Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

mercoledì 21 marzo 2012

La Birmania invita gli osservatori alle prossime elezioni

In occasione delle elezioni parlamentari del primo aprile, la Birmania ha invitato osservatori stranieri ad assistere alle operazioni di voto. Per primi sono stati invitati gli osservatori dell'Associazione del Sud-Est Asiatico, della quale la Birmania fa parte, poi l'invito è stato esteso anche ad osservatori provenienti da USA, UE ed anche osservatori per conto dell'ONU. L'operazione viene valutata positivamente dal mondo diplomatico, anche se restano perplessità per lo svolgimento della campagna elettorale, dove il partito della premio Nobel Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia, ha lamentato pressioni ed irregolarità finanziarie degli avversari. Tuttavia l'attuale campagna elettorale si svolge in maniera più libera per i partiti di opposizione e la stessa premio Nobel è libera di condurre il suo giro elettorale per il paese. Non sono passi avanti da poco in un paese che costituiva una rigida dittatura militare, per la quale è ancora sottoposto a sanzioni. Proprio l'intento di diminuire o addirittura mettere fine alle sanzioni economiche potrebbe essere il motivo della decisione di aprire ad osservatori stranieri le porte del paese per il controllo delle operazioni di voto, anche se questo invito giunge obiettivamente in ritardo, tanto da non potere essere accolto dalla UE, per la mancanza di tempo necessario, valutato in circa sei mesi, per la preparazione degli osservatori. Nelle precedenti elezioni, considerate una farsa, avvenute nel 2010, però Aung San Suu Ky era agli arresti domiciliari e non erano stati invitati gli osservatori; questo cambiamento di rotta viene valutato positivamente dalle cancellerie occidentali e risponde alle intenzioni del governo birmano, che vuole accreditarsi come riformatore.

Ancora sull'anomalia italiana

Grecia ed Italia, rappresentano, ormai, due evidenti anomalie politiche nel cuore dell'Europa. Se ad Atene si sono imposti, anche con la forza, i dettami della Germania, che di fatto hanno limitato la sovranità del paese, a Roma, il governo cosidetto tecnico, instaurato dalle banche e dal mondo della finanza con modalità più morbide, sta perseguendo obiettivi analoghi a quelli subiti dal popolo ellenico. Occorre ricordare che il governo italiano in carica non è stato scelto dal corpo elettorale, ma è al potere con il consenso dei principali partiti, di solito schierati su posizioni diametralmente opposte. Questo ne legittima, secondo la legge, la vita e l'azione, ma ne fa una situazione anomala, se guardata dal lato del processo democratico. In queste ore in Italia infuria la battaglia sulla riforma del lavoro, che riguarda tutti i lavoratori italiani, ed è, perlomeno, strano, che ha decidere su di un tema così fondamentale non sia un esecutivo passato per il giudizio elettorale. Non è questo l'unico episodio cui questo governo è stato chiamato a decidere: la riforma delle pensioni e l'introduzione di nuove tasse, che hanno notevolmente abbassato la qualità della vita dei cittadini in maniera simile a quella dei greci, parlano chiaramente di una azione penalizzante verso una sola parte sociale, senza azione alcuna contro quel mondo bancario e finanziario, che a detta di molti è responsabile della crisi economica acuta che vive il paese italiano. Nella giornata di ieri un episodio di ulteriore gravità è accaduto in un ramo del parlamento italiano, la Camera dei deputati, dove il rappresentante del governo si è permesso di non rispondere nulla alle domande dei deputati, fatto già molto grave se inquadrato nel normale processo democratico, sulla mancata copertura finaziaria di una legge in discussione, cosa in palese contrasto con la legge fondamentale italiana, la Costituzione della Repubblica, e quindi al di fuori della legalità stessa rappresentando un ossimoro, generando la reprimenda del Presidente dell'assemblea. Il fatto di cui sopra rappresenta una duplice valenza che dimostra come l'esecutivo italiano sia al di fuori della democrazia e continui a rappresentare un pericoloso precedente per il normale svolgimento della vita democratica di uno dei paesi principali dell'Unione Europea. Non esistono le prove materiali che questo governo sia, come da più parti affermato, l'espressione delle banche e della finanza e che quindi agisca, in ultima analisi in loro favore, a parte prove indiziarie rappresentate da diversi provvedimenti che paiono andare in quella direzione, ma non è questo il punto centrale di questa riflessione. Qualunque provenienza abbia il governo italiano in carica ciò che importa è che non proviene dalle urne e questo basta ad identificarlo come un vuoto pericoloso per il processo democratico. Se questa prassi dovesse prendere campo, a livello europeo, non solo greco o italiano, in ogni caso di crisi economica, ci troveremmo davanti alla morte dell'esercizio democratico in nome di una emergenza che potrebbe anche non essere vera, si pensi a come ciò potrebbe essere possibile con la manipolazione dei mass media, giustificando la sospensione dei diritti fondamentali per qualunque esigenza finanziaria. Questa convinzione, che potrebbe sembrare una estremizzazione, pone dei quesiti concreti al fine di evitare anche tentativi di alcuni stati, più potenti economicamente, di limitare la sovranità di altri più deboli. Sono fattispecie che si stanno purtroppo verificando, instaurando un colonialismo modernissimo di matrice diversa da quello tradizionale, oltretutto in un ambito, come l'Unione Europea, che dovrebbe essere costituito da alleati. Se i paesi più deboli pagano la loro gracilità economica, Bruxelles, in quanto istituzione centrale, paga la propria debolezza politica, frutto di un processo unificatore incompiuto, che non permette all'intero sistema di avere persi e contrappesi in grado di bilanciare queste nuove casistiche che la crisi economica sta generando. Il mancato controllo sulle banche e sulla finanza genera dei mostri giuridici come il governo italiano, senza che l'ente sovranazionale possa opporsi in nome dell'esercizio democratico. Tutto ciò rappresenta una evoluzione inattesa e spiacevolmente presente, dei sistemi politici occidentali, quelli che dovrebbero esportare la democrazia nel mondo.

martedì 20 marzo 2012

La diffidenza dell'euro è anche diffidenza politica

La nascita della moneta unica europea, l'Euro, doveva essere un fattore trainante per l'unione politica del vecchio continente. Ma mentre si è dato corso velocemente alla divisa comune, non si è proceduto di pari passo con l'integrazione sia normativa che politica. E' stato un errore sulla tempistica del progetto completo che riguardava l'assetto dell'Unione Europea e la corsa in avanti della parte monetaria ha generato squilibri, che hanno indebolito la maggior parte delle economie dei singoli stati dell'Unione. Su ventisette paesi soltanto diciasette hanno adottato la moneta comune, chi per propria scelta, che per mancanza dei requisiti allora previsti. Al momento una seria riflessione imporrebbe, forse una revisione di tali requisiti con la possibilità di uscita, sia volontaria che coercitiva; ma tali vie d'uscita non sono state previste ed i contraccolpi sia economici che politici che deriverebbero da una uscita dalla moneta unica da parte di uno stato membro sono stati valutati molto pesanti, come insegna il caso greco, dove è stato fatto tutto il possibile per mantenere Atene entro l'area dell'euro. La rigidità imposta della Germania alle regole interne degli stati nazionali, ha ora creato un rallentamento del processo inclusivo nella moneta unica. In effetti se si può comprendere la necessità di mettere dei paletti ben definiti alla politica economica degli stati, per evitare pericolosi accumuli di debito e fenomeni connessi, come l'inflazione, si può altrettanto capire chi è restio a rinunciare ai propri margini di azione nella politica monetaria e finanziaria. Il caso più eclatante è il Regno Unito, che non ha voluto rinunciare a regole più rigide in materia di finanza, un settore trainante dell'economia inglese, ed ha così continuato a restare fuori dall'euro. Il paese più popoloso, dopo il Regno Unito, fuori dalla moneta unica è la Polonia, che sta godendo di una buona crescita economica ottenuta anche grazie agli ampi margini di manovra sulla leva monetaria che i suoi governanti hanno usato. Questo fattore ha fatto aumentare i detrattori dell'euro, che temono di vedere diminuire la crescita ed agitato lo spettro di Atene sulla società polacca. Londra e Varsavia non sono le sole, anche se per motivi differenti gli altri quindici paesi fuori dalla moneta unica europea, vedono raffreddare le proprie convinzioni ed assumono un atteggiamento, se non proprio ostile, tale da rallentare il processo di accettazione della divisa comune. Nonostante questi dati oggettivi e la pressione italiana per approvare dispositivi che consentano una maggiore crescita economica, pur entro gli steccati previsti, la Germania non sembra derogare dalla linea intrapresa. Questo atteggiamento tedesco porta soltanto uno stop al processo di unificazione europea, giacchè per il momento l'euro è il solo fattore concreto di unità. D'altra parte questa situazione genera una immobilità da cui è sempre più necessario uscire alla svelta, perchè un processo a metà non serve all'Europa. Affinchè il vecchio continente torni ad essere protagonista occorre rivedere da subito i vincoli di bilancio, per permettere all'economia la necessaria ripresa, ma fatto ciò è inammissibile che esista una parte di UE dentro l'euro ed una parte fuori.
Quella attuale è infatti una Unione a metà, dove non tutti i membri condividono le impostazioni di base e sono, di fatto, soci di comodo. Serve uno slancio di coraggio dei governanti e sopratutto delle istituzioni centrali di Bruxelles per riaffermare i principi costituenti ed insistere su di una normativa che porti a compimento l'effettiva unità. Chi è scettico stia fuori e non intralci il lavoro di chi è convintamente europeista.

lunedì 19 marzo 2012

Nel mondo sale la spesa per gli armamenti

Nel mondo cresce il commercio e quindi la produzione delle armi. Quello militare si rivela ancora un mercato florido grazie ad un incremento del 24% nel periodo tra il 2007 ed il 2011. I movimenti dei prodotti bellici
offrono una lettura della situazione geopolitica che si sta sviluppando. Mentre i maggiori esportatori, USA, Russia, Germania, Francia e Regno Unito, mantengono invariate le loro posizioni, tra gli acquirenti si registra la notevole attività dell'India, che è la nazione che più ha investito in armamenti. Resta sempre singolare come paesi che hanno problemi di alimentazione, in India vi è il più alto tasso di denutrizione tra i bambini, impieghino gran parte del loro bilancio per scopi militari. Ma il caso indiano è particolare, perchè denota una volontà di dotarsi di una forza armata particolarmente equipaggiata, non certo per farne sfoggio in parate, ma per prepararsi a scenari futuri che potranno essere potenzialmente pericolosi. La crescente rivalità economica con la Cina si riflette anche sul piano delle alleanze diplomatiche, i contatti sempre più frequenti tra Pechino ed Islamabad, preoccupano non poco Nuova Delhi. Peraltro la stessa Cina continua la sua politica di armamenti, compiendo addirittura un salto di qualità da paese compratore ad esportatore, arrivando addirittura a diventare la sesta nazione al mondo nella classifica dei venditori di armi. Uno dei motivi dell'escalation cinese è proprio lo speciale rapporto che la lega al Pachistan, diventato il primo cliente di Pechino nel mercato bellico. Si tratta, quindi, di segnali pericolosi per l'India, che risponde con un investimento capace di creare un potere di dissuasione per evitare che eventuali nemici possano attaccarla. Quello che si sta creando nella regione è una sorta di equilibrio del terrore tra le due più grandi potenze emergenti. Analizzando invece la direzione, verso Corea del Sud, Australia ed Emirati Arabi Uniti, degli armamenti, che gli USA producono, si evince la volontà americana di rafforzare la propria strategia di protezione dei propri alleati e delle vie di comunicazione di Oceania, penisola coreana e Giappone e consolidare la propria presenza nel Golfo Persico, dove si è anche registrata una vendita massiccia di aerei da combattimento all'Arabia Saudita.
Particolarmente significativo è l'aumento degli acquisti di armamenti nei paesi attraversati dalla primavera araba, un mercato dove gli USA sono molto attivi, quasi che il risveglio democratico abbia sollecitato la volontà di dotarsi di adeguati strumenti per difenderlo. Ma anche in aree che sembrano più tranquille si è registrato l'incremento della spesa militare; infatti nei paesi sudamericani, in special modo Cile, Venezuela e Brasile l'importazione degli armamenti si è impennata in modo considerevole. In una valutazione globale occorre rilevare che non esistono, alla fine, grandi differenze tra paesi che si avviano a standard più elevati, come la Cina, il Brasile e la stessa India, che grazie alle loro economie hanno compiuto passi da gigante e stati che restano arretrati, su tutti il Pachistan, nei capitoli di bilancio destinati alle spese militari. L'importo della spesa è sempre molto ingente ed il fatto non può che confermare che la pace nel mondo non sia così stabile come si può credere, ma che anzi, si basi proprio sull'equilibrio degli armamenti, che hanno sostanzialmente una funzione dissuasoria dell'atto bellico attivo. Questo fattore rappresenta una estensione di quello che già succedeva negli anni della guerra fredda, con la variazione sostanziale che gli attori coinvolti nel processo non sono più soltanto due. Ciò crea una situazione di maggiore incertezza perchè lo scenario militare si è allargato, comprendendo anche stati dove il meccanismo di potere e quindi di esercizio della forza, non è più così sicuro e codificato come per USA ed URSS. Di fronte a questo proliferare pericoloso degli armamenti, occorrerebbe una moratoria internazionale gestita dall'ONU, ma il grande movimento di denaro generato dall'industria bellica rende vana questa speranza.

sabato 17 marzo 2012

Afghanistan: errori ed evoluzione della politica estera USA

La situazione afghana rischia di arrivare ad un punto di non ritorno, che potrebbe mettere in seria difficoltà sia Obama, che Karzai. Il tragico avvenimento della strage dei civili da parte di un militare americano, inquadrato nella fredda contabilità dei rapporti internazionali, rappresenta soltanto un ulteriore elemento a favore di chi spinge per il ritorno del paese ad una situazione simile a quella vigente con i talebani al governo. D'altronde la sequenza temporale dell'abbandono del tavolo delle trattative in Qatar da parte proprio dei talebani, appena dopo la strage, non fa altro che dimostrare che essi non attendessero un qualunque pretesto per lasciare l'approccio diplomatico. Ma con i talebani svincolati dal processo di pace la prima conseguenza oggettiva è il fallimento della politica di Obama e di Karzai e quindi per l'Afghanistan il destino è quello di ritornare nel caos più completo. Sopratutto a perdere è la politica estera americana, ma non soltanto quella di Obama, anche quella precedente; infatti l'approccio essenzialmente militare, stemperato soltanto negli ultimi tempi da Obama, nal lungo periodo si è rivelato perdente perchè non ha saputo dare al paese asiatico la necessaria stabilità politica attraverso il presidio del territorio. Proprio su questo versante è stata la mancanza più grossa: puntare sull'esclusiva azione bellica, sopratutto nella prima fase, non ha permesso di debellare le formazioni talebane, molto radicate nel territorio, che sono rimaste a presidiare zone chiave da cui fare ripartire l'offensiva. Occorre riconoscere la suprema difficoltà che si erano dati gli USA fin dall'inizio delle operazioni militari: storicamente nessuno è mai riuscito vincitore dal confronto militare con le popolazioni afghane, ma proprio questo assunto doveva fare impostare diversamente la strategia, che doveva essere accompagnata fin dalla partenza da azioni alternative, sia dal punto di vista sociale che diplomatico. Non è azzardato dire che se Obama avesse avuto il comando dall'inizio i risultati potevano essere differenti, ma avendo ereditato una situazione da subito compromessa abbia operato aggiustamenti risultati insufficienti. Nel conto occorre mettere anche l'atteggiamento del Pachistan, che ha ondeggiato troppo spesso tra collaborazione ed ostruzionismo, praticando un doppio gioco che ha favorito essenzialmente le milizie talebane. Ciò a beneficio di quei settori politici presenti ad Islamabad che nutrono ambizioni di portare Kabul entro la propria sfera di influenza. In questo la diplomazia americana ha fatto diversi errori di valutazione, dovuti alla convinzione, in parte giustificata da necessità di equilibri di geopolitica, che il Pachistan fosse l'alleato chiave nella questione afghana. Su questa convinzione assoluta si è basata l'azione della politica estera USA, che non ha saputo elaborare strategie alternative in grado di potere praticare altre vie, ciò neppure quando è stato palese che Islamabad non era affidabile perchè tollerava sul suo territorio Bin Laden. Ben peggiore, però del fatto di avere il massimo simbolo del terrorismo internazionale all'interno dei propri confini, è la protezione che il Pachistan offre alle basi delle milizie talebane, dalle quali partono gli attacchi verso le truppe NATO. Di fronte a questa serie di fattori lo stesso Karzai, per non perdere consensi in patria, si deve dimostrare ostile agli americani, pressato da un lato dall'indignazione popolare, peraltro montata ad arte dagli estremisti islamici, e dall'altro lato, della sempre crescente influenza ed importanza dei talebani. Si inquadra nell'attuale scenario, che deriva da questi presupposti, la necessità della richiesta di tenere le truppe USA all'interno delle proprie caserme in Afghanistan, praticamente soltanto pronte ad essere impiegate in situazioni di emergenza. Se questo nuovo elemento può favorire il piano di rientro elaborato da Obama, nel contempo, ne fa registrare l'ennesimo sintomo del fallimento americano. Per analizzare obiettivamente la situazione che si è creata, occorre stabilire se l'Afghanistan può ancora rappresentare un problema sul palcoscenico del terrorismo internazionale, innazitutto per il mondo occidentale ed in ultima istanza per gli USA. La risposta è complessa perchè deve tenere conto di più elementi difficilmente prevedibili, che non riguardano soltanto l'aspetto essenzialmente del terrorismo, ma anche l'evoluzione delle nuove alleanze economiche che si stanno delineando nella regione. Se si può, se non considerare conclusa, almeno fortemente ridimensionata la minaccia di Al Qaeda, che poteva partire dalle zone afghane, non bisogna dimenticare che intorno a queste zone c'è sempre in ballo il difficile rapporto tra Pachistan ed India, con la Cina che sta percorrendo una strategia di incremento della propria influenza. Perdere il controllo per gli USA potrebbe volere dire abdicare all'uso di un potere di indirizzo che, inevitabilmente, andrebbe a beneficio di qualche altra grande potenza. Senza contare che venendo a mancare l'effetto stabilizzatore di Washington, pur con tutte le sue lacune, potrebbero aprirsi nuovi fronti capaci, con i loro effetti, di portare conseguenze destabilizzanti, ben oltre la regione. Il grande elemento che blocca una soluzione di qualsiasi tipo sono le incombenti elezioni americane, che obbligano Obama a temporeggiare, senza intraprendere soluzioni più drastiche per non causare risultati inattesi in grado di cambiare la percezione della politica estera del Presidente uscente sul corpo elettorale USA. Per ora la politica estera, rappresenta un punto di forza, ma le troppe questioni in bilico rischiano di invertire la rotta, con conseguenze negative per il voto a favore di Obama. Tuttavia la tattica eccessivamente temporeggiatrice del Presidente USA in Afghanistan rischia di essere deleteria per l'equilibrio del paese, senza una scossa che permetta a Karzai di riaffermare la propria autorevolezza, anni di guerra con vittime e notevoli costi economici potrebbero essere stati inutili.

giovedì 15 marzo 2012

Per Pechino la necessità di riformare il proprio sistema politico

Per il sistema poltico cinese è arrivata la resa dei conti? La storia potrebbe presentare per la prima volta la riforma di un sistema politico di tipo rigido, come è il regime di Pechino, non con una rivoluzione violenta, ma per ragioni di economia. Il grande slancio economico cinese, con percentuali di crescita altissime, è nato dall'abbondanza di manodopera a basso prezzo, che ha favorito la delocalizzazione di industrie europee, americane e giapponesi, unito alla grande abbondanza di infrastrutture. Va anche detto che, l'assenza di molte regole sindacali, che potevano rallentare i processi produttivi in patria, ha rappresentato una ragione altrettanto valida per spostare la produzione sul territorio cinese. Tuttavia queste ragioni stanno venendo sempre meno, da un lato la grande crisi economica rallenta la produzione per mancanza di ordini, dall'altro la necessità di alzare il livello della merce prodotta impone un cambio di rotta, che prevede non solo un produzione orientata alla quantità ma necessita anche di aumentare il livello qualitativo dei beni. La Cina ha bisogno di non rallentare la crescita per non avvitarsi su se stessa e per non incorrere in una diminuzione della capacità di acquisto dei cinesi, fattore che ha contribuito non poco a contenere il senso di disagio già di per se elevato. Uno dei punti di debolezza del sistema economico cinese è la troppo elevata partecipazione statale nelle imprese, che blocca la concorrenza ed alimenta il pericoloso divario di diseguaglianza tra città e campagna, fonte di pericolosa instabilità sociale. Per fare ciò è però necessaria una fase di riforme politiche che permetta alla crescita economica di proseguire. In questo senso sembra andare il discorso del premier cinese Wen Jiabao, che ha ammesso la necessità e l'urgenza di riforme politiche. Occorre però non dimenticare che si parla pur sempre della Cina, e quindi le riforme annunciate non possono riguardare un completo sovvertimento dell'ordine presente. Tuttavia le esigenze dell'economia, aggravate dallo stato di crisi internazionale, premono per maggiori liberalizzazioni in senso strettamente politico, sarà quindi per i dirigenti cinesi un vero e proprio esercizio di equlibrismo, elaborare nuove soluzioni che si concilino con il partito unico e la necessità di dare maggiore concorrenza al mercato. Il premier cinese, d'altronde è un fautore di una trasformazione dei meccanismi elettorali interni al partito ed una soluzione sarebbe sottoporre al vaglio del corpo elettorale diversi candidati, di orientamento differente, sempre sotto il simbolo unico del Partito Comunista. Sarebbe già un avanzamento epocale per la rigida struttura di potere cinese, segnata da procedure ferree. Ma forse ciò andrebbe a costituire una variazione troppo traumatica per la stessa maggioranza dei cinesi, non abituati ad esercitare scelte del genere. Forse è più probabile, nell'immediato, un allargamento dei delegati chiamati ad esprimersi su un ventaglio più ampio di questioni, sarebbe una scelta più in linea con i comportamenti del potere cinese, anche se ciò rischia di essere insufficiente per ridare slancio all'economia. In ogni caso queste riforme non riguarderanno i dissidenti, che Pechino ha sempre il medesimo interesse a limitare: troppa libertà non aiuterebbe comunque la crescita economica.

lunedì 12 marzo 2012

I paesi del Golfo Persico di fronte alla possibilità di un conflitto Israele-Iran

La possibile guerra tra Israele ed Iran agita tutto il mondo arabo. Specialmente tra i paesi del Golfo Persico, che si affacciano sulla sponda opposta alla costa iraniana, la preoccupazione è palpabile. Il pericolo di essere trascinati in una guerra santa all'interno dell'Islam, tra i rappresentanti delle due principali dottrine, sciti e sunniti, è concreto, come è concreta la volontà di di costringere l'Iran a rinunciare alla bomba atomica, ma le posizioni rispetto a Teheran non sono omogenee. Malgrado il pensiero comune è che una guerra avrebbe conseguenze catastrofiche, per alcuni paesi potrebbe essere l'occasione per sbarazzarsi di un vicino scomodo per l'equilibrio geopolitico della regione, cancellandone la pericolosa influenza. E' questo il pensiero dei governi di Arabia Saudita, Bahrain e Kuwait, mentre l'atteggiamento di Emirati Arabi Uniti ed Oman resta più cauto, rispettivamente, infatti, i due paesi hanno un approccio più morbido verso l'Iran, che vede gli Emirati Arabi Uniti propendere per le sanzioni, come mezzo di dissuasione, mentre l'Oman è totalmente contrario ad un impegno bellico. L'atteggiamento più duro è quello dell'Arabia Saudita perchè coinvolge motivazioni religiose, geopolitiche ed anche economiche. Dal punto di vista religioso tra i due paesi si gioca la partita più dura per la supremazia religiosa all'interno della religione islamica, la teocrazia nata dalla fine del dominio dello Scià, ha messo in discussione l'autorità religiosa saudita sui luoghi santi de la Mecca e di Medina ed ha usato questo confronto ripetutamente per influenzare le minoranze scite presenti nella sponda del Golfo Persico prospiciente alla costa iraniana. Secondo i sauditi sarebbe stato infatti l'Iran ha fomentare le rivolte scite che si verificate nello scorso anno in corrispondenza della fase più acuta della primavera araba, nei paesi confinanti con Riyad, che hanno determinato l'invio di truppe dell'esercito dell'Arabia Saudita per proteggere la monarchia del Bahrain. Si arriva così al paradosso che l'Arabia Saudita e lo stesso Bahrain, vedrebbero favorevolmente un attacco israeliano capace di indebolire l'Iran, tuttavia i due stati, per ora stanno alla finestra perchè la sicura risposta iraniana viene valutata come elemento capace di coinvolgere direttamente i due paesi in una ritorsione militare, sopratutto per la presenza di basi americane sui loro territori. Tuttavia l'atteggiamento dei due paesi, pur restando di attesa, è chiaramente ostile a Teheran, lo dimostra anche il fatto dell'attività saudita nel caso siriano, dove Riyad sarebbe favorevole ad un intervento militare, che non viene però appoggiato dagli altri paesi del Golfo e quindi opta per un rifornimento continuo di armi ai ribelli schierati contro Assad. Non si deve pensare che l'Arabia Saudita, stato dove vige un regime profondamente illiberale, faccia questo per favorire un processo democratico a Damasco, la ragione riguarda esclusivamente valutazioni geopolitiche, infatti lo scopo è togliere dall'influenza iraniana il territorio chiave siriano. Ma gli altri paesi del Golfo hanno un atteggiamento più prudente, perchè devono valutare l'impatto di un eventuale confronto con l'Iran che ripercussioni avrebbe sulle minoranze scite, che compongono il loro stato sociale e che sono fondamentali per il funzionamento delle loro economie. Fornire un nuovo pretesto di agitazione sociale, non è il massimo per i governi di Oman ed Emirati Arabi Uniti. Anche l'aspetto economico non è secondario: una guerra altererebbe la produzione del greggio con evidenti ripercussioni sulle economie dei paesi produttori, oltre che dei consumatori. Ma esiste un ulteriore aspetto da non sottovalutare: le posizioni più o meno radicali contro l'Iran dei governi non sono condivise dalla popolazione, che vedono Israele e gli USA come una minaccia per il mondo arabo, al contrario di una piccola minoranza che invece percepisce Teheran pericoloso. E' pur vero che non siamo in paesi dove vige la democrazia, ma se anche i sunniti continuano a vedere meno pericolosi gli sciti, perchè in fondo di questo si tratta, rispetto agli israeliani, cosa forse scontata, ma anche agli americani, fattore non del tutto ovvio per le lunghe alleanze sia politiche che militari presenti, la valutazione che devono fare i governi contro l'Iran, deve tenere necessariamente conto di questa tendenza. In ogni caso con questa analisi, alla questione si aggiungono ulteriori elementi di incertezza, che ancora meno consentono previsioni precise sugli sviluppi futuri.