Politica Internazionale

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lunedì 23 maggio 2011

La UE sanziona la Siria

La UE si muove sul problema siriano e dichiara il dittatore Assad persona non grata e ne congela i beni presenti sul territorio europeo. Le brutali repressioni alle rivolte popolari, represse anche con spari sulla folla dopo la celebrazione di un funerale, hanno praticamente obbligato l'Unione Europea a prendere posizione, sebbene con la consueta lentezza. Siamo di fronte comunque ad risposta che ha valore politico ma poco pratico, nulla a che vedere con la risposta data a Gheddafi, che operava repressioni analoghe sulla popolazione libica. La lecita domanda che faceva chi chiedeva se in Libia la risposta militare è stata dovuta alla presenza di petrolio si riaffaccia prepotente osservando la reazione che la UE mette in campo. Tuttavia la presenza del petrolio giustifica solo in parte la diversa misura presa a carico di Assad, infatti la causa ostativa principale ad un nuovo intervento armato è la necessità di non coinvolgere in un ipotetico conflitto, il principale alleato della Siria: l'Iran. Peraltro anche Teheran risulta oggetto delle sanzioni UE per il problema nucleare, Bruxelles teme che gli sviluppi della tecnologia iraniana portino alla costruzione dell'atomica degli ayatollah. Questa paura è condivisa con i principali stati del mondo, ben rappresentati dal gruppo dei 5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) che temono l'atomica in mano al governo iraniano. Tornando alla Siria, l'obiettivo UE è di investire l'ONU per emettere sanzioni a carico del regime di Assad, pratica non facile da sbrigare per l'opposizione di Cina e Russia già rimaste scottate con la risoluzione per la Libia. L'evoluzione della situazione siriana non pare volgere al peggio per il regime vigente, l'apparato militare siriano ha dimostrato di potere contenere le proteste, sebbene con l'uso della violenza ed un intervento esterno appare al momento molto improbabile, quindi la mossa della UE rappresenta il primo passo della strada da percorrere per fare vacillare la dittatura. L'applicazione di sanzioni economiche e commerciali pare dunque, al momento l'unica via per cercare almeno di condizionare il governo della Siria.

domenica 22 maggio 2011

India e Pakistan: il terrorismo motivo in più per la divisione

Uno degli effetti della morte di Bin Laden in Pakistan è stato quello di dare un argomento in più all'India nell'annosa questione dell'inimicizia fra i due paesi. Infatti spesso Nuova Delhi ha accusato Islamabad di dare ospitalità a terroristi che periodicamente attaccano il suo territorio. La questione non è nuova e si può inquadrare nel più ampio dibattito sul terrorismo islamico e l'ospitalità che trova in Pakistan; per questo motivo con gli USA si sono verificati già diversi contrasti, pericolosi per la condotta della guerra afghana. Per quello che riguarda i già burrascosi rapporti tra India e Pakistan la prova della presenza di Bin Laden sul territorio di Islamabad rischia di compromettere quei pochi passi avanti che si erano fatti sulla strada della pace. Le due nazioni sono distanti anche sui rapporti internazionali: il Pakistan ha scelto come partner principale la Cina nell'intento di sollevare la propria economia, scelta che va a contrastare con gli obiettivi dell'India, in prima fila nella competizione economica con Pechino come paese emergente. La scelta del Pakistan è stata vissuta da Nuova Delhi come l'ennesimo sgarbo da parte del paese vicino, che incrementato la tradizionale e storica rivalità. L'India ha subito rinforzato i propri rapporti con gli USA, approfittando anche della inimicizia strisciante tra Washington e Pechino, per affiancare gli Stati Uniti. Nonostante, però la presenza di questi sgarbi continui, entrambi i paesi sono consci della necessità di riannodare i fili del processo di pace, interrotto dall'India dopo l'attentato di Bombay del 2008, nel quale persero la vita 116 persone, della cui responsabilità Nuova Delhi ritiene il Pakistan come mandante. Islamabad ha il problema di essere preda di troppi poteri alternativi a quello statale e di non riuscire a controllare l'interezza del proprio territorio nonostante un esercito di mezzo milione di persone e con la bomba atomica nel proprio arsenale. Questi problemi hanno limitato uno sviluppo economico in linea con gli avanzamenti regionali, specialmente quelli indiani, a causa, sopratutto di una cronica mancanza di infrastrutture, dovuta proprio alla mancanza di investimenti dirottati sul capitolo della difesa. Questo mancato sviluppo ha creato un rapporto diseguale tra i due stati, che invece hanno, sopratutto lungo la frontiera, molte similitudini negli ambiti sociali. Questo fattore economico ha di fatto aumentato la profonda divisione tra i due paesi, con l'India in vantaggio sul Pakistan grazie al suo exploit produttivo. Alla fine il fattore terrorismo è soltanto un elemento in più entro il conflitto dei due stati che risulta un fattore culturale di difficile superamento.

La Lega Araba analizzerà la questione palestinese

Il presidente ANP Abu Mazen ha richiesto in via ufficiale una riunione urgente della Lega Araba per analizzare il discorso di Obama, dove è stato proposto il pripristino dei confini vigenti prima del 1967, tra Israele e Palestina. L'analisi richiesta da Mazen vuole coinvolgere la Lega Araba per focalizzare il più possibile l'attenzione sul problema palestinese, che non ha mai goduto di un livello così alto e favorevole da parte dagli Stati Uniti. L'entrata in campo direttamente dell'organismo sovranazionale arabo più importante potrebbe aggiungere un attore di grande spessore politico nella questione palestinese. Ancora più rilevante sarebbe una riunione della Lega Araba che riguardasse, oltre al problema palestinese, anche le crisi libica, yemenita e siriana. E' quello che ha sostanzialmente prospettato Amro Musa, segretario della Lega Araba, che vuole mettere nell'ordine del giorno dei lavori, proprio i tragici fatti che si stanno svolgendo in paesi arabi e che stanno interessando il mondo intero. Una riunione che dovesse trattare tale ordine del giorno avrebbe la priorità assoluta nell'informazione e sarebbe al centro dell'interesse di tutto il mondo diplomatico. Mai come ora la Palestina ha la necessità di restare al centro dell'attenzione mondiale per riuscire a coronare il sogno di essere una nazione indipendente, la strategia del presidente ANP punta a mantenere vivo il tema, per costringere Israele a subire la pressione internazionale; il momento è favorevole ai palestinesi perchè mai nessun presidente USA si era spinto così in la per avallare la costituzione della Palestina come nazione. Siamo in un momento storico in cui le esigenze di USA, almeno quelli di questa amministrazione, e Palestina sono convergenti ed obbligano Israele sulla difensiva, ma questo non vuole dire che Tel Aviv possa cedere così facilmente.

sabato 21 maggio 2011

Obama spinge Israele ai confini ante 1967

La strategia di Obama nel medioriente aggiunge un altro tassello al puzzle, che il presidente americano sta costruendo. Israele non è più visto come elemento singolo della politica estera USA, ma diventa una parte di un quadro più grande e complesso. Obama, infatti lo ha inserito come elemento particolare e, forse più importante, nel grande insieme che va dalla Tunisia, fino alla Siria. Si capisce, che, per la qualità dei rapporti privilegiati tra i due paesi, Israele, sia tenuto in grande considerazione; ma il potere di Washington su Tel Aviv fa risaltare in maniera ancora più pesante le parole del presidente USA. La direzione indicata da Obama non può che dispiacere la parte al governo in Israele ed in generale l'opinione pubblica conservatrice dei due paesi, ritornare ai confini del 1967, significa rinunciare a pezzi considerevoli di territorio dove, nel frattempo si sono insediati numerosi agglomerati israeliani; la richiesta è pesante ma indica la determinazione USA di rompere con i passati indirizzi. Nelle intenzioni di Obama, come guida della nazione più importante del mondo, obiettivo continuamente ricercato da Washington, non c'è più posto per i due pesi e le due misure, in sostanza non si può chiedere agli arabi di rinuciare su tutto, ed anzi, proprio perchè si vuole dare un'immagine di equilibrio e di giustizia, che certifichi il ruolo di supremazia americano, occorre dare dimostrazione di esercitare, in maniera più che corretta il ruolo di pacificatore, che consenta agli USA l'accredito più volte ricercato nei paesi arabi. Non vi è dubbio che la questione palestinese sia centrale nella questione araba; Obama vuole fare uscire gli USA dallo stereotipo del nemico della nazione araba, la cruciale mediazione nella crisi egiziana e l'impegno della guerra in Libia sono li a provarlo, ma il passo decisivo è la soluzione della questione palestinese, solo quello può fare definitivamente cadere i dubbi verso Washington ed aprire agli USA la via di nuovi accordi con i paesi arabi. In questo quadro Israele non va visto come vittima sacrificale ma oggetto di un duplice investimento che, attraverso la costruzone della nazione palestinese, permetta allo stato ebraico di guadagnare la via della pace, in un momento difficile per la stabilità regionale, ed agli USA consenta di guadagnare quei consensi nei paesi arabi che da tanto tempo va cerando. Uno stato palestinese può permettere di tagliare la strada a tutti quei movimenti, dietro cui stanno l'estremismo islamico ed in ultima analisi l'Iran, che spingono per una pericolosa destabilizzazione dell'area, gli USA lo hanno capito, Israele forse, ancora no.

giovedì 19 maggio 2011

Gli USA investono sulla primavera araba

Gli USA investono sulla primavera araba. Il piano previsto da Obama prevede di rafforzare le nascenti democrazie intervenendo sul lato economico per migliorare la condizione economica e sociale delle popolazioni, in modo da favorire un clima più disteso, che possa permettere lo sviluppo delle nuove forme di governo. La prima mossa prevede di abbonare 1.000 milioni di dollari di debito, inoltre si pensa a nuove linee di credito in aggiunta a quelle già predisposte. L'amministrazione americana intende sfruttare la situazione creatasi con la primavera araba come un'opportunità da sfruttare per costruire una situazione di pace stabile nella regione e per aggiungere i nuovi governi alla lista dei propri alleati. Rinforzando l'economia e migliorando la condizione sociale, Obama intende preparare un terreno di coltura favorevole al radicamento della democrazia. La visione pare corretta, senza una economia stabile, la forma di stato democratica non può affermarsi, perchè gli strati sociali, specialmente i più bassi, possono essere facilmente preda di pulsioni populiste, che possono compromettere il cammino verso l'affermazione di sistemi pluralistici. Non è un caso che sia la rivoluzione tunisina, che quella egiziana siano partite grazie all'esasperazione della situazione economica; ma questa causa può valere anche al contrario: con situazioni in stato di transizione ogni evenienza è possibile. Raggiungere condizioni di stabilità economica, almeno minime, rappresenta la condizione necessaria per la partenza a pieno regime della democrazia in paesi che escono da anni di dittatura. Il pericolo è semmai come potrà avvenire la distribuzione di queste risorse, uno dei motivi scatenanti delle rivoluzioni arabe, oltre alla già citata situazione economica, è stato l'alto tasso di corruzione presente negli apparati burocratici. Caduti i rais che comandavano gli stati, l'impalcatura necessaria alla vita degli stati non è stata smantellata e costituisce l'anello di congiunzione con i vecchi regimi. Organizzare la distribuzione delle risorse sarà molto più difficile che trovare le risorse stesse, proprio perchè quel passaggio sarà fondamentale per dimostrare che le dittature sono cadute.

Le implicazioni libanesi della crisi siriana

Si aggrava la situazione siriana ed il conflitto interno rischia di essere esportato in Libano. Le forze armate siriane hanno schierato i propri reparti corazzati lungo la frontiera libanese per operare una feroce repressione presso la cittadina di Arida, teatro delle più dure proteste contro il regime. Dalla vicina cittadina libanese di Wadi Khaled si possono vedere ad occhio nudo le devastazioni dei militari siriani, che hanno incendiato diverse abitazioni. Nella Siria occidentale, notizie provenienti da attivisti siriani parlano di oltre 40 morti, da sabato scorso, a causa delle repressioni operate in nome del regime da parte sia delle forze armate che da parte di bande lealiste al governo in carica. I mass media governativi siriani, imputano, invece, la responsabilità delle violenze avvenute al confine da terroristi provenienti dal Libano, in particolare a membri del partito del premier uscente Saad Hariri, alleato dell'Arabia Saudita. La manovra siriana rischia di trascinare anche il Libano nell'ondata di violenza di Damasco, ma è un rischio ben calcolato da parte di Assad e, da cui anzi, il presidente siriano può addirittura trarre vantaggio. Innanzitutto l'operazione può rientrare nella strategia siriana di prendere tempo, in attesa che la situazione, senza interventi o pressioni esterne, volga pienamente a suo favore, tramite anche lo spostamento dell'attenzione internazionale su altri temi, come già sperimentato favorevolmente la scorsa settimana, con l'episodio alla frontiera israeliana. Ma l'elemento più rilevante potrebbe essere l'occasione per tentare, per l'ennesima volta, di allungare la sfera d'influenza siriana sul paese dei cedri. La storia libanese, anche recente, è costellata di tentativi siriani di condizionarne la politica, che hanno portato anche a soluzioni violente nel teatro libanese. Per la Siria e per l'Iran, suo principale alleato, potere disporre del territorio libanese potrebbe assumere una rilevanza tattica enorme nei confronti di Israele, che diverrebbe, così, sotto costante minaccia, non più dei soli Hezbollah, ma di un pericolo più importante. Se dovesse verificarsi questa eventualità, peraltro da sempre cercata da Damasco, la, già fragile, stabilità della regione sarebbe definitivamente compromessa, trascinando in una spirale pericolosa l'intero pianeta.

mercoledì 18 maggio 2011

Egitto: le forze armate smentiscono di lavorare per l'amnistia di Mubarak

l Consiglio supremo delle forze armate egiziane, l'organo che sta governando l'Egitto in questo periodo di transizione, ha negato di stare elaborando un piano che possa prevedere l'amnistia per Mubarak. L'esigenza di sottolineare l'estraneità a questa eventuale misura è nata dopo che è circolata la notizia che lo stesso Mubarak stesse preparando un messaggio alla nazione per discolparsi degli addebiti che gli sono stati mossi e di rinuciare alle sue ricchezze, per cui è incriminato per appropriazione indebita, in cambio di una amnistia. Il sospetto nell'opinione pubblica egiziana che è maturato subito dopo avere conosciuto la notizia è stato quello di una collaborazione tra le forze armate ed il vecchio presidente, per coprire le malefatte di ambo le parti, una sorta di complicità, quindi, negli anni trascorsi con Mubarak al governo. In questo momento neppure il potentissimo esercito egiziano può permettersi di transigere su argomenti così delicati; ogni giorno, sebbene non venga dato più risalto alla cosa, Il Cairo è percorso da manifestazioni in favore della democrazia ed i militari, pur rappresentando l'unico elemento di stabilità, non sono visti benevolmente dall'intera società egiziana, proprio per i loro trascorsi. Le forze armate non possono permettersi di avere ancora il benchè minimo legame con il vecchio regime ed hanno affermato di non volere intralciare il processo legale che dovrà verificare i reati dei governi Mubarak e dal quale l'Egitto intero aspetta giustizia. I sentimenti dell'opinione pubblica, quindi, non paiono lasciare spiragli ad un possibile perdono per Mubarak ed il suo entourage, troppo vicini i lutti della repressione, troppo radicato il risentimento per i metodi brutali che si sono susseguiti per 30 anni, troppo il peggioramento della qualità della vita, sia economica che sociale nello stato delle piramidi.