Politica Internazionale

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lunedì 16 luglio 2012

Fermare l'aumento della denutrizione

Al già alto numero di persone in stato di indigenza, si prevede, che da qui al 2020, soltanto otto anni, si dovrà aggiungere la consistente cifra di settante milioni di persone. Si tratta di un destino che porterà ben oltre la povertà, cioè l'indigenza assoluta, con mancanza di cibo ed acqua e condizioni igieniche totalmente insufficienti. Di questa massa di disperati, si stima che oltre quattrocentomila bambini non arriveranno a compiere cinque anni. Quello che più sorprende che questa previsione di medio periodo è stata elaborata in conseguenza dei dati della crisi finanziaria che attanaglia il mondo dal 2008. E' un effetto domino che crea conseguenze spaventose: l'impatto su società già poverissime dell'aumento dei generi alimentari, la speculazione sui prodotti e terreni agricoli, con la riconversione da produzione alimentare a prodotti per i carburanti, ha creato una spirale che pare inarrestabile. Non bastavano gli episodi bellici, sempre in aumento e l'incremento del fenomeno della siccità, che pesa in maniera preponderante sulla filiera della produzione agricola, ora il mondo industrializzato presenta i conti della sua speculazione anche alla parte più povera del pianeta. Le conseguenze, oltre che di impatto morale, saranno pesanti anche su quello politico: il terreno di coltura che si sta sviluppando permette una sempre maggiore influenza di apparati clericali sempre più radicali, che gettano le basi per una ostilità di fondo contro l'occidente. Le persone che scappano dalla fame diventano materia di pressione per gli stati ricchi, usate come mezzo di ricatto, mentre le grandi risorse dei paesi poveri vengono svendute ai nuovi colonialisti dei paesi in via di sviluppo molto al di sotto dell'effettivo valore. Ad aggravare la situazione giungono notizie preoccupanti dai governi europei, che nella loro ansia di regolarizzare bilanci da tempo costruiti male, vogliono tagliare i già esigui fondi per la cooperazione e gli aiuti ai paesi del terzo mondo. Una simile politica, oltre che miope si rivela doppiamente colpevole di popoli e persone che possono costituire una bomba ad orologeria. Quello che si favorisce, non si capisce quanto inconsapevolmente, è un confronto futuro, non su basi pacifiche tra il nord ed il sud del mondo, con quest'ultimo influenzato sempre più da una religione e religiosità, che rappresenta l'unico rifugio di situazioni disperate. Anzichè favorire una crescita dei paesi poveri, che consenta uno sviluppo dignitoso, quella che pare affermarsi è una tendenza neocolonialista, caratterizzata dall'assenza di strumenti atti a migliorare le condizioni di popoli allo stremo. In questo quadro molto preoccupante, del quale, però non si avverte l'urgenza ne dai governi occidentali ne dalle istituzioni sovranazionali, prende sempre più corpo, l'esigenza di studiare mezzi e formule per attenuare uno stato di cose destinato ad essere esplosivo, con ricadute dirette sulla vita dei paesi occidentali. Occorre partire dal presentare il conto alla finanza speculativa, che tanta responsabilità ha su questo stato di cose. L'introduzione della Tobin tax è ormai improcrastinabile ed una percentuale di essa deve essere destinata a progetti di sicuro valore, che possano fermare le situazioni più critiche in campo alimentare e medico dei paesi poveri. Ma questo solo in prima battuta, perchè poi occorre fornire gli adeguati finanziamenti atti a creare uno sviluppo, caratterizzato da condizioni di ecosostenibilità e giustizia sociale, in modo da estendere al maggior numero di persone un adeguato stato di benessere, anche tramite l'istruzione e la formazione professionale, così da avere una manodopera specializzata in grado di sostenere e partecipare ad i progetti internazionali. La responsabilità dell'occidente non deve essere intesa nell'esclusivo senso morale, ma deve essere anche letta ed interpretata come investimento sia sociale che economico, per creare benessere in situazioni di sottosviluppo. Questa azione deve, infatti, andare nel senso opposto della semplice azione caritatevole e paternalistica, propria di visioni falsamente liberali, ma anche religiose auto assolutorie, ma deve essere contraddistinta dalla reale intenzione di costruire un processo che dia una effettiva inversione di tendenza, non solo nello sconfiggere la denutrizione e la povertà ma di avviare, finalmente, un progetto globale per innalzare redditi medi totalmente insufficienti per entrare nel mondo globalizzato.

venerdì 13 luglio 2012

Cina: troppo piccolo il mercato interno, la crescita rallenta

Il rallentamento della crescita cinese, registrato al di sotto dei valori previsti dal governo, impone a Pechino una attenta valutazione sullo stato complessivo della propria economia. Quello che colpisce è un apparato industriale oramai sovradimensionato al bisogno della domanda, sia esterna che interna. La crescita esponenziale delle scorte industriali, si può spiegare soltanto con una consistente minore vendita verso l'estero, non compensata abbastanza dallo stimolo della domanda interna. In realtà la diminuzione delle esportazioni era attesa, a causa della crisi dei paesi ricchi, ma non con questi volumi; per rimediare al calo della domanda esterna si era pensato di stimolare la crescita di quella interna per generare un effetto di compensazione, che potesse permettere un bilanciamento tale da mantenere il previsto tasso di crescita. La ritardata adozione della strategia e degli strumenti per l'aumento del fronte interno giunto al maggiore calo della domanda esterna hanno, di fatto, provocato il rallentamento che proprio Pechino voleva evitare a tutti i costi. Gli effetti pratici di questo rallentamento vanno dal già citato aumento delle scorte, ai tagli salariali ed al fenomeno dei fallimenti industriali, tipico di una economia avviata verso la maturità. Eppure le manovre del settore bancario erano indirizzate per favorire il credito: la banca centrale cinese per ben due volte ha abbassato il tasso di interesse e per tre volte ha ridotto la quota di riserva del capitale degli istituti bancari, per favorire il circolante. Inoltre il controllo sul settore immobiliare, se ha creato inizialmente un rallentamento del comparto, ha concretamente impedito lo scoppio della tanto temuta bolla immobiliare, che molti danni ha generato negli Stati Uniti. Ed anche il fenomeno inflattivo, spauracchio di Pechino, è rimasto contenuto intorno al 2,2%. Tuttavia ciò non è bastato a mantenere una crescita ancora troppo basata sulle esportazioni, mentre l'immenso paese cinese potrebbe rappresentare per se stesso una enorme valvola di sfogo della propria produzione. Alla base di questa mancanza vi è ancora troppa arretratezza delle regioni interne, che patiscono una differenza di reddito con la costa e le regioni industrializzate in notevole misura, sebbene siano stati fatti alcuni sforzi per dotare di infrastrutture le regioni più povere, la vastità del territorio non ha permesso uno sviluppo omogeneo del paese, che, oltre essere fonte di profonde tensioni sociali, rappresenta indubbiamente un grande ostacolo alla diffusione commerciale dei prodotti. Non si può non notare anche una mancanza di visione più ampia da parte di Pechino, che ha concentrato l'industrializzazione soltanto in alcune zone, che hanno accresciuto i propri redditi, a discapito di altre lasciate in situazioni arretrate. Se questa scelta poteva essere giustificata all'inizio del processo di industrializzazione del paese, che non disponeva di adeguate risorse per coinvolgere l'intero territorio, quello che sorprende è la mancata attuazione di un benessere più diffuso in grado di incrementare un mercato interno decisamente asfittico. Infatti alle dichiarazioni governative, che hanno più volte messo al centro dei loro programmi la crescita del consumo interno, non sono seguiti atti capaci di realizzare concretamente questi propositi. Ora in una situazione di compressione dei consumi generalizzata, il ritardo cinese nel creare i presupposti di un innalzamento della domanda interna, rappresenta un ulteriore fattore di debolezza dell'impostazione del sistema della Cina, che si trova con la necessità di svuotare i magazzini delle proprie fabbriche. Il rischio è quello di abbassare i prezzi e di ingolfare mercati già saturi, che rischiano di diventare totalmente incapaci di ricevere altri prodotti, andando così a bloccare il circolo della crescita in maniera determinante. Finiti, quindi i tempi della crescita esponenziale per Pechino si tratterà di elaborare nuove strategie per evitare valori di crescita troppo piccoli per i suoi standard; una sfida molto difficile per il governo ed il popolo cinese.

giovedì 12 luglio 2012

In Europa è ancora presente la schiavitù

I dati presentati dall'Organizzazione Internazionale del lavoro, presentano una situazione europea allarmante riguardo alla presenza di persone sottoposte ad un regime di schiavitù all'interno del territorio del vecchio continente. Sarebbero, infatti, quasi un milione di persone, nella maggioranza di sesso femminile, i lavoratori esclusi da ogni diritto e sottoposti a condizioni di vita vessatorie. Le due maggiori categorie riguardano lo sfruttamento sessuale, con circa 270.000 persone costrette a queste pratiche ed i lavori forzati, che interessano circa 670.000 individui. Nel primo caso, la prostituzione, il fenomeno colpisce cittadine provenienti dall'Asia, dall'Africa e dall'Europa centrale, spesso al centro di vere e proprie tratte di esseri umani, che entrano inconsapevolmente in un meccanismo che gli toglie ogni dignità, spesso vendute dalle stesse famiglie di origine a causa di condizioni di estrema povertà. Queste persone sono alla base della piramide di una delle industrie più prospere, quella del sesso, che è in mano a gruppi di malavita organizzata, e che spesso costituisce una branca di attività più ampie che vanno dal commercio di droga ed armi fino ad arrivare al mercato degli espatri clandestini. Si tratta di un sistema economico criminale che si basa su meccanismi ben oliati e che sfrutta sinergie, anche complesse sopratutto nell'organizzazione ferrea e metodica, per creare economie di scala, particolarmente redditizie, grazie al collegamento ed alla contiguità dei settori di mercato criminale. Del resto anche la parte del lavoro forzato, che, secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro, riguarda cittadini comunitari in prevalenza, ma ha punte elevate anche di cittadini africani, specie nell'agricoltura, costituisce un modello economico vincente per chi sta nella parte alta della piramide organizzativa. La già citata agricoltura, l'edilizia, il lavoro domestico ed il settore manifatturiero, costituiscono i principali ambiti dove la schiavitù riesce ad assicurare rendimenti elevati alle organizzazioni criminali, proprio in ragione di un bassissimo costo del lavoro esercitato in ambiti contraddistinti dall'assenza di regole e diritti. Se la considerazione morale non può che essere la base della condanna del fenomeno, anche quella di tipo economico non è da sottovalutare: primo si alimenta un mercato produttivo distorto capace di alterare in maniera determinante la concorrenza nei confronti di quelle imprese che fanno della correttezza la base della loro attività lavorativa, secondo la clandestinità del lavoro non consente l'adeguato controllo della lavorazione da parte dell'autorità costituita, generando fenomeni contraddistinti da carenze igienico sanitarie, ad esempio del settore agroalimentare, o da difetti strutturali nel settore delle costruzioni. Molto rilevante è anche la dimensione che ha raggiunto il fenomeno della richiesta di elemosine e le emergenze ad esso collegate, come l'uso di minori o di persone portatrici di handicap fisici o psichici al centro di vere e proprie speculazioni incentrate proprio sulla loro disabilità. Il pericolo della congiuntura economica attuale è che il fenomeno della schiavitù registri un incremento anche in relazione al riciclaggio di denaro da investire nelle attività ad esso collegato. Sebbene gli stati aderenti all'Unione Europea abbiano compiuto dei passi avanti nel contrasto al fenomeno della schiavitù, sia dal punto di vista legislativo che operativo, il dato presentato dall'Organizzazione Internazionale del lavoro risulta essere talmente sostanzioso nella misura delle sue dimensioni da richiamare l'attenzione verso la necessità di un cambiamento dell'approccio alla lotta del fenomeno. Mettere il problema della tratta degli esseri umani e del loro impiego forzoso in cima ad una agenda comune europea rappresenta, infatti una necessità ormai inderogabile, si tratta di affrontare il problema attraverso una organizzazione capillare di controllo sia per il movimento delle persone, che per gli aspetti finanziari del fenomeno che possono permettere di risalire alle centrali che governano il moderno schiavismo. Cancellare questa pratica non umana è doveroso anche per non avere motivi di mancata legittimità dell'istituzione europea, sempre pronta ed in prima fila per la difesa dei diritti nel mondo, senza che, purtroppo, riesca ad assicurarli completamente sul proprio territorio.

mercoledì 11 luglio 2012

L'Egitto in piena crisi istituzionale

La vittoria dell'islamico Morsi in Egitto, ha rovinato i piani dei militari e sopratutto, sta innescando una crisi istituzionale, che potrà avere anche soluzioni tali da rimettere in discussione il processo democratico del paese. Uno dei primi atti del nuovo presidente è stato quello di reintegrare il parlamento nelle sue funzioni, confutando così il provvedimento della Corte Costituzionale che ne aveva decretato l'illegittimità. Questa decisione ha però riaperto le profonde divergenze con le forze armate, vere mandanti della sospensione dell'organo legislativo egiziano, ed ha provocato un conflitto con la stessa Corte Costituzionale, che, al momento, pare insanabile, con il risultato di avere creato una situazione in cui la vita istituzionale risulta bloccata. La risposta della Corte Costituzionale, infatti, è stata quella di sospendere il decreto presidenziale ristabilendo la situazione ante risultato elettorale, con il parlamento di nuovo dichiarato illegale. Va ricordato che, tecnicamente, alla base della decisione della Corte vi è un difetto nella legge elettorale. Proprio per questa ragione Morsi ha il solo appoggio dei partiti islamici, Fratelli Musulmani e Salafiti, mentre per le formazioni laiche il decreto che rimetteva al proprio posto il parlamento è stato addirittura definito golpe istituzionale. Questo significa che la frattura nel paese non è solo istituzionale ma anche sociale, d'altro canto i partiti laici avevano preferito schierarsi a favore del candidato sconfitto, espressione dei militari ed in un certo senso anche del passato regime, piuttosto che vedere un esponente degli islamici nella carica di presidente. Quello che è uscito dalla primavera araba è un Egitto profondamente diviso, in bilico tra attaccamento alla religione, che negli anni bui del regime ha rappresentato un sicuro rifugio, e voglia di modernizzazione sociale e politica, che male sopporta il bavaglio religioso al posto di quello della dittatura. Sono due mondi in aperto contrasto e probabilmente inconciliabili, che hanno trovato nel terreno istituzionale la loro arena di scontro. Ma questa volta l'esercito non è imparziale ed è intenzionato a fare pesare la propria importanza sia come soggetto politico, che stabilizzatore del paese. La sentenza della Corte costituzionale, composta da uomini nominati da Mubarak e quindi ritenuta moralmente illegittima dai partiti musulmani, affida il ruolo del parlamento alle Forze Armate, che ricoprono quindi un doppio ruolo, alquanto inedito in un regime democratico, ma quello che si sta sviluppando in Egitto è una forma di stato ancora incompiuta, dove si può presentare il paradosso di un esercito maggiore garante delle libertà individuali rispetto ad una assemblea eletta. Del resto il timore di gran parte della società egiziana, ma non certo della maggioranza che si è recata alle urne, è l'applicazione della sharia come legge vigente nel paese, mentre sulpiano internazionale si teme una deriva dell'Egitto verso paesi fondamentalisti come l'Arabia Saudita, che, tra l'altro sarà il primo viaggio all'estero di Morsi. Inoltre per i militari è ritenuto fondamentale non alterare i rapporti diplomatici con Israele e Stati Uniti, attraverso i quali giungono gli aiuti in materiale e tecnologia. Quelli che si aprono sono scenari segnati dalla grande imprevedibilità: se il potere maggiore è in mano ai militari, non è interesse di questi passare come coloro che, tramite un colpo di stato per ora non violento, hanno invalidato la competizione elettorale di uno dei paesi arabi più importanti, ma, tuttavia, godono anche dell'appoggio, certamente insperato, dei partiti laici usciti sconfitti dalle elezioni, che tutto volevano, durante le dimostrazioni contro Mubarak, tranne passare dalla dittatura alla legge islamica. I vincitori delle elezioni, dal canto loro, hanno la forza per mobilitare masse numerose, ma minori rispetto a quando nelle piazze scendevano anche quelli che ora sono i loro avversari politici, hanno però il risultato a loro favorevole da presentare sul piano internazionale, anche se tutto il panorama diplomatico, conscio dell'equilibrio precario della situazione, invita i due contendenti ad un dialogo serrato per superare la crisi.

martedì 10 luglio 2012

Sempre più tesi i rapporti tra Cina e Vaticano

I rapporti, interrotti ufficialmente nel 1951, tra Cina e Vaticano, sono destinati a deteriorarsi, nonostante il riallaccio con Pechino, fosse uno dei programmi del pontificato di Benedetto XV. Il nodo centrale resta sempre la questione della nomina dei Vescovi cinesi, che il Vaticano ritiene, conformemente alla dottrina, propria prerogativa, oltre che garanzia per l'unità della chiesa. Non la pensa così lo stato cinese, che vede una violazione della propria autonomia, fino a diventare una interferenza vera e propria, la nomina di un funzionario ecclesiastico operante sul proprio territorio. La questione non è nuova, tanto da avere generato due corpi cattolici, formalmente ben distinti all'interno della Cina. Infatti oltre alla Chiesa cattolica ufficiale, costretta a vivere in semi clandestinità, vi è l'Associazione Patriottica, che rappresenta l'organizzazione attraverso la quale il Partito Comunista controlla i cattolici, si tratta di cattolici atipici perchè mettono lo stato cinese davanti al Papa e godono di minore libertà di espressione, giacchè il clero dirigente è allineato in modo ortodosso ed acritico alle direttive di Pechino. In realtà la divisione tra queste due chiese non è poi così netta e spesso vi è chi ne fa parte di entrambi, anche se la situazione non è uniforme in tutto il paese e vi sono differenze, anche sostanziali, da regione a regione. La presenza cattolica in Cina si aggira ufficialmente intorno ad i cinque milioni, mentre il dato stimato ammonta a dodici milioni, ma non si hanno dati certi, proprio perchè la chiesa ufficiale è osteggiata dall'apparato, quindi il dato ufficiale si riferisce agli appartenenti alla Associazione Patriottica, molti dei i quali però, ricordiamo potrebbero fare parte anche della chiesa ufficiale. Nei giorni scorsi l'ordinazione da parte del governo di un nuovo Vescovo, padre Yue Fusheng, a capo della diocesi di Harbin, la maggiore città del nord-est, ha provocato la reazione vaticana, che l'ha definita illeggittima ed ha minacciato la scomunica per il nuovo vescovo ed i prelati a lui vicini. Fatto che ha una duplice implicazione perchè il nuovo vescovo è anche il vice presidente dell'associazione patriottica e chi lo ha ordinato, il vescovo Fang Xingyao, ne ricopre addirittura la carica di Presidente. In quest'ottica la reazione vaticana assume anche una implicazione politica e quindi non solo dottrinale, perchè attacca, con le minacce di scomunica, lo stesso stato cinese. Ciò non può non implicare un raffreddamento dei rapporti diplomatici in una fase storica dove il Vaticano si sta battendo per la libertà religiosa e la Cina cerca in tutti i modi di accreditarsi come potenza mondiale. Ma senza l'imprimatur di Roma, Pechino rischia di avere un problema in più sul piano del mancato rispetto dei diritti individuali. In effetti la reazione cinese, che ha definito la protesta vaticana come oltraggiosa ed irragionevole, rileva uno stato di apprensione sul tema, che non può che fare riflettere sulle difficoltà, sia esterne che interne, che Pechino sta affrontando. Se la nomina di un prelato favorevole può aiutare a smorzare l'opposizione interna, sul piano internazionale ha una risonanza tutt'altro che positiva. La polemica è aggravata dalla sparizione di Thaddeus My Daquin, un vescovo ausiliare di Shanghai, arrestato dalla polizia cinese e del quale si sono perse le tracce. Troppo spesso la chiesa ufficiale pare essersi schierata con con chi richiedeva maggiori garanzie a favore dei diritti, sfuggendo oltre modo al controllo dell'apparato e ciò ha generato la necessità di aumentare l'influenza dell'Associazione Patriottica per incanalare in qualche modo questa protesta. Tuttavia i conti di Pechino potrebbero essersi rivelati sbagliati se l'eco delle proteste vaticane consentirà una maggiore attenzione al problema della libertà religiosa all'interno dello stato cinese.

Obama punta ad una riforma delle tasse

La questione della tassazione è da sempre al centro dei programmi elettorali, a qualsiasi latitudine; ma è negli USA che è particolarmente sentita e fonte di pesanti scontri. Nella patria del liberismo è da sempre considerato autolesionistico parlare di incremento della tassazione, per questo la proposta di Obama, seppure nella sua semplicità, è destinata a fare da spartiacque alla propaganda elettorale per le presidenziali. In realtà la proposta di aumentare le tasse non è destinata all'universalità della popolazione americana, ma soltanto a chi supera la soglia di reddito dei 250.000 dollari. Pur non essendo una cifra da normalizzazione sovietica la proposta del presidente uscente ha già incontrato le resistenze dei repubblicani, che hanno la maggioranza al congresso. La ragione della volontà di ridurre la tassazione per quella che è definita la classe media americana, il serbatoio di voti maggiore, è la creazione di una maggiore disponibilità economica per un numero maggiore di persone, capace di fare da volano per una economia sempre in stato di difficoltà. Il contraltare a questa manovra è l'azzeramento dei benefici per i più ricchi, tramite la fine delle agevolazioni fiscali combinate con l'aumento delle aliquote, andando così ad applicare una sorta di redistribuzione, peraltro molto attenuata. L'obiezione repubblicana si basa sulla minore ricaduta degli investimenti da parte dei ceti più ricchi, posizione opinabile in quanto già ora l'apporto dei ceti abbienti alla ripresa non ha garantito la ripresa economica tanto decantata dalle teorie liberiste. Viceversa la possibilità di una maggiore spesa per un numero maggiore di persone potrebbe dare maggiori risultati in ottica di sviluppo. Il punto di partenza è la revisione di una legge del presidente Bush che prevedeva una serie di tagli fiscali per l'intera popolazione, Obama è sempre stato contrario all'applicazione universale della defiscalizzazione, ma l'avversa maggioranza al Congresso gli ha sempre impedito una revisione verso una maggiore equità del provvedimento. Ma questa legge deve affrontare la scadenza fissata entro la fine dell'anno, Obama è favorevole a mantenerla soltanto per i redditi sotto i 250.000 dollari, che tradotto in aliquote fiscali vuole dire tassazione al 30% per chi percepisce un reddito entro la soglia dei 250.000 dollari ed una aliquota che può variare dal 33% al 39% applicabile a scaglioni, per gli importi superiori. E' su questo tema che verteranno i sondaggi elettorali per capire chi sarà eletto presidente ed oltre gli steccati politici, quella lanciata da Obama è una provocazione alla politica fiscale statunitense che dagli anni ottanta, cioè dall'era Reagan, ha caratterizzato il sistema USA. Riuscire ad invertire questa tendenza potrebbe aprire una nuova via anche nel resto dell'occidente, restio a tassare i grandi patrimoni familiari a scapito dei redditi da lavoro, sempre più penalizzati dalla crisi. Sarebbe la conferma della statura da leader mondiale di Obama.

lunedì 9 luglio 2012

Elezioni in Libia: verso la sconfitta dei partiti musulmani

I primi exit poll delle elezioni libiche, le prime dopo il dominio incontrastato di Gheddafi, la cui affluenza è stata di circa il sessante per cento degli aventi diritto, vedrebbero sconfitto il partito dei Fratelli Musulmani libico a favore dell'Alleanza delle forze nazionali, formazione che riunisce circa quaranta formazioni, nel tentativo di creare una sintesi dei vari gruppi impegnati nella lotta contro il rais di Tripoli. Il vantaggio della formazione laica sarebbe certo in quasi tutti i distretti del paese. Se il risultato dovesse essere confermato, la Libia interromperebbe le vittorie elettorali di tipo confessionale, che hanno portato al potere, in tutti i paesi attraversati dalla primavera araba, le formazioni di matrice islamica. Sopratutto la Libia andrebbe a rappresentare una enclave tra Egitto e Tunisia, diventando, potenzialmente, un interlocutore preferito per il mondo occidentale, sia per la sponda meridionale del Mediterraneo, che per il mondo arabo. Tuttavia non bisogna confondersi sulla natura dell'Alleanza delle forze nazionali, descriverlo come movimento di matrice liberale appare esagerato, in quanto, pur non essendo una forza islamica dichiarata, sostiene la sharia come fonte di diritto. Questo fattore costituisce una anomalia in una forza politica che si definisce laica, ma rappresenta anche uno spunto di riflessione sulle modalità di definizione sui nascenti movimenti politici arabi, derivanti dalla primavera araba. Infatti il metro di valutazione applicato ai partiti occidentali non può valere in questo contesto, dove possono coesistere l'impronta non confessionale con l'apprezzamento della legge islamica.
Anche la complicata legge elettorale adottata dal paese libico non aiuta a costruire una ipotesi certa, giacchè si stima che circa 120 eletti su 200, sarà di matrice indipendente e quindi soltanto i restanti 80, saranno espressione dei partiti; ma proprio questa prevalenza di candidati eletti indipendenti dovrebbero costituire la base per la sconfitta degli islamisti e portare Mahmoud Jibril alla vittoria. Il solo fatto di rappresentare una alternativa ai partiti islamici ha provocato la definizione di candidato degli europei, tuttavia per ora questa possibilità non è una certezza, il vincitore, comunque, dovrà fare sfoggio di equilibrio e lungimiranza, per governare un paese più frammentato che diviso: la grande sfida infatti sarà riuscire ad unire le regioni occidentali con quelle orientali, divise anche al loro interno in diversi gruppi tribali. Compito non facile, le divisioni che hanno contraddistinto la lotta di liberazione sono rimaste tali, anche dopo l'uccisione del Colonnello; le stesse difficoltà dell'esercizio del voto, ostacolato con attentati, specie nella regione della Cirenaica, rappresentano ulteriori segnali di ostativi nel cammino della costruzione dello stato ed anche l'assoluta assenza di almeno un inizio di un processo di pacificazione nazionale, non costituisce certo una buona premessa. Con queste basi di partenza il vincitore delle elezioni dovrà misurarsi poi con una serie crescente di difficoltà rappresentate dalla gestione dei ricchi giacimenti petroliferi e del conseguente reimpiego dei proventi, sia in ottica di redistribuzione del reddito per innalzare una qualità di vita decisamente bassa, sia in ottica della costruzione di infrastrutture per sviluppare l'economia del paese, creando alternative all'industria energetica capaci di attirare investitori esteri. Il compito non è agevole perchè quella libica è stata una società che Gheddafi ha basato sulla corruzione per catturare il consenso delle tribù più importanti. Per creare la nuova società libica le tribù saranno il punto di partenza obbligato, ma che andranno poi superate nel tentativo di dare un assetto maggiormente moderno, per lo meno a quella che dovrà essere la classe dirigente del paese, cercando di dare una maggiore articolazione al tessuto sociale, attraverso la creazione di partiti ed associazioni e la partecipazione attiva alla politica delle donne, molto osteggiate in campagna elettorale.