Politica Internazionale

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lunedì 26 marzo 2012

Parte il vertice di Seoul sulla sicurezza atomica

La strategia di pacificazione mondiale, che Obama sta portando avanti fin dall'inizio del suo mandato, sarà il cardine dell'azione americana al vertice di Seoul sulla prevenzione del terrorismo internazionale atomico. Il summit sud coreano, a cui parteciperanno più di 50 paesi, analizzerà le possibili azioni per limitare la minaccia atomica nel mondo. La proliferazione degli armamenti nucleari è un tema la cui soluzione ormai non è più rimandabile ed occorre trovare una via d'uscita condivisa a livello mondiale, per, almeno, limitarne la pericolosità. In questo senso il Presidente USA ha promesso una azione di riduzione delle armi nucleari americano, anche a seguito degli incontri bilaterali con il presidente russo Putin, per un disarmo congiunto degli arsenali atomici dei due paesi. Questo gesto dovrebbe rappresentare l'esempio da seguire per la comunità internazionale, al fine di ridurre al minimo i rischi di un possibile utilizzo delle armi atomiche. Tuttavia, non essendo più in regime di guerra fredda, quando gli ordigni nucleari erano detenuti soltanto dalle due super potenze di allora e di conseguenza arrivare ad accordi di limitazione era più facile perchè soltanto due erano i soggetti coinvolti, attualmente sia per l'accresciuta diffusione della tecnologia, che rende più facile la costruzione delle bombe atomiche, sia per il minore investimento necessario per disporre nel proprio arsenale di tali armamenti, la proliferazione nucleare rende necessario, ma purtroppo non sempre sufficiente, cercare di coinvolgere un sempre crescente numero di paesi a partecipare ad eventi del genere. Per Obama è ancora più importante ribadire il suo ruolo di normalizzatore del fenomeno, perchè si trova coinvolto in piena campagna elettorale e la politica estera è uno dei suoi punti di forza, anche se le vicende afghane hanno causato qualche perdita di consenso. Proprio in quest'ottica è importante per il presidente americano uscente, uscire dal vertice incassando risultati positivi, almeno sul piano delle intenzioni per il disarmo nucleare. La dimostrazione di quanto Obama punti a questo obiettivo, per certi versi molto ambizioso e difficile, è la programmazione di un progetto di cooperazione internazionale che riduca la dipendenza energetica sia dal petrolio che dall'energia nucleare, dietro la quale, spesso, si nascondono programmi militari.
Nonostante queste buone intenzioni non sarà facile convincere paesi come l'Iran, con il quale è in corso un contenzioso piuttosto problematico, l'India, il Pakistan o la Corea del Nord ha rinunciare ai propri arsenali atomici. Se per l'Iran il discorso è differente, perchè ufficialmente Teheran persegue una ricerca nucleare a fini pacifici, per gli altri possessori ufficiali di ordigni atomici, ai quali va aggiunto Israele, è difficile immaginare una moratoria dei propri arsenali. La bomba atomica oltre che ad essere uno status symbol è ormai diventato uno strumento a pieno titolo della politica estera degli stati, sopratutto in fase di dissuasione e difensiva da possibili attacchi. Ma la grande instabilità mondiale giustifica i timori di Obama, peraltro condivisi da un alto numero di uomini di stato, circa la disponibilità relativamente facile di reperire tali strumenti bellici anche da parte di gruppi terroristici, che potrebbero vedere così notevolmente accresciuto il loro potere di ricatto. Soltanto una azione comune di controllo e di, sopratutto, prevenzione coordinata a livello internazionale può limitare questo pericolo. E' chiaro che i fattori in gioco sono molteplici, fermata l'emorragia del contrabbando nucleare a seguito della dissoluzione dell'impero sovietico, ora il pericolo maggiore è la disponibilità economica di alcuni gruppi terroristici, sopratutto islamici, che possono facilmente reperire sia la tecnologia, che il materiale per la costruzione di ordigni tascabili, non usabili a grande gittata ma comunque in grado di fare danni notevoli se usati in città di medie o grandi dimensioni. Diventa così prioritario fermare sul nascere questo pericolo che innescherebbe anche il superamento del blocco psicologico dell'attentato atomico fino ad ora mai osato, rischiando di aprire un mortale pericolo di emulazione. Molto spesso da riunioni che comprendono un così vasto numero di partecipanti escono solo dichiarazioni di buone intenzioni e nulla più, l'augurio, questa volta è quello di che vanga elaborata una strategia condivisa di azione concreta, capace di oltrepassare il mero aspetto teorico.

venerdì 23 marzo 2012

Israele sotto inchiesta per gli insediamenti nei territori

Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite effettuerà una missione di inchiesta internazionale sulle conseguenze degli insediamenti delle colonie israeliane sul territorio palestinese. Si tratta di una grande novità nel panorama internazionale, che potrebbe cambiare la prospettiva dell'approccio al problema della nascita dello stato palestinese. La politica israeliana circa l'espansione dei propri coloni sui territori palestinesi, con il governo Netanyahu, è stata condotta in palese violazione degli accordi vigenti, senza che alcuna sanzione internazionale fermasse il processo di inclusione di territorio palestinese all'interno, di fatto, dello stato israeliano. Malgrado diverse condanne dal mondo internazionale, Tel Aviv ha condotto una politica che ha tollerato ufficialmente, ma che ha incoraggiato in maniera non ufficiale, per aumentare la propria estensione territoriale prima che la firma di un trattato metta fine all'attuale situazione non codificata in modo certo. Facendosi scudo delle continue situazioni al limite del conflitto, sopratutto con Hamas, Israele ha disconosciuto di fatto gli accordi di Camp David, in questo anche sostenuto dall'atteggiamento ambiguo ed accondiscendente degli USA, ed ha favorito la politica di espansione coloniale nei territori palestinesi, che vengono materialmente invasi da uomini in armi, in aperta violazione dei diritti umani degli abituali residenti palestinesi. Il Consiglio, formato da 47 membri, ha approvato la missione con 36 voti favorevoli, 10 astenuti ed un contrario: gli USA. Israele, che non fa parte del Consiglio, ha condannato la decisione come una vergognosa e palesemente favorevole alla causa palestinese. Tuttavia, pur essendo comprensibili le rimostranze israeliane, se viste con l'ottica della politica dell'attuale governo, peraltro osteggiata da gran parte della popolazione, l'atteggiamento di Tel Aviv appare poco lungimirante, sopratutto in questa fase di particolare tensione per lo stato ebraico, condizionato dalla questione del possibile confronto militare con l'Iran. L'impressione è che Israele punti ad ottenere tutti gli obiettivi che sta perseguendo, in un gioco molto pericoloso. Le condizioni dei palestinesi dei territori sui quali si stabiliscono le colonie israeliane, che è bene ricordarlo, sono composte quasi sempre da elementi delle fazioni ultra ortodosse e quindi assolutamente non disposte ne al diaologo ne alla convivenza, sono di totale privazione dei diritti civili, politici ed economici e subiscono confische e privazioni che creano potenziali cause di tensione con tutto il corollario che ne deriva: possibili attentati e terrorismo, in una spirale infinita che si avvita su se stessa. Queste situazioni, sopratutto non favoriscono il processo della realizzazione dei due stati, soluzione che potrebbe portare la pace nella regione e togliere argomenti al fondamentalismo islamico. In realtà Israele vuole che si verifichi questa evenienza solo a parole e comunque il più in la possibile nel tempo, per continuare la sua politica di espansione territoriale con la politica delle colonie. In questo atteggiamento vi è una colpevole arrendevolezza degli Stati Uniti, che continuano a portare avanti la manfrina dei negoziati diretti, soluzione più volte fallita proprio a causa di Tel Aviv, che ha sostenuto le scuse più diverse per rinviarli e quindi continuare la propria politica espansionistica. Le elezioni americane, poi, sono un ulteriore elemento che gioca a favore di Israele al fine di guadagnare tempo, infatti Obama, temendo qualsiasi reazione della lobby ebraica, non farà alcuna variazione sul tema, pur rendendosi conto che una rapida soluzione che vada verso la creazione dei due stati, forse, gli darebbe un aiuto enorme nella politica estera del medio oriente. La soluzione, invece, rappresenta una grande vittoria per l'Autorità Palestinese, che continua la sua battaglia pacifica all'interno delle istituzioni internazionali, sia per la decisione di inviare una missione ispettiva nei territori delle colonie, sia per quelli che saranno i probabili risultati, che dovrebbero sancire in modo inequivocabile gli abusi dei coloni israeliani sulla popolazione palestinese. D'altronde già nella risoluzione che decide l'ispezione è contenuta la richiesta allo stato ebraico di prendere le opportune misure per evitare la violenza dei coloni, mediante la confisca delle armi e l'imposizione di sanzioni penali, oltre che l'immediata cessazione della pratica del trasferimento di cittadini israeliani sul territorio palestinese occupato, definita esplicitamente occupazione straniera. Uno degli aspetti giuridici più controversi è proprio la definizione dell'insediamento delle colonie, Israele non riconoscendo la Palestina come entità statale, rifiuta la definizione di occupazione di territorio statale altrui, che potrebbe essere inquadrata come invasione, tuttavia lo status di membro osservatore ottenuto all'ONU dall'Autorità Palestinese pone come legittima la questione. Se questa fattispecie giuridica è vera, allora Israele sarebbe sanzionabile in sede internazionale. Anche se è obiettivamente difficile che si arrivi ad una determinazione del genere, è un fatto che la pressione delle organizzazioni internazionali, nonostante l'opposizione degli USA, si intensifichi su Tel Aviv, che però insiste nel proprio atteggiamento. Ma la rinnovata attenzione, sopratutto in sede internazionale, è da considerarsi un segno positivo verso la formazione dello stato Palestinese, fattore che permetterebbe la distensione nella regione ed anche un diverso atteggiamento verso Israele dei governi vicini, sempre più su posizioni di islamismo, seppure moderato.

giovedì 22 marzo 2012

La necessità di un risveglio della sinistra in Europa

Mentre negli scorsi giorni i leader dei tre principali partiti progressisti di Francia, Germania ed Italia, si sono riuniti per fare promessa sostegno reciproco, praticando una strategia comune, sia nell'ambito elettorale all'interno dei singoli paesi, che nella più ampia platea continentale, non si può fare a meno di riflettere sul comportamento dei movimenti di quella che una volta era definita sinistra politica. Una delle eredità degli anni ottanta dello scorso secolo, caratterizzati dalla spinta liberista i cui effetti negativi sono alla base delle crisi economiche attuali, è stato lo stravolgimento ideologico dei partiti che tradizionalmente rappresentavano i ceti dei lavoratori, sopratutto subordinati, in una rincorsa ad una trasversalità che non ha potuto che nuocere alla originaria idea fondativa di questi movimenti. Perso il contatto, anche storico e materiale, con la base ideologica che assicurava l'ancoraggio all'autenticità della propria missione, i partiti di sinistra hanno subito una trasformazione irreale, che ne ha determinato il distacco da quel mondo reale da dove provenivano le idee ed i valori che ne costituivano l'aspetto sia fondativo che evolutivo, perdendo così la vera e propria ragione di essere. Venutosi a determinare questo stato di cose i movimenti progressisti sono più spesso andati incontro a sconfitte che a successi, che però, non sono riuscite ad insegnare nulla a dirigenti con idee ormai inquinate. Uno degli errori più rilevanti è stato quello di rincorrere chi abitualmente stava dall'altra parte della barricata ideologica, dando per scontato l'appoggio di chi fino ad allora aveva costituito la base fedele del serbatoio elettorale. Questa rincorsa è avvenuta con aperture particolarmente generose a politiche che hanno generato perdite effettive sia di diritti che economiche, a quelle parti sociali che più si identificavano nella ragione stessa di esistere dei partiti progressisti. Ciò ha determinato una emorragia elettorale nei consensi che sono transitati verso formazioni di carattere locale o sono andate ad ingrossare le percentuali di non votanti o astenuti. Il guadagno di consensi dai ceti tradizionalmente non inquadrabili nei partiti di sinistra non ha compensato la perdita di cui sopra ed in generale la sinistra europea, tranne poche eccezioni temporali, non ha ricoperto posizioni di governo. Ma questo succedeva in condizioni economiche, che potevano essere difficili ma non di crisi generale e che gli strumenti degli stati, anche se governati da destra, potevano tamponare senza mai costringere la società a provvedimenti di urgenza. Già con l'avvento della globalizzazione il collante sociale che permetteva uno stato di relativa pace tra le diverse componenti della società ha portato ad affievolirsi le condizioni economiche dei ceti più deboli, ma con la crisi conclamata degli ultimi tempi, la coesione sociale ha subito una pericolosa incrinatura, mettendo in risalto le estreme ineguaglianze che si sono venute a creare. Questo elemento, di estrema pericolosità per la tenuta delle società occidentali, deve essere il punto di partenza per una nuova politica delle formazioni che si richiamano ai principi progressisti, che devono, per prima cosa arginare le politiche ultra liberiste che si nascondono dietro provvedimenti spacciati per risolutivi per le crisi che stiamo attraversando. I governi europei in carica enfatizzano lo scontro generazionale del lavoro, per arrivare ad un impoverimento dei più anziani scambiato con salari da fame, al posto della disoccupazione, per i più giovani. Se i partiti di sinistra avvallano queste politiche dichiarano il loro suicidio, regalando le competizioni elettorali agli avversari per abbandono della partita. Mai come ora, almeno nella storia recente, la sinistra ha l'occasione per rifare sue lotte politiche basate sui suoi principi costitutivi ed insieme rilanciare le economie occidentali nel rispetto del lavoro. L'esigenza di politiche fiscali più eque non può che coincidere anche con le esigenze di un mercato basato sulla reale produzione e non alterato da falsi valori finanziari non più ammissibili. Se l'incontro a tre dei giorni scorsi partirà da queste premesse, mettendo in conto anche sconfitte necessarie a riformare quel sostrato necessario alla ripresa necessaria della politica, non potranno che trarne vantaggio anche i partiti avversari, stimolati a produrre nuove idee e soluzioni, viceversa quello che permarrà sarà una stagnazione uniformata di basso livello, che decreterà una sempre maggiore subalternità dell'Europa.

Al Qaeda esorta alla ribellione gli afghani

L'esortazione del capo di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, affinchè gli afghani si ribellino agli americani, segue uno schema preciso, che sfrutta l'inadeguatezza e l'impreparazione, non tanto militare quanto sociale, dei soldati USA ad affrontare situazioni di guerra in paesi di religione musulmana. Nè le due guerre combattute in Iraq, nè l'occupazione in Afghanistan è riuscita ad inculcare, nella totalità del personale militare USA, quel rispetto che dovrebbe essere la prima misura di prevenzione per loro stessi e la maggiore fonte per evitare di pregiudicare missioni tanto pericolose. Gli episodi del più grande mancato rispetto verso i musulmani avvenuti recentemente, come avere urinato sui cadaveri dei combattenti talebani ed il rogo dei corani, che sono soltanto il seguito dei vari casi di umiliazione dei prigionieri nelle carceri militari americane, sono il peggiore fattore di destabilizzazione del programma del governo USA in Afghanistan, ed anche in Iraq, e non possono che portare all'insuccesso di campagne militari costate un gran numero di caduti ed una ingente spesa economica. Questi episodi segnalano anche, oltre la mancanza della necessaria sensibilità per operare in determinati teatri di guerra, anche un disagio sempre crescente dei militari americani, con il quale si evidenzia, purtroppo, l'assenza di contromisure. Con tali premesse risulta facile presentare i "crociati" invasori come odiati invasori, ed ottenere dalla popolazione quella sfiducia necessaria verso chi doveva affrancarli da l'integralismo, per riguadagnare il consenso perduto. Eppure nelle intenzioni di Obama, al fianco dello strumento militare, in Afghanistan doveva svilupparsi una operazione sociale, concretizzata nella costruzione di scuole ed ospedali, che aveva come scopo proprio guadagnare il consenso della società civile. Ma se un esercito che, si proclama, deve esportare democrazia non ha al suo interno la necessaria sensibilità per capire i costumi del luogo nel quale opera, resta soltanto una macchina da guerra, che non può andare oltre l'esclusivo compito militare che ha avuto in affidamento. Le crescenti difficoltà americane in Afghanistan si comprendono bene con questi episodi, che tra l'altro ridanno fiato ad una organizzazione che, almeno militarmente, sembrava molto indebolita. Tuttavia gli argomenti del capo di Al-Qaeda, gli permettono di riprendere, senz'altro dal punto di vista politico, una visibiltà che era molto diminuita. Con la crescente avversione in Afghanistan alle truppe USA, questo elemento non è da sottovalutare, l'incitazione alla sollevazione dei talebani contro gli americani, costituisce, per i combattenti integralisti, un ulteriore motivo di pericolosità per i militari, anche quelli di tutte le altre nazioni, di stanza nel paese asiatico. Il tutto si inquadra nella peggiorata situazione complessiva della missione afghana, sia dal punto di vista militare, con una situazione di stallo che appare senza sbocco, sia dal punto di vista politico diplomatico, con Karzai stretto in una morsa apparentemente senza via di uscita tra i talebani e gli stessi USA. Per l'Afghanistan il destino pare segnato: è probabile che i talebani con l'abbandono delle truppe USA, riprendano il potere, vanificando tutti gli sforzi fatti per creare una democrazia.

mercoledì 21 marzo 2012

La Birmania invita gli osservatori alle prossime elezioni

In occasione delle elezioni parlamentari del primo aprile, la Birmania ha invitato osservatori stranieri ad assistere alle operazioni di voto. Per primi sono stati invitati gli osservatori dell'Associazione del Sud-Est Asiatico, della quale la Birmania fa parte, poi l'invito è stato esteso anche ad osservatori provenienti da USA, UE ed anche osservatori per conto dell'ONU. L'operazione viene valutata positivamente dal mondo diplomatico, anche se restano perplessità per lo svolgimento della campagna elettorale, dove il partito della premio Nobel Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia, ha lamentato pressioni ed irregolarità finanziarie degli avversari. Tuttavia l'attuale campagna elettorale si svolge in maniera più libera per i partiti di opposizione e la stessa premio Nobel è libera di condurre il suo giro elettorale per il paese. Non sono passi avanti da poco in un paese che costituiva una rigida dittatura militare, per la quale è ancora sottoposto a sanzioni. Proprio l'intento di diminuire o addirittura mettere fine alle sanzioni economiche potrebbe essere il motivo della decisione di aprire ad osservatori stranieri le porte del paese per il controllo delle operazioni di voto, anche se questo invito giunge obiettivamente in ritardo, tanto da non potere essere accolto dalla UE, per la mancanza di tempo necessario, valutato in circa sei mesi, per la preparazione degli osservatori. Nelle precedenti elezioni, considerate una farsa, avvenute nel 2010, però Aung San Suu Ky era agli arresti domiciliari e non erano stati invitati gli osservatori; questo cambiamento di rotta viene valutato positivamente dalle cancellerie occidentali e risponde alle intenzioni del governo birmano, che vuole accreditarsi come riformatore.

Ancora sull'anomalia italiana

Grecia ed Italia, rappresentano, ormai, due evidenti anomalie politiche nel cuore dell'Europa. Se ad Atene si sono imposti, anche con la forza, i dettami della Germania, che di fatto hanno limitato la sovranità del paese, a Roma, il governo cosidetto tecnico, instaurato dalle banche e dal mondo della finanza con modalità più morbide, sta perseguendo obiettivi analoghi a quelli subiti dal popolo ellenico. Occorre ricordare che il governo italiano in carica non è stato scelto dal corpo elettorale, ma è al potere con il consenso dei principali partiti, di solito schierati su posizioni diametralmente opposte. Questo ne legittima, secondo la legge, la vita e l'azione, ma ne fa una situazione anomala, se guardata dal lato del processo democratico. In queste ore in Italia infuria la battaglia sulla riforma del lavoro, che riguarda tutti i lavoratori italiani, ed è, perlomeno, strano, che ha decidere su di un tema così fondamentale non sia un esecutivo passato per il giudizio elettorale. Non è questo l'unico episodio cui questo governo è stato chiamato a decidere: la riforma delle pensioni e l'introduzione di nuove tasse, che hanno notevolmente abbassato la qualità della vita dei cittadini in maniera simile a quella dei greci, parlano chiaramente di una azione penalizzante verso una sola parte sociale, senza azione alcuna contro quel mondo bancario e finanziario, che a detta di molti è responsabile della crisi economica acuta che vive il paese italiano. Nella giornata di ieri un episodio di ulteriore gravità è accaduto in un ramo del parlamento italiano, la Camera dei deputati, dove il rappresentante del governo si è permesso di non rispondere nulla alle domande dei deputati, fatto già molto grave se inquadrato nel normale processo democratico, sulla mancata copertura finaziaria di una legge in discussione, cosa in palese contrasto con la legge fondamentale italiana, la Costituzione della Repubblica, e quindi al di fuori della legalità stessa rappresentando un ossimoro, generando la reprimenda del Presidente dell'assemblea. Il fatto di cui sopra rappresenta una duplice valenza che dimostra come l'esecutivo italiano sia al di fuori della democrazia e continui a rappresentare un pericoloso precedente per il normale svolgimento della vita democratica di uno dei paesi principali dell'Unione Europea. Non esistono le prove materiali che questo governo sia, come da più parti affermato, l'espressione delle banche e della finanza e che quindi agisca, in ultima analisi in loro favore, a parte prove indiziarie rappresentate da diversi provvedimenti che paiono andare in quella direzione, ma non è questo il punto centrale di questa riflessione. Qualunque provenienza abbia il governo italiano in carica ciò che importa è che non proviene dalle urne e questo basta ad identificarlo come un vuoto pericoloso per il processo democratico. Se questa prassi dovesse prendere campo, a livello europeo, non solo greco o italiano, in ogni caso di crisi economica, ci troveremmo davanti alla morte dell'esercizio democratico in nome di una emergenza che potrebbe anche non essere vera, si pensi a come ciò potrebbe essere possibile con la manipolazione dei mass media, giustificando la sospensione dei diritti fondamentali per qualunque esigenza finanziaria. Questa convinzione, che potrebbe sembrare una estremizzazione, pone dei quesiti concreti al fine di evitare anche tentativi di alcuni stati, più potenti economicamente, di limitare la sovranità di altri più deboli. Sono fattispecie che si stanno purtroppo verificando, instaurando un colonialismo modernissimo di matrice diversa da quello tradizionale, oltretutto in un ambito, come l'Unione Europea, che dovrebbe essere costituito da alleati. Se i paesi più deboli pagano la loro gracilità economica, Bruxelles, in quanto istituzione centrale, paga la propria debolezza politica, frutto di un processo unificatore incompiuto, che non permette all'intero sistema di avere persi e contrappesi in grado di bilanciare queste nuove casistiche che la crisi economica sta generando. Il mancato controllo sulle banche e sulla finanza genera dei mostri giuridici come il governo italiano, senza che l'ente sovranazionale possa opporsi in nome dell'esercizio democratico. Tutto ciò rappresenta una evoluzione inattesa e spiacevolmente presente, dei sistemi politici occidentali, quelli che dovrebbero esportare la democrazia nel mondo.

martedì 20 marzo 2012

La diffidenza dell'euro è anche diffidenza politica

La nascita della moneta unica europea, l'Euro, doveva essere un fattore trainante per l'unione politica del vecchio continente. Ma mentre si è dato corso velocemente alla divisa comune, non si è proceduto di pari passo con l'integrazione sia normativa che politica. E' stato un errore sulla tempistica del progetto completo che riguardava l'assetto dell'Unione Europea e la corsa in avanti della parte monetaria ha generato squilibri, che hanno indebolito la maggior parte delle economie dei singoli stati dell'Unione. Su ventisette paesi soltanto diciasette hanno adottato la moneta comune, chi per propria scelta, che per mancanza dei requisiti allora previsti. Al momento una seria riflessione imporrebbe, forse una revisione di tali requisiti con la possibilità di uscita, sia volontaria che coercitiva; ma tali vie d'uscita non sono state previste ed i contraccolpi sia economici che politici che deriverebbero da una uscita dalla moneta unica da parte di uno stato membro sono stati valutati molto pesanti, come insegna il caso greco, dove è stato fatto tutto il possibile per mantenere Atene entro l'area dell'euro. La rigidità imposta della Germania alle regole interne degli stati nazionali, ha ora creato un rallentamento del processo inclusivo nella moneta unica. In effetti se si può comprendere la necessità di mettere dei paletti ben definiti alla politica economica degli stati, per evitare pericolosi accumuli di debito e fenomeni connessi, come l'inflazione, si può altrettanto capire chi è restio a rinunciare ai propri margini di azione nella politica monetaria e finanziaria. Il caso più eclatante è il Regno Unito, che non ha voluto rinunciare a regole più rigide in materia di finanza, un settore trainante dell'economia inglese, ed ha così continuato a restare fuori dall'euro. Il paese più popoloso, dopo il Regno Unito, fuori dalla moneta unica è la Polonia, che sta godendo di una buona crescita economica ottenuta anche grazie agli ampi margini di manovra sulla leva monetaria che i suoi governanti hanno usato. Questo fattore ha fatto aumentare i detrattori dell'euro, che temono di vedere diminuire la crescita ed agitato lo spettro di Atene sulla società polacca. Londra e Varsavia non sono le sole, anche se per motivi differenti gli altri quindici paesi fuori dalla moneta unica europea, vedono raffreddare le proprie convinzioni ed assumono un atteggiamento, se non proprio ostile, tale da rallentare il processo di accettazione della divisa comune. Nonostante questi dati oggettivi e la pressione italiana per approvare dispositivi che consentano una maggiore crescita economica, pur entro gli steccati previsti, la Germania non sembra derogare dalla linea intrapresa. Questo atteggiamento tedesco porta soltanto uno stop al processo di unificazione europea, giacchè per il momento l'euro è il solo fattore concreto di unità. D'altra parte questa situazione genera una immobilità da cui è sempre più necessario uscire alla svelta, perchè un processo a metà non serve all'Europa. Affinchè il vecchio continente torni ad essere protagonista occorre rivedere da subito i vincoli di bilancio, per permettere all'economia la necessaria ripresa, ma fatto ciò è inammissibile che esista una parte di UE dentro l'euro ed una parte fuori.
Quella attuale è infatti una Unione a metà, dove non tutti i membri condividono le impostazioni di base e sono, di fatto, soci di comodo. Serve uno slancio di coraggio dei governanti e sopratutto delle istituzioni centrali di Bruxelles per riaffermare i principi costituenti ed insistere su di una normativa che porti a compimento l'effettiva unità. Chi è scettico stia fuori e non intralci il lavoro di chi è convintamente europeista.