Politica Internazionale

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venerdì 1 febbraio 2013

L'ONU potrebbe inviare i Caschi Blu nel Mali

L'ONU potrebbe decidere di inviare i caschi blu nel Mali; l'argomento sarebbe in discussione al Palazzo di Vetro di New York e potrebbe entrare nell'ordine del giorno del Consiglio di sicurezza. La decisione potrebbe essere presa anche se l'intervento francese, per liberare il paese africano dagli estremisti islamici, non fosse ancora concluso. Parigi ha mostrato di essere favorevole alla decisone, anche se ha espresso alcune perplessità circa il dispiegamento della forza di pace in una situazione non ancora del tutto stabilizzata. Questo perchè i caschi blu potrebbero essere obiettivo di attentati da parte delle ultime formazioni che oppongono resistenza. Ciò potrebbe determinare un intralcio allo svolgimento delle operazioni. Diverso il caso di un impiego con l'esclusivo scopo di mantenimento della pace in uno scenario liberato dai terroristi. Questa soluzione solleverebbe, almeno in parte, i francesi dai compiti seguenti ai combattimenti. In ogni caso per Parigi, una tale decisione sarebbe una vittoria sul piano internazionale e determinerebbe la fine dell'isolamento nell'impegno nel paese maliano, rappresentando un riconoscimento tangibile dell'operato eseguito, aldilà delle dichiarazioni di simpatia, che hanno seguito l'intervento. Tuttavia, paradossalmente, anche una decisione favorevole del Consiglio di sicurezza potrebbe non bastare senza l'avallo e l'appoggio dell'Algeria. La decisione dell'ONU, comunque, sarebbe il logico seguito alla risoluzione del Consiglio di sicurezza che riconosceva la pericolosità del fenomeno del terrorismo islamico nel nord del Mali, ma prevedeva l'invio di una forza armata soltanto alla fine del 2013. Si stima che il fabbisogno di uomini si aggiri su di un numero entro il raggio compreso tra le 3.000 e 5.000 unità, due sono le possibilità che si profilano: la prima una forza costituita da soldati provenienti da paesi non africani, senz'altro maggiormente preparati ed armati, ma forse, invisi alla popolazione, la seconda una forza formata da militari di origne africana, con il sostegno logistico delle nazioni Unite e, verosimilmente, istruttori occidentali; questa scelta, che gode dell'appoggio dell'Unione Africana e della Comunità degli stati dell'Africa Occidentale, pare, dal punto di vista diplomatico, più facilmente percorribile, anche se esistono dei dubbi sull'operatività di questi militari e sul rispetto dei diritti umani che potrebbero assicurare. Questo aspetto è molto sentito dalla comunità internazionale, che vuole risparmiare alla popolazione civile, eventuali nuovi soprusi, dopo quelli patiti dall'applicazione della sharia da parte dei miliziani islamici radicali.

La Turchia minaccia di entrare nell'Organizzazione di Shangai

Le resistenze all'ingresso della Turchia nell'Unione Europea potrebbero determinare una curiosa scelta di campo per Ankara. Il governo turco avrebbe, infatti, intenzione di diventare membro, per ora soltanto osservatore, della Organizzazione di Shangai per la cooperazione. Il premier turco Erdogan ha individuato questa possiblità in alternativa all'ingresso nella UE, come possibile sbocco della ricerca dell'allargamento delle forme di cooperazione internazionale per il proprio paese. Il persistere dell'ostinato atteggiamento, per la verità in parte giustificato, di diversi paesi membri della UE all'ingresso turco nell'unione, spingerebbe Ankara verso l'Organizzazione di Shangai, considerata da osservatori turchi addirittura potenzialmente più potente della UE. Questa visione, in realtà pare una estremizzazione, il percorso di unione, seppure rallentato e irto di ostacoli, compiuto da Bruxelles, è molto più avanti sull'integrazione, che, tra l'altro, non figura tra gli obiettivi dell'Organizzazione di Shangai. Resta comunque vero che una unione che comprende: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, come membri permanenti ed India, Mongolia, Iran e Pakistan, come osservatori ha effettivamente delle grosse potenzialità, che però restano distanti dai vantaggi immediati che potrebbe assicurare l'ingresso nell'Unione Europea. Per la Turchia uno dei vantaggi maggiori a fare parte dell'organizzazione di Shangai, sarebbe la comunanza con la lingua di molti stati, fattore che potrebbe assicurare una maggiore integrazione. Tuttavia i fini istituzionali dell'Organizzazione di Shangai sono molto differenti da quelli dell'Unione Europea, nata per motivi di sicurezza, dettati dalla necessità di bilanciare il potere e l'azione militare, che gli USA hanno sviluppato a livello mondiale dopo l'undici settembre 2001, l'organizzazione di Shangai promuove anche la cooperazione economica, specialmente relativamente ai settori energetici, e culturale. L'assenza di forme democratiche nei governi che compongono l'Organizzazione, costituisce un elemento di forte critica in Turchia verso questa soluzione, quello che si teme nel paese è che Erdogan effettui una virata verso una forma dittatoriale del proprio governo, anche se l'assetto democratico del paese, sebbene influenzato da forme più o meno accentuate di commistione con la religione islamica, pare immune da una tale deriva. Ma l'aspetto più curioso è che l'Organizzazione, militarmente, è alternativa alla NATO, mentre la Turchia è un membro dell'Alleanza Atlantica, considerato strategico dagli Stati Uniti; infatti Washington osserva con attenzione questo processo che potrebbe creare una situazione paradossale, e spinge, dietro le quinte, per l'ammissione del paese turco dentro l'istituzione europea. Al netto di tutte queste considerazioni, la maggioranza degli osservatori considera però, l'interesse mostrato dalla Turchia per l'Organizzazione di Shangai soltanto un metodo per costringere l'Unione Europea ad accelerare il processo di adesione di Ankara. La Turchia, forte del suo sviluppo economico, maturato negli ultimi tempi nonostante la crisi mondiale, ha la necessità di entrare dalla porta principale nel mercato più ricco del mondo per espandere il suo ciclo produttivo, di contro, la UE, sottoposta ad una fase di compressione economica, avrebbe necessità di un nuovo membro capace di aumentare la ricchezza comune e di portare dati confortanti capaci di incrementare il mercato interno. Mai come in questo momento il verificarsi di queste due condizioni, potrebbe favorire le aspirazioni turche e quindi la teoria della minaccia di andare verso un'altra organizzazione sovranazionale risulterebbe esclusivamente funzionale a fare cadere le resistenze per entrare in Europa.

giovedì 31 gennaio 2013

Israele mette in atto la politica di prevenzione in Libano e Siria

Pur non essendoci conferme ufficiali da alcuna parte, l'aviazione israeliana avrebbe compiuto i giorni scorsi una di quelle azioni definite come politica di prevenzione dal governo. Infrangendo i canoni del diritto internazionale Tel Aviv, ha compiuto, come già avvenuto in passato, una azione militare in territorio straniero senza la preventiva dichiarazione di guerra. In effetti il comportamento che sta seguendo il raid aereo è quello di assoluto silenzio, che non prevede ne smentite ne conferme, comportamento che collima con quello delle parti colpite, che non hanno denunciato alcuna violazione della propria sovranità, in quanto impegnate in azioni comunque al di fuori della normale prassi. Il fatto si può riassumere come una operazione volta ad impedire il rifornimento di materiale militare, dalla Siria alla fazione di Hezbollah presente nel Libano meridionale; gli armamenti distrutti dell'azione militare, dovrebbero essere stati missili antiaerei avanzati, i SA-17 russi ed apparecchiature elettroniche anti droni. Per gli hezbollah si tratta di armi tattiche, che dovevano contrastare i frequenti voli di controllo che l'aviazione militare israeliana compie proprio nella parte sud del Libano, dove sono situati i campi dei miliziani islamici. Israele si trova ora, così impegnato nella parte settentrionale del suo territorio, con un dispiegamento militare importante, che comprende, oltre alla flotta aerea, il dispiegamento delle batterie "Iron Dome". Questo stato di allerta indica la profonda preoccupazione con cui Tel Aviv segue l'evolversi della guerra civile siriana, sopratutto in relazione alle possibili destinazioni degli arsenali di armi chimiche; a questo riguardo il monitoraggio delle agenzie governative israeliane si è intensificato ed anche l'azione che sarebbe avvenuta in territorio siriano, con il bombardamento di un centro di ricerca governativo, situato nel Golan meridionale, si inquadra in questa strategia di difesa preventiva. I diplomatici di Israele avrebbero comunque avvertito preventivamente degli attacchi, sia gli USA, che la Russia, i primi in quanto alleati ed i secondi come uno degli ultimi stati in buoni rapporti con Assad e, sopratutto, con una flotta navale di stanza a Tartus, porto del Mediterraneo. Nella dottrina di autodifesa israeliana, non è questo il primo caso di politica preventiva, la Siria è già stata colpita nel 2007, con la distruzione di un reattore nucleare, a cui il paese arabo non ha opposto altro che il proprio silenzio, mentre, recentemente, nell'ottobre scorso ad essere distrutta fu una fabbrica di armi nel Sudan, che protestò per la violazione del proprio spazio aereo ed ancora prima, sempre nel paese africano, nell'aprile 2011 ad essere colpito fu un convoglio diretto a Gaza, che trasportava armi per i miliziani di Hamas. In tutti questi casi Israele ha mantenuto un atteggiamento distaccato non confermando ne fornendo smentite alle accuse per essere entrato in territorio straniero con i propri mezzi militari. Ma la situazione altamente pericolosa del conflitto siriano sposta in un'altra prospettiva il modus operandi delle forze armate israeliane, che pur con mille cautele, agiscono motu propriu al di fuori dei propri confini. Se, da una parte, si possono comprendere i timori israeliani dovuti al possibile e potenziale approvigionamento di armamenti sofisticati da parte di formazioni nemiche dello stato ebraico, dall'altra i concreti rischi di emulazione di paesi nemici alla potenza israeliana, si possono tragicamente concretizzare nella direzione opposta. Non va dimenticato, infatti, che l'Iran è sicuramente, anche se non ufficilamente, presente sul suolo siriano a fianco dell'esercito governativo, ed un possibile incidente, che coinvolgesse el sue parti avverse avrebbe sicuramente conseguenze nefaste, dopo le tensioni che hanno caratterizzato la seconda parte dello scorso anno, per la questione del nucleare di Teheran. Gli sconfinamenti israeliani possono quindi innescare quella diffusione del conflitto siriano tanto temuta dal mondo, nella regione più nevralgica del pianeta. Diventa, quindi, sempre più necessario affrontare il conflitto siriano in maniera sovranazionale, con un impegno concreto dell'ONU, per fermare i continui massacri ed evitare una guerra con conseguenze ancora maggiori.

martedì 29 gennaio 2013

Egitto: le forze armate possono esercitare un ruolo più importante nello stato

Nella condizione sempre più incerta, in cui si trova attualmente l'Egitto, è ancora l'esercito uno dei punti fermi dello stato. Malgrado i ripetuti tentativi di delegittimazione e la ristrutturazione imposta dal nuovo governo, le forze armate dimostrano di potere esercitare ancora un ruolo istituzionale di primo piano. Le dichiarazioni del Ministro della Difesa Abdel Fatah El Sisi, sono state molto significative al riguardo. Per i militari la crisi che sta perdurando nel paese, rischia di portare lo stato al collasso, il raggiungimento della stabilità appare lontano, per la condizione di continuo conflitto tra le diverse forze politiche e l'estremizzazione del trattamento della cosa pubblica, con l'imposizione di leggi e provvedimenti non condivisi, come la proclamazione della nuova costituzione, che si basa fortemente sulla legge islamica, escludendo la laicità dello stato. Il rischio concreto è la minaccia della sicurezza dell'apparato statale e l'unità della nazione, senza le quali il futuro delle giovani generazioni, ma non solo, appare fortemente compromesso. Tuttavia il ministro della difesa ha affermato che le forze armate resteranno un argine contro questa deriva, ed in quest'ottica va visto il dispiegamento dell'esercito per proteggere gli obiettivi più sensibili del paese, come il canale di Suez, considerato fondamentale nelle infrastrutture dello stato. Tra i militari è molto sentito il problema del diritto dei cittadini a manifestare il proprio dissenso e gli eventuali ordini impartiti alle forze armate per mantenere la sicurezza: il confine tra protezione e repressione appare in casi di esasperazione molto labile, ma nell'esercito vengono vissute con disagio le direttive che impongono l'uso della forza contro i manifestanti. Occorre dire che all'interno dei militari le idee di matrice islamica, che hanno portato al potere i Fratelli Musulmani, non hanno mai attecchito e che lo spirito delle forze armate è sostanzialmente laico. Proprio per questo i rapporti con i partiti al governo non sono dei migliori, l'apparato militare avrebbe preferito una vittoria di quella che ora è l'opposizione per una serie di ragioni sia di politica interna che estera. L'invasività nella vita civile dei partiti confessionali, incapaci di trovare una sintesi con le forze laiche, ha parzialmente isolato i militari dalla vita dello stato, dove prima svolgevano un ruolo da protagonista, confinandoli all'interno dei loro esclusivi compiti istituzionali, ma i militari, mantenendo una sorta di imparzialità durante la primavera araba, hanno evitato derive pericolose, limitando, anche se non del tutto, gli episodi di violenza. Grazie a questo comportamento credevano di avere meritato un ruolo più attivo nella costruzione del nuovo stato, sorto dalla fine della dittatura di Mubarak, ma la diffidenza dei vincitori della tornata elettorale, ben consci della loro laicità, ne ha limitato il raggio di azione. Soltanto la situazione attuale, sempre più incerta, che determina una sostanziale ingovernabilità, può ridare ai militari un ruolo di bilanciamento del sistema, che pareva perduto. Ciò è quello che teme la parte al potere e ciò che potrebbe auspicare quella all'opposizione: la trasformazione dello stato egiziano in una sorta di teocrazia, tra l'altro avvenuta in modo subdolo, può fare superare ai partiti politici sconfitti, eredi di quei movimenti laici messi fuori legge da Mubarak, la sfiducia nelle forze armate in quanto espressione dello svolgimento del ruolo di braccio armato del dittatore. Pur essendo vero che i militari, ad un certo punto della ribellione, hanno operato una inversione di rotta nei confronti di Mubarak, sostanzialmente abbandonandolo sotto la spinta della folla, dopo averlo inizialmente protetto, successivamente hanno dimostrato con i fatti la loro propensione verso la costruzione di uno stato non confessionale, come scelto dalla maggioranza degli egiziani. Anche nella politica estera, l'allontanamento dagli USA, non è ben visto dai militari, che potevano contare su forme di collaborazione e rifornimento di armi da Washington, ora sostanzialmente sospese, per l'indirizzo assunto dal governo de Il Cairo. Se un colpo di stato non è pensabile, appare però non improbabile la ricerca del riconoscimento di un ruolo meno defilato nella gestione dello stato, sopratutto in ragione di una effettiva impossibilità del potere politico di gestire il diffuso malcontento, che si sta materializzando sempre più spesso con manifestazioni di dissenso. Se le forze armate o la situazione contingente riusciranno ad obbligare le forze governative a trovare un accordo con i militari, l'indirizzo fortemente confessionale preso dall'Egitto potrà senz'altro essere mitigato, con aperture favorevoli anche per l'occidente in una parte nevralgica, per la pace nel mondo.

Il problema dell'indipendenza dei Tuareg come mezzo per eliminare il terrorismo islamico dal nord del Mali

L'evoluzione della situazione del nord del Mali potrebbe aprire le porte a nuovi scenari. Dopo circa un anno dalla ribellione dei Tuareg, a causa di una situazione ormai lunga di ingiustizie e per la rivendicazione di un proprio stato autonomo, la rivolta separatista si è trasformata in caso internazionale per l'intervento militare francese contro gli estremisti islamici, che nel frattempo si sono inseriti nella dissoluzione dello stato del Mali. La condizione iniziale che ha favorito la ribellione del popolo degli uomini blu è stata la fine del regime di Gheddafi, che ha liberato l'accesso agli arsenali libici e, nel contempo, ha causato la fuga dei miliziani fedeli al regime verso i territori desertici, ma non presidiati dello stato maliano. Questo aspetto ha, però, favorito l'inserimento nella questione dei gruppi Jihadisti, che, ha causa della forza insufficiente dei tuareg per sostenere la propria battaglia, hanno rappresentato per gli insorti un alleato naturale. Si è passati così da uno stato di anarchia ad uno dove l'imposizione più stretta della legge coranica, la sharia, ha preso il sopravvento, grazie all'emarginazione dei tuareg, in ragione della maggior forza militare degli estremisti islamici. La condizione del popolo del nord del Mali è subito peggiorata, perchè sottoposta ad atrocità ed abusi per mezzo di amputazioni, fustigazioni ed esecuzioni pubbliche, comminate spesso per reati di poca entità o addirittura inesistenti. In realtà lo stato di terrore imposto alla popolazione civile è servito per coprire le attività illecite dei fondamentalisti, che controllano il traffico dei migranti, il mercato delle armi e le vie della droga; ultimamente il business dei rapimenti di occidentali è quello che si è rivelato tra i più redditizi. Soltanto per questi motivi un intervento internazionale era auspicabile, la responsabilità delle nazioni più evolute non poteva permettere lo stato di pesante costrizione a cui la pacifica popolazione del Mali settentrionale era costretta. Tuttavia insieme alle ragioni umanitarie occorreva impedire la formazione di una entità autonoma, dotata di un proprio territorio, dove potesse svilupparsi una gigantesca base per il terrorismo islamico, per di più quasi sulle coste meridionali del Mediterraneo. L'azione francese ha supplito all'assenza del resto del mondo, nonostante esistesse un impegno preso da una risoluzione del Consiglio di sicurezza che approvava un intervento armato, senza, però, fissare una tempistica certa. L'avanzata dei ribelli verso il sud del paese ha così accelerato i tempi e la manovra di Parigi, che, senza essere sostenuta, in un isolamento colpevole, ha permesso al governo legittimo del Mali di riconquistare praticamente l'integrità della sua sovranità. Ma l'estrema povertà del Mali non consente al suo governo un dominio continuato sui suoi territori, la forte instabilità del paese, senza aiuti esterni, che in questa fase devono essere essenzialmente di tipo militare, potrebbe dare luogo ad una varietà molteplice di scenari, da cui la stessa capitale, Bamako, non è immune, per il forte disagio sociale e la violenza latente presente nella città. Quello che è in pericolo non è solamente l'integrità del paese ma le conseguenze, anche sui paesi vicini, di un possibile allargamento dell'influenza dell'estremismo islamico. Del resto la creazione di una vasta area dove estendere il proprio potere è uno degli obiettivi dichiarati di Ansar al-Din, il Movimento per l'unità e la Jihad in Africa occidentale (MUJAO) e Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM). Questi tre gruppi radicali, che mantengono forti legami tra loro, mirano a creare uno stato islamico governato dalla sharia ed ambiscono ad espandersi fino alla Nigeria, dove grazie agli atti dei radicali islamici compiuti contro i cattolici, possono trovare una accoglienza favorevole da gran parte della popolazione. Una possibilità per evitare il contagio dell'estremismo, potrebbe essere quella di eliminare la questione dei tuareg, che rimane irrisolta e pronta sempre a prendere ogni possibilità per raggiungere l'indipendenza, come i fatti recenti hanno dimostrato. Ma il problema non è di facile soluzione perchè i territori rivendicati dagl i uomini blu comprendono aree presenti, oltre che nel Mali, anche in Algeria, Libia, Niger e Burkina Faso. Il Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad (MNLA), il gruppo separatista che rappresenta le istanze dei tuareg, chiede la formazione di uno stato indipendente, per evitare la continuazione dell'emarginazione subita da anni da governi centralisti che non hanno mai compreso la vita nomade di questa popolazione. Peraltro si tratta di aree più o meno desertiche dove la maggiore ricchezza sono le vie commerciali che attraversano il deserto del Sahara. I tuareg non sono degli estremisti religiosi ed un loro stato non dovrebbe subire le influenze dell'islamismo radicale, inoltre potrebbero presidiare il territorio contro l'espansione di movimenti terroristici, anche grazie a forme di cooperazione con i paesi occidentali. Per il momento però questa soluzione appare remota, proprio per la compromissione delle tribù nomadi con i radicali islamici, anche se dovuta più che altro a ragioni funzionali e di opportunità. Ma il trattamento riservato al Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad, anche a causa di divisioni interne, dagli islamisti, che lo hanno praticamente espulso dalla loro zona di influenza, potrebbe costituire un mezzo attraverso il quale guadagnarsi la loro fiducia, certo dopo, avere concesso almeno qualche forma di autonomia. Pur non essendosi pronunciato ancora ufficilamente sull'intervento francese il Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad ha già denunciato, attraverso il suo rappresentante in Europa, i comportamenti repressivi degli islamisti, lanciando un chiaro segnale di avversione. che l'occidente dovrebbe sfruttare nella maniera più completa.

lunedì 28 gennaio 2013

Israele teme il destino dell'arsenale chimico della Siria

Il timore che l'arsenale chimico siriano, o parte di esso, possa cadere nelle mani dei miliziani di Hezbollah o della parte islamica dei ribelli di Siria, sta provocando uno stato di allarme in Israele. Nell'immediato, batterie di missili "Iron Dome" sarebbero state schierate a nord del paese ed esisterebbe già un progetto per la costruzione di una barriera di sicurezza, lungo il confine siriano, del tutto simile a quella sul confine meridionale con l'Egitto. La preoccupazione è molto alta a Tel Aviv, dove la minaccia potenziale che potrebbe provenire dalla Siria viene considerata pericolosa al pari dell'Iran, per la stessa esistenza dello stato di Israele. Ciò che è molto temuto è l'inserimento di Teheran nella dissoluzione del regime di Assad e nella possibilità di impadronirsi delle tanto temute armi chimiche, l'Iran è il maggiore alleato della Siria di Assad e suoi uomini hanno combattuto o stanno combattendo a fianco dell'esercito regolare contro i ribelli, questa presenza sul territorio potrebbe permettere un facile accesso agli arsenali non convenzionali ed una conseguente distribuzione alle milizie degli armamenti. Israele guarda con preoccupazione a questi possibili sviluppi, tanto da definire la movimentazione delle armi chimiche il confine oltre il quale sarebbe altamente probabile un intervento diretto, volto a scongiurare tale possibilità. Malgrado le affermazioni ufficiali circa lo schieramento delle batterie "Iron Dome", venga definito come un normale avvicendamento, la tensione negli ambienti militari è palpabile, mentre si guarda allo sviluppo della situazione. Quando si parla di un possibile coinvolgimento diretto di Israele fuori dai propri confini è inevitabile analizzare la situazione negli Stati Uniti: Obama continua ad essere scettico in un coinvolgimento diretto delle forze armate USA in Siria; il Presidente americano deve valutare le conseguenze di un conflitto sia in rapporto all'impegno ancora esistente in Afghanistan, sia agli sviluppi della guerra civile siriana, le risorse americane, benchè ingenti, non sono infinite ed il timore di un nuovo impegno prolungato spaventa la Casa Bianca. Tuttavia se Tel Aviv decidesse di intervenire non sarà lasciato solo, la speranza a Washington è che si possa trattare di un'azione lampo circoscritta al solo scopo di impedire la distribuzione degli arsenali chimici. Ma la presenza iraniana sul campo rischia che da un episodio circoscritto si arrivi ad un confronto più ampio, proprio tra Tel Aviv e Teheran sebbene in campo neutro. Questo scenario sarebbe completamente nuovo rispetto alle tante congetture elaborate per un possibile attacco dei caccia israeliani ai siti dove si pensa venga costruita l'atomica scita. Difficile pensare ad una soluzione certa di tale confronto, se non una completa destabilizzazione della regione, la Siria potrebbe diventare un gigantesco campo di battaglia, dove andrebbe in scena non soltanto la guerra civile già in corso, ma un conflitto tra potenze straniere capace di alterare le alleanze e lo sviluppo del conflitto interno con conseguenze pericolose per i rapporti internazionali anche tra stati non direttamente coinvolti. La questione è seguita anche dalle altre cancellerie, in particolare il Cremlino, che mantiene la sua posizione pilatesca, che propugna la soluzione interna riservata al solo popolo siriano. La formula mira alla salvaguardia della persona del dittatore Assad, cui potrebbe essere riservato diritto di asilo e nel contempo che possa permettere a Mosca di mantenere la propria base navale, unica presenza russa nel Mediterraneo. Ma i negoziati che la Russia continua a promuovere tra le parti hanno ormai poca speranza di arrivare ad una conclusione, come poche possibilità sono ormai che Assad abbia ragione dei ribelli, i quali, però a causa delle loro divisioni non riescono a dare la spallata finale al regime, ma l'allargamento del conflitto potrebbe ridare speranze allo stesso Assad, a cui potrebbe giovare una situazione di maggiore confusione. In questa ottica, la presenza di piani per favorire tale degenerazione non sarebbe così improbabile, sopratutto in relazione alle parti che potrebbero avvantaggiarsene.

La Cina minaccia la Corea del Nord

La pazienza della Cina, nei confronti della Corea del Nord sembra finita. L'interesse principale di Pechino è che nella regione vi sia stabilità e la tensione che si è sviluppata in conseguenza del lancio del razzo da parte di Pyongyang ha provocato le dure reazioni di USA, Corea del Sud e Giappone, che sono culminate nelle nuove sanzioni a cui la dittatura ereditaria è stata sottoposta, proprio con l'avallo cinese. La Corea del Nord può contare solo sull'alleanza con la Cina, per il resto non intrattiene, praticamente relazioni con altri stati, tanto da essere stata definita stato eremita. Dal legame con la Repubblica Popolare Cinese provengono, in maniera esclusiva, tutti gli aiuti economici, che consentono al paese, seppure tra infinite difficoltà, la sopravvivenza. Questa situazione permette di comprendere come la Cina sia l'unico attore internazionale che possa esercitare una influenza concreta sulla Corea del Nord, tale da fermare l'escalation nucleare di Pyongyang. Si è arrivato così alla concreta minaccia della riduzione degli aiuti essenziali per il paese nordcoreano, se si verificheranno ulteriori test nucleari. Del resto mai, fino ad ora, la posizione cinese era stata più esplicita di adesso, con l'approvazione delle sanzioni Pechino ha formalmente censurato di fronte al mondo intero le velleità della Corea del Nord. Ma il passo successivo, della minaccia della sospensione degli aiuti, segna uno sviluppo ancora ulteriore nel volere esercitare l'influenza decisiva nei confronti dell'alleato, tanto che le relazioni tra i due paesi stanno attualmente vivendo il punto più basso della loro storia. Pechino ha più volte mostrato comprensione verso questo stato ed i comportamenti bizzarri dei suoi governi, sfruttandone in maniera funzionale ai suoi scopi le azioni estemporanee, in maniera di avere un mezzo di persuasione indiretto contro gli stati concorrenti della regione, come la Corea del Sud ed il Giappone. Ma il nuovo corso cinese pare ormai orientato ad un maggiore pragmatismo, da attuare soltanto trovando un rapporto il più redditizio possibile tra gli investimenti effettuati, anche in politica estera, ed i guadagni strategici ricavabili. Se questo teorema è vero l'inaffidabilità della Corea del Nord la pone al di fuori dello spettro degli investimenti potenziali cinesi, almeno finchè non manterrà una condotta più regolare. Nel passato parevano esistere progetti di Pechino sull'utilizzo della manodopera nordcoreana, senz'altro a bassissimo costo, ma non certo specializzata a causa dell'arretratezza sia dell'istruzione, che del livello di industrializzazione del paese. Tale situazione presupponeva investimenti massicci, sia in formazione, che in macchinari per rendere i prodotti finiti vendibili in mercati emergenti, con il vantaggio, per Pyongyang della creazione di un reddito capace di innalzare il livello di vita del popolo nordcoreano. Il cambio al vertice con il nuovo dittatore al potere, pareva incoraggiare questa apertura, tuttavia con il passare del tempo e l'intensificarsi degli episodi dubbi, non risultano più chiare le intenzioni del governo e gli effettivi assetti di potere e le ultime vicende possono essere la spia del peso sempre più crescente dei militari. La Cina, inoltre, non ha gradito le dichiarazioni nordcoreane, che anzichè apprezzare il proprio impegno per ridurre gli effetti delle sanzioni, ha bollato Pechino di avere subito l'influenza determinante degli Stati Uniti. Ma ciò non corrisponde al vero: Pechino ha ormai preso atto della assoluta necessità della denuclearizzazione della penisola coreana, allineandosi alle posizioni di Washington, Seul e Tokyo, per la stabilità regionale e per il fastidio di avere un paese confinante con un governo così fuori dai canoni, che dispone dell'arma atomica. Per Pyongyang la minaccia cinese non è da sottovalutare: l'interruzione degli aiuti getterebbe il paese nel dramma, creando una situazione totalmente insostenibile, il finale più probabile, quindi, è una retromarcia della Corea del Nord verso posizioni più miti, anche perchè la Cina non può accettare altra soluzione, dato che un isolamento ancora maggiore della nazione eremita, potrebbe determinare un esodo in massa, a causa della fame, della popolazione nordcoreana proprio entro il territorio di Pechino; esito fortemente temuto dal governo cinese, ma previsto in più simulazioni nel caso della caduta della dinastia comunista ereditaria nordcoreana.