Politica Internazionale

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lunedì 1 agosto 2011

La strategia di Al Qaeda nello Yemen

In uno Yemen sempre più sconvolto dalle proteste, sembra l'ora del tutti contro tutti. Innazitutto continuano ad affrontarsi nelle piazze e nelle vie di San'a i sostenitori del presidente Saleh ed i suoi avversari, che spingono per un rinnovamento dopo i 33 anni ininterrotti di governo dello stesso Saleh. Le fila dell'opposizione vanno sempre più ingrossandosi ed ora annoverano anche alti ufficiali che sono passati con tutte le loro truppe e mezzi, anche blindati, che vengono, sempre più spesso schierati nelle manifestazioni di piazza. In questo clima da guerra civile cerca di inserirsi Al Qaeda, con lo scopo sempre meno velato di introdurre nel paese la sharia come legge ufficiale. L'azione dei qaeddisti si muove su due linee principali: l'infiltrazione nei cortei e nel movimento di protesta nei centri urbani, mentre nei villaggi più remoti vengono prese di mira, con attacchi armati sia le truppe regolari, che le tribù avverse ai fondamentalisti islamici. Lo scopo è quello di instaurare uno stato di terrore, che sommato a quello di profonda incertezza che attraversa il paese, ha il compito di portate ulteriore elementi di destabilizzazione dello stato yemenita. Ma se nelle zone più remote l'azione terroristica può sembrare più agevole, perchè basata esclusivamente sull'uso della forza, più complicata risulta l'opera nelle città e all'interno del movimento di protesta. La natura del movimento di opposizione somma diverse tendenze, ma non sembra che la natura confessionale sia preponderante ed anzi la direzione presa, sembra quella di una forma di governo a cui possano partecipare i diversi partiti finora esclusi dall'agone politico. Tuttavia il capo di Al Qaeda nello Yemen, Nasser Al Wahishi, in una comunicazione audio inviata ad Ayman Al Zawahiri, successore di Osama Bin Laden, ribadisce la critica generale al sistema dei partiti di opposizione e la ferma volontà di instaurare la legge islamica nel paese.

Tra Israele e Libano sparatoria pericolosa

La situazione al confine israelo-libanese ritorna ad essere difficile. Una sparatoria tra soldati delle due nazioni sarebbe avvenuta nelle prime ore del 1 Agosto, intorno alla linea blu, il confine tracciato dall'ONU nel 2000, a seguito del ritiro dell'esercito israeliano, dopo i ventidue anni di occupazione. Le versioni delle due parti ovviamente non collimano, per i libanesi, gli israeliani sarebbero penetrati per almeno 30 metri fuori dal loro territorio, mentre per gli israeliani i loro soldati sarebbero stati oggetto del fuoco nemico all'interno della propria frontiera. La scaramuccia, se inquadrata come singolo episodio rientra nella "normale" dialettica tra i due stati, tuttavia questa lettura in questo momento appare errata, in ragione della diatriba sui confini marini tra le due nazioni, che rischia di innescare un motivo ulteriore di riscaldamento nella regione. Israele intende interpretare in modo estensivo la prassi internazionale per spostare i propri confini marini, facendo così rientrare sotto la propria giurisdizione una porzione di mare sotto la quale sarebbero stati trovati dei giacimenti di idrocarburi. La mossa israeliana appare molto avventata, soprattutto in questo momento, attraversato da notevoli problemi nella regione. Presente questa questione, entrambi gli eserciti hanno sicuramente innalzato il livello di attenzione lungo la frontiera e non è escluso che la pressione sulle rispettive truppe sia la vera responsabile della sparatoria. Tuttavia dato l'innalzamento del livello della tensione, occorrerrebbe che le Nazioni Unite mettessero la questione del confine marino israele-libanese al centro dei loro lavori al più presto per evitare di andare verso l'apertura di un possibile nuovo conflitto.

sabato 30 luglio 2011

La rete iraniana del terrore

Gli USA accusano l’Iran di essere alleati con Al Qaeda. Arriva dal dipartimento del tesoro americano, quello che pare piu’ di un sospetto, l’avviso che Teheran sia un punto di transito delle finanze del gruppo terroristico islamico, con destinazione Pakistan. Non solo, il transito riguarderebbe anche effettivi volontari pronti a combattere sotto le insegne qaeddiste. Si tratterebbe sia di stranieri addestrati in Iran, sia di miliziani reclutati in loco. Facile immaginare la destinazione: la frontiera tra Pakistan ed Afghanistan, teatro della dura guerra, quasi di posizione, tra le milizie talebane e e le truppe NATO. Dal punto di vista teologico questa alleanza pare un paradosso, giacche’ il regime iraniano segue il ramo scita dell’islam, che Al Qaeda ha bollato come eretico, ma la valenza politica e militare ne costituisce il vero cardine; d’altro canto non e’ neppure una novita’: immediatamente dopo l’undici settembre Washington punto’ subito il dito contro Teheran, come uno dei possibili mandanti dell’attentato. Quello rilevato dal dipartimento del tesoro USA, costituisce una conferma di una rete piu’ volte identificata, che e’ la spina dorsale della politica estera iraniana, che con la sua azione sottotraccia, si muove in una rete ramificata di ambienti terroristici e governativi, che hanno come unici obiettivi gli USA stessi ed Israele. Si va, appunto dai combattenti Talebani in Afghanistan, ai servizi deviati pakistani, agli Hezbollah libanesi, al governo siriano, ai terroristi iraqeni fino ad arrivare ai palestinesi di Hamas. La condotta dell’Iran si muove attorno ad una politica fatta di aiuti militari, finanziari e logistici, che tengono in costante apprensione gli USA, non tanto per azioni eclatanti, come invece piu’ volte minacciato da Teheran, quanto per una tattica quasi di guerriglia fatta di piccole o medie azioni di disturbo capaci di influenzare concretamente e l’aspetto delle sicurezza e l’aspetto della diplomazia. Esiste una fascia di territorio, nel mondo, dove queste azioni hanno una continuita’ sia di movimento che di capacita’ politica di influenza tale da fare guadagnare consensi alla causa iraniana. Tutto questo, poi e’ contiguo ai problemi internazionali dell’Iran, connessi sia al regime di isolamento, peraltro facilmente aggirabile, sia alle sanzioni, cui Teheran e’ sottoposta per il problema nucleare. Anche per questo versante l’uso spregiudicato delle alleanze risulta conforme al ragionamento iraniano, che ne fa ragione e di disturbo e di confusione.

venerdì 29 luglio 2011

Le implicazioni politiche del debito USA

Sul debito gli USA vanno incontro alla pilatesca decisione del rinvio. Con le elezioni incombenti, vero ostacolo ad una soluzione strutturale, la strada sembra già tracciata: nonostante una serie di discussioni, anche particolarmente accese, nessuno dei due schieramenti vuole prendersi la responsabilità di prendere accordi con gli avversari, che pregiudichino il rapporto con i propri elettori. Quindi il livello del debito sarà innalzato ed il problema rimandato dopo le elezioni. La situazione è un chiaro esempio di come la politica tenga in ostaggio l'economia e come, alla fine tutto ricada sulla popolazione. Gli USA sono ora in ostaggio di un sistema sbilanciato che mette in competizione il potere legislativo con quello esecutivo, quando la maggioranza che costituisce un potere non coincide con l'altra si arriva allo stallo. Ad aggravare la situazione vi è poi la complicata situazione interna del partito repubblicano, dove il movimento del tea party rischia di fare saltare i già delicati equilibri. Formatosi in base ai sentimenti dell'america bianca più profonda il tea party all'inizio è stato usato dai vertici del partito repubblicano per evidenziare le contraddizioni di Obama. Ma la pochezza ed anche gli scarsi argomenti dei repubblicani hanno finito per fare diventare prevalente il movimento del tea party in seno al partito conservatore americano. A questo è dovuto l'irrigidimento che ha portato al rinvio. L'economia americana, in realtà non è a rischio default, se non con possibilità remote, perchè gli interessi sui titoli decennali USA restando bassi dimostrano la fiducia dei mercati. Il problema più grosso è quello sociale, Washington deve fare i conti con un numero di disoccupati che ha raggiunto la quota astronomica di 29 milioni di persone, pari al 9,2 per cento ed i 18.000 nuovi posti di lavoro di Giugno rappresentano veramente poca cosa. Con queste premesse potrebbe avvicinarsi un conflitto sociale di proporzioni enormi, senza una soluzione politica il debito americano rischia di innescare una reazione a catena sui cui effetti la Cina è l'attore maggiormente preoccupato. Pechino ha nei suoi forzieri una quota pari a 1.600 miliardi di dollari di titoli americani e quindi non ha alcun interesse a soffiare sul fuoco del debito USA, tuttavia Hillary Clinton, durante una sua recente visita a Hong Kong, si è impegnata a rassicurare le autorità cinesi. Al momento la Cina non ha problemi di liquidità, nella peggiore delle ipotesi il debito cinese, comprendendo nel conteggio oltre allo stato anche le amministrazioni locali, potrebbe toccare il 40 per cento del PIL. Le implicazioni sono però, ancora una volta politiche, i rapporti tra Cina ed USA sono costellati da frizioni, che spesso si risolvono con compromessi raggiunti a fatica, nella competizione per potenza globale ormai la partita è a due: ma la quota di debito USA in mano alla Cina costituisce una vera e propria arma puntata su Washington, il cui blocco politico interno, alla luce di ciò risulta essere una pericolosa aggravante.

giovedì 28 luglio 2011

In libia non partono i negoziati

La situazione libica, oltre che dal punto di vista militare, è sempre più difficile anche dal punto di vista diplomatico. Gheddafi non è disposto ad intavolare alcuna trattativa con la controparte, senza che siano cessati i bombardamenti NATO, inoltre una eventuale fuoriuscita dal paese e la rinuncia del potere, da parte del rais, non costituiscono materia di trattativa. Questi assunti smentiscono le possibili soluzioni ventilate nei giorni scorsi da Mosca e delineano una strategia che punta a nuove sortite militari contro i ribelli qualora si blocchi lo scudo aereo. Infatti la condizione posta per aprire i negoziati non pare sincera e viene proposta per sfruttare il vantaggio dato a Tripoli dall'artiglieria pesante e dalle forze di terra. Una tregua aerea, in una fase di stallo come l'attuale, potrebbe permettere a Gheddafi di riguadagnare posizioni. Questa evenienza si accorda perfettamente con tutta la condotta del conflitto pensata a Tripoli, che consiste nel guadagnare tempo per cristallizzare la situazione. Conscio della impossibilità di una soluzione rapida del conflitto, al contrario dei volenterosi, Gheddafi, ha impostato su questa convinzione la guerra, probabilmente dando per persa la parte orientale del paese e cercando di mantenere sotto il proprio controllo la parte occidentale, dove gode di maggiore appoggio. Più il tempo scorre, più il rais ha possibilità di evitare la Corte dell'Aja o l'esilio. Tra qualche tempo non sarà più possibile protrarre il conflitto e l'unica soluzione sarà dividere in due la Libia, entità artificiale creata dal colonialismo italiano. Questa è la strada su cui Tripoli vuole portare il conflitto, la perdita di Bengasi e dell'oriente del paese è un pegno accettabile per il mantenimento del potere. Intanto il Regno Unito ha riconosciuto come unico rappresentante del popolo libico il Consiglio nazionale transitorio ed ha espulso i funzionari legati a Tripoli; tuttavia Gheddafi insiste anche sul lato diplomatico con missioni a Tunisi ed a Il Cairo di suoi emissari, rivelando di essere tutt'altro che isolato.

Potrebbero ripartire le trattative tra le due Coree

Un incontro durante il forum regionale per la sicurezza dell'Associazione dei paesi del sud est asiatico, in Indonesia, potrebbe fare ripartire i colloqui sul nucleare tra le due Coree, interrotti da circa tre anni. Il negoziato a sei, che oltre le due Coree comprende anche USA, Cina, Giappone e Russia, mira, come fine ultimo, a bloccare la proliferazione nucleare a scopo militare perseguita dalla Corea del Nord. La diplomazia internazionale non si è lasciata sfuggire l'occasione per fare riallacciare il dialogo che può risolvere una minaccia concreta in una zona nevralgica del mondo.
L'attivismo degli USA, che con Hillary Clinton ha trattato il tema con i più alti vertici cinesi, dimostra quanto Washington tenga alla risoluzione della vicenda, ponendo come condizione per la ripresa formale dei negoziati, il miglioramento delle relazioni tra le due nazioni della penisola coreana. In special modo a Pyongyang viene chiesto un cambio nel comportamento verso Seul e la fine delle provocazioni, come il bombardamento del territorio e l'affondamento della corvetta sud coreana avvenute nel 2010, quando, in seguito a questi fatti, si è più volte sfiorato il conflitto armato. Quello a cui mirano gli USA è una distensione a tutti gli effetti, che possa favorire il dialogo verso una definizione positiva, per la quale sono ritenuti essenziali presupposti chiari e lineari. Non è, purtroppo ancora così: la Corea del Nord starebbe preparando manovre militari, proprio nella zona calda del Mar Giallo ed inoltre è stato scoperto un sito per l'arricchimento dell'uranio, tuttavia per usi pacifici. Va anche ricordato che il regime di Pyongyang dal 2009 impedisce agli ispettori dell'AIEA di effettuare sopralluoghi ai siti nucleari. Nonostante questi presupposti negativi, i quattro paesi che partecipano ai negoziati non intendono lasciarsi sfuggire l'occasione per tenere in vita la speranza della risoluzione del problema, anche in forza delle sempre più difficili condizioni interne della Corea del Sud, dove la popolazione continua a patire le gravi condizioni economiche. Uno sblocco delle trattative potrebbe dirottare i fondi per la ricerca nucleare verso il miglioramento delle condizioni di vita dei nordcoreani, anche se questa opzione è ritenuta remota dagli stessi negoziatori.

mercoledì 27 luglio 2011

Tendenze attuali e possibili sviluppi dell'economia tedesca nella UE

La rigidità della Germania nei confronti dei paesi in difficoltà della zona euro, non è soltanto dettata dalla previdenza per il corso futuro dell'economia europea. In realtà uno dei fattori che concorrono a questa politica è dato anche dallo sviluppo dell'economia tedesca, che sta spostando sempre di più il baricentro lontano dal continente europeo. Per ora il fenomeno è in crescita, ma non rappresenta ancora l'aspetto maggioritario dell'andamento e la zona euro rappresenta ancora il mercato centrale per Berlino. Ma i dati indicano che in futuro questa centralità potrebbe cambiare, portando la Germania a concentrarsi in maggior misura oltre i confini europei. La tendenza è confermata dagli investimenti che la locomotiva europea, che ha ripreso a viaggiare in modo sostenuto, sta effettuando nei paesi che ritiene più stategici: Russia, Cina, India e Brasile, a discapito di Italia, Francia e Regno Unito. Anche politicamente non manca il sostegno di Angela Merkel, che è impegnata costantemente in prima persona a rappresentare gli sforzi del governo a favore dell'economia tedesca, sia in patria che all'estero. Quello che la Germania sta facendo è prepararsi al futuro, per superare la stagnazione dei mercati maturi per aggredire le opportunità offerte dai paesi in via di sviluppo. Se questa tendenza dovesse confermarsi si aprirebbero scenari futuri pieni di incognite sia per l'Unione Europea che, in misura maggiore la moneta unica. Pensare ad una UE senza la Germania appare poco probabile, il paese è sempre stato europeista convinto, tuttavia i travagli dell'euro hanno generato dubbi molto forti sulla convenienza della moneta unica. D'altro canto, oramai, pensare ad una forma di unione politica senza l'euro appare sostanzialmente difficile. Prima o poi il problema dovrà porsi, la Germania avrà sempre più potere economico per pretendere di avere sempre più peso nelle scelte economiche dell'Unione, a quel punto la suscettibilità di Francia e Gran Bretagna sarà senz'altro colpita e si può ragionevolmente prevedere che il processo decisionale avrà delle battute d'arresto. Spetta agli eurocrati prevenire questo intoppo, che come risoluzione presenta uno spettro di possibiltà negative che vanno dalla tutela tedesca su tutta l'economia della UE, fino ad una non augurabile uscita della Germania. Gli antidoti a queste possibilità sono una crescita, se non uniforme a quella tedesca, almeno sufficientemente grande per arrivare al tavolo delle trattative con argomenti che possano smorzare il potere tedesco; è una eventualità di difficile attuazione in questo momento economico, anche perchè l'industria europea, con tutti i distinguo del caso, non sta attuando la politica finanziaria e di marketing che può permettersi Berlino. Quale futuro allora? Appare più facile raggiungere intese sulla politica comunitaria e su aspetti quali la politica estera e la difesa che sugli aspetti economici, che saranno il vero nodo futuro sul quale si giocherà l'aggregazione europea. Se la Germania continuerà ad essere il motore economico europeo, sarà necessità di tutti gli stati membri che essa resti all'interno del recinto dell'Unione, cedendo quote di sovranità per quanto riguarda il governo dell'economia; stante così le cose il processo è irreversibile ed irrefrenabile, l'economia e la finanza della UE saranno affare tedesco, per gli altri membri si tratterà o meno di adeguarsi.