senza una intesa o, almeno, una volontà di collaborazione, che pare, al momento essere del tutto assente, la questione potrebbe andare a degenerare in maniera pericolosa. La regione quindi pare destinata a diventare concretamente uno dei punti più caldi del pianeta ed a ciò arriva, come conferma, la concreta preoccupazione di Washington, che già si vede, in un futuro molto prossimo, impegnata in prima persona a dovere mediare, se non gestire, una crisi che si annuncia di grande portata.
venerdì 14 dicembre 2012
Russia e USA inviano un mediatore a Damasco
Russia e Stati Uniti, dopo le sessioni di negoziato tenutesi a Dublino e Ginevra, hanno deciso di inviare il mediatore Lakhdar Brahimi a Damasco per concordare una possibile uscita di scena di Assad. La situazione militare, pur nella sua lentezza, sembra evolversi a sfavore del dittatore siriano ed i russi cominciano ad ammorbidire la propria posizione, fino ad ora caratterizzata dalla rigidità più assoluta. I timori di Mosca sono essenzialmente due: da una parte il paese russo non vuole passare, di fronte al panorama internazionale, come lo stato che ha difeso ad oltranza Assad, sul quale si addensano gravi sospetti di crimini, sia contro le forze dell'opposizione, che contro i civili, dall'altro lato vuole iniziare ad aprire, su di un piano nuovo, un rapporto con il governo che potrebbe crearsi con l'uscita di scena di Assad, per preservare i propri interessi in terra siriana e cioè, essenzialmente, la possibilità di mantenere l'unica base militare navale nel Mediterraneo, che sorge nel porto di Tartus. La nuova versione dell'atteggiamento di Mosca, potrebbe derivare, quindi, dalla necessità di presentarsi a futuri negoziati con gli USA, in grado di avere il maggiore potere contrattuale possibile; del resto il cambiamento russo sarebbe dovuto alla presa d'atto che Assad è sempre più isolato sul piano internazionale, ma, sopratutto, su quello interno, sopratutto dopo che i ribelli hanno conquistato l'aereoporto che serviva alle forze governative per ricevere i rifornimenti di armi. Lo scopo della missione di Lakhdar Brahimi, quindi, consisterebbe proprio nel tentativo di convincere Assad a lasciare il potere senza compromettere la propria situazione e non andare incontro ad una fine simile a quella toccata a Gheddafi. In proposito si stanno cercando anche paesi disposti ad ospitare il dittatore di Damasco, ed il più probabile pare, per ora, la Bielorussia, nazione dove l'influenza di Mosca è notevole. Per Assad sarebbe l'ultima occasione prima di una probabile offensiva finale, che i ribelli potrebbero lanciare a breve, nonostante l'artiglieria governativa sia ancora efficiente. Si tratterebbe però questione soltanto di tempo, tuttavia, prima di arrivare ad una soluzione definitiva, esiste il rischio concreto che la tragica contabilità delle vittime possa ulteriormente incrementarsi. Inoltre non è però assicurato che una volta che Assad sia uscito di scena si arrivi ad una pacificazione completa a causa delle profonde differenze presenti nei gruppi che compongono l'eterogenea formazione dei ribelli. A questo scopo sia russi, che americani, avrebbero compilato una lista di possibili funzionari in grado di comporre un governo di transizione, capace di assicurare al paese un passaggio di potere il meno traumatico possibile. Per gli Stati Uniti la collaborazione con Mosca è fondamentale per una rapida soluzione della crisi siriana, infatti, soltanto la Russia può esercitare l'adeguata pressione affinchè Assad lasci il potere; Washington è preoccupata per le ripercussioni possibili di un allargamento della crisi nella regione e pensa, sopratutto, ad Israele e all'Iran. La disponibilità russa è vista, quindi, come un fatto positivo, capace di accelerare la conclusione del conflitto, anche se poi, sarà inevitabile, Mosca presenterà il suo conto.
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