Politica Internazionale

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giovedì 23 agosto 2012

In Iran il vertice dei paesi non allineati

Il vertice dei paesi non allineati in programma per il 30 e 31 agosto nella capitale iraniana, rischia di perdere il proprio significato per diventare una manifestazione di consenso verso la Repubblica degli ayatollah. Quello che il regime di Teheran ha organizzato, infatti, pare una manifestazione per dimostrare che il paese è tutt'altro che isolato, come le intenzioni di Stati Uniti ed Israele vorrebbero, a causa dello sviluppo del proprio programma nucleare. La presenza di ben trenta capi di stato e di almeno un centinaio di rappresentanti di governo di altri paesi, secondo quanto dichiarato da Teheran, dimostra, come in effetti è nella realtà, che il piano di isolamento voluto da Washington ed appoggiato dalla UE è fallito, grazie alla efficace strategia diplomatica degli iraniani, che hanno saputo aprirsi e percorrere strade alternative al rapporto con i paesi più industrializzati. In effetti quanto dichiarato dal portavoce del ministero degli esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, che ha definito il vertice come il più grande evento della storia diplomatica del paese, corrisponde al vero e rappresenta in concreto come gli sforzi di isolare il paese siano, di fatto, naufragati. La significativa presenza di alcuni determinati paesi, poi, assume una grande rilevanza politica nel momento attuale. In particolare la visita del nuovo presidente egiziano Morsi significa la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Egitto ed Iran, interrotte da più di trenta anni. Questo elemento, anche se non dovrebbe portare allo spostamento dei delicati equilibri regionali del medio oriente, non può che determinare una maggiore diffidenza degli israeliani per il nuovo assetto politico uscito dalle urne egiziane. Per Teheran è comunque un successo la ripresa delle relazioni con Il Cairo, fino ad ora comunque dichiaratosi alleato degli USA, proprio perchè ciò rappresenta un fattore di disturbo per Israele. L'organizzazione del vertice rappresenta anche la volontà iraniana di assumere un ruolo di guida dei paesi non allineati, per perseguire la propria strategia di media potenza, che cerca di ritagliarsi un ruolo da protagonista sul panorama internazionale, facendo leva sull'anti americanismo di molti paesi membri e nello stesso tempo allacciando rapporti commerciali capaci di annullare gli effetti delle sanzioni. Teheran cerca di mettersi alla guida di un insieme eterogeneo di nazioni, senza però avere su molte di esse, la necessaria autorevolezza e la capacità di manovra indispensabile per portarle sotto la propria influenza, tuttavia l'esistenza di tratti comuni con paesi che coprono diverse aree geografiche e si sentono accomunate da sentimenti contrari al fenomeno della globalizzazione, avvertito come nuova versione dell'imperialismo americano, potrebbe consentire una ulteriore crescita del peso diplomatico iraniano. Questa situazione rappresenta una sorta di parziale sconfitta per l'impostazione data da Obama alla propria politica estera, imperniata su di un ruolo meno visibile e più di secondo piano dell'attivismo americano fuori dai propri confini, anche se in realtà in diversi episodi la troppa rigidità nell'affrontare alcune situazioni ha determinato, di fatto, un mantenimento di vecchie posizioni, invise a paesi di particolari aree geografiche, oggetto in passato degli eccessi invasivi di Washington. Quello che rischia di uscire da questo vertice è quindi il ribadire di una posizione dei paesi non allineati contraria all'occidente, in un momento storico dove, invece, sarebbe necessaria una maggiore collaborazione tra nord e sud del mondo su materie determinanti per il mantenimento della pace e l'intensificazione della cooperazione mondiale.


martedì 21 agosto 2012

Il caso Assange come causa dell'interruzione del diritto internazionale

Dietro la vicenda londinese che vede come principale interprete Julian Assange, vi sono, in realtà, diverse implicazioni che riguardano i rapporti diplomatici e lo stesso diritto internazionale, tali da potere sovvertire consuetudini consolidate. La minaccia del governo del Regno Unito di violare impunemente una ambasciata di uno stato sovrano, che gode, pare superfluo ricordarlo, di extraterritorialità, va contro ogni ragionevole scenario che si possa prefigurare nei rapporti tra due stati, nemici o no. La gravità della minaccia potrebbe essere soltanto superata dalla sua messa in pratica, che darebbe il via a spinose questioni presso l'ONU, ma che potrebbe, sopratutto, inficiare il principio dell'extraterritorialità, su cui si basano gli insediamenti diplomatici in tutto il mondo. Creare un tale precedente potrebbe aprire una serie di provvedimenti analoghi in altre parti del pianeta, mettendo in crisi il complesso sistema su cui poggiano le relazioni internazionali ed aprire così una fase storica dei rapporti diplomatici segnata da profonda incertezza. Pare impossibile che la diplomazia londinese, formata da personale molto esperto, non sia consapevole della responsabilità di dare il via ad una pratica così pericolosa, in un ambiente dove la creazione di un precedente può costituire una legge non scritta, tuttavia più che ai diplomatici professionisti, la responsabilità di tale minaccia sembra da ascrivere ad un governo come quello di Cameron, che continua a distinguersi per la scarsa professionalità, l'inesperienza nella gestione delle situazioni difficili, come più volte dimostrato nei casi di politica interna ed ora per il servilismo, quasi ostentato, verso gli Stati Uniti. Difficile infatti non pensare che dietro la manovra inglese non vi sia la mano di Washington, che, però, si distingue per un basso profilo, continuando ad affermare che la vicenda riguarda soltanto Londra, Quito e Stoccolma. In realtà per gli USA l'atteggiamento inglese pare avere procurato soltanto fastidi, compattando i paesi del centro america in appoggio all'Ecuador anche in nome di un rinnovato anti americanismo. La frase del presidente ecuadoriano Correa che afferma che i paesi centro americani non sono più il cortile di casa degli USA, può rappresentare per Washington implicazioni ben peggiori dei supposti vantaggi della cattura di Assange. L'esercizio del diritto di asilo da parte dell'ambasciata ecuadoriana, pone così problemi che vanno aldilà del singolo caso, che già da solo presenta risvolti interessanti. Non possono che essere ovvie le considerazioni che la volontà di punire chi ha divulgato notizie riservate, in nome di una pur dubbia libertà di stampa, non possano essere motivo di dubbio sul reale comportamento di stati che si auto nominano campioni dei diritti civili. L'intreccio che si è venuto a creare, tra relazioni diplomatiche ed i possibili sviluppi intorno al caso del fondatore di Wikileaks, fornisce la misura di quanto stati più deboli sappiano sfruttare le occasioni per riempire i vuoti che si sono venuti a creare negli equilibri mondiali: non è un caso che Correa ha espressamente dichiarato che si tratta di una lotta tra Davide e Golia, ma può essere l'occasione per i tanti Davide del mondo di unirsi per guadagnare visibilità ed importanza. In effetti se la questione viene impostata come protezione fornita ad una persona per le sue opinioni politiche, risulta difficile stare dalla parte degli inglesi, che, anzi, ne escono, a prescindere da ogni finale possibile della vicenda, come i perdenti in assoluto, per avere assunto un atteggiamento contrario al diritto. D'altro canto l'Ecuador, dopo una minaccia esplicita ad una sua sede diplomatica, non poteva cedere di fronte a minacce irragionevoli ed inopportune, ed ha così assunto un ruolo di paladino dei diritti facilmente condivisibile, ottenendo l'appoggio anche implicito di un'area ben più vasta di quella dei paesi centro americani. Vi è ancora un aspetto che è parso trascurato da più parti: il silenzio delle Nazioni Unite di fronte alla minaccia di una violazione così palese. La mancata reazione, che doveva essere di sanzione automatica, del Palazzo di vetro pone inquietanti interrogativi sulla reale indipendenza dell'organismo creato per favorire la cooperazione dei popoli in nome del diritto; il fatto è gravissimo ed impone un rimedio che permetta di riguadagnare la fiducia, oltre che dell'opinione pubblica mondiale, di quei paesi del terzo mondo che si sono spesso sentiti trascurati dalle Nazioni Unite.

lunedì 20 agosto 2012

Per il Giappone, dopo la Corea del Sud, si apre il fronte diplomatico con la Cina

Dopo la tensione con la Corea del Sud, per la questione delle Isole Takeshima, per il Giappone si apre un altro fronte diplomatico analogo, questa volta con la Cina, per le isole Senkaku. Attivisti che componevano l'inedita alleanza tra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, hanno infatti piantato le rispettive bandiere su questo piccolo arcipelago, formato da cinque isole, situato nel mar Cinese Orientale e distante circa 120 miglia marine a nordest di Taiwan, 200 miglia marine ad est della Cina continentale e 200 miglia marine a sudovest dell'isola di Okinawa, di cui amministrativamente fanno parte per essere inserite nella sua prefettura, attraverso la dipendenza dal comune di Ishigaki. L'arcipelago era sotto il dominio cinese fino al 1895, anno in cui, in base la trattato di Shimonoseki, dell'aprile 1895, conseguente alla sconfitta della Cina nella prima guerra con il Giappone, passarono sotto la sovranità di quest'ultimo. Gli attivisti cinesi sono stati sfrattati semplicemente senza arrivare ad un processo, che poteva avere conseguenze ben più gravi del già difficile clima che si è venuto a creare; ma questo episodio è soltanto l'ultimo di una serie di incidenti, che si registrano in aumento dal 2007. Come per le isole Takeshima, esistono più ragioni che provocano questa situazioni, che possono portare ad incidenti diplomatici gravidi di conseguenze. Le Senkaku sono circondate da acque molto pescose ed hanno giacimenti di idrocarburi, che pur non consistenti in termini assoluti, possono rappresentare, sopratutto per il Giappone, una riserva considerevole. Inoltre l'importanza strategica, inquadrata in un contesto orientato al sempre maggiore controllo e presidio delle rotte commerciali, ne determina un valore intrinseco molto superiore allo stretto valore economico, non solo, anche l'importanza militare non è secondaria, perchè potrebbe permettere la creazione di una base che potrebbe essere una vera e propria testa di ponte nel Pacifico, sopratutto per la flotta cinese, che avrebbe l'opportunità di insidiare proprio la supremazia di quella giapponese. Il tema è quindi delicato ed arriva in un momento particolare sia per Pechino, che per Washington, alle prese con passaggi di potere annunciati e non. Proprio gli USA, che hanno trasferito la sovranità dell'arcipelago al Giappone, nel 1972, in seguito al trattato di pace di San Francisco, mai riconosciuto dalla Cina, hanno, recentemente, dichiarato che l'arcipelago rientra nel trattato con Tokyo per la sicurezza, da cui consegue che ogni attacco di cui potenzialmente potrebbero essere oggetto, potrebbe fare scattare delle rappresaglie ad opera delle forze armate americane. Negli ambienti statunitensi si ritiene che le rivendicazioni cinesi siano soltanto simboliche e non possano andare aldilà di meri episodi dimostrativi. Tuttavia sia in Cina, che in Giappone, le rispettive opinioni pubbliche sono protagoniste di manifestazioni contro il paese avversario in nome di un rinnovato nazionalismo, che accomuna i due paesi, divisi da storica rivalità. Sopratutto il Giappone sembra attraversato da un sentimento patriottico che sconfina in un pericoloso revanscismo, capace di aggravare una situazione regionale, sempre più in bilico per la presenza di focolai potenziali altamente pericolosi.



Sulla UE il pericolo dell'affermazione dei movimenti politici estremi

La velocità con cui i mercati stanno condizionando la vita degli abitanti dell'Unione Europea, continua a produrre reazioni politiche che muovono l'opinione pubblica sempre più verso le ali estreme delle formazioni politiche. Certo per ora è una tendenza non maggioritaria ma che rivela una propensione degli elettori al rifiuto dei partiti tradizionali che occupano le posizioni di governo. Il fenomeno è rivelatore di una percezione piuttosto netta sulla responsabilità della crisi e dell'inadeguatezza delle misure prese, che sono andate a pesare solo su di una parte ben definita della società europea. Il dato comune, infatti, evidenzia lo scontento dei ceti medi e medio bassi i cui redditi sono stati fortemente decurtati da misure pressochè analoghe, applicate in nazioni differenti. La crescita delle ali estreme del panorama politico, diventa, quindi, la logica conseguenza di una radicalizzazione di una situazione caratterizzata dall'assenza di controllo, che ha permesso materialmente la grave situazione attuale. Ma, se nell'immediato, proprio per la mancanza di peso politico nelle sedi parlamentari, questo fenomeno reata circoscritto alla sola protesta, in un prossimo futuro segnato da competizioni elettorali imminenti, una affermazione elettorale di questi movimenti potrà creare diverse condizioni capaci di bloccare il necessario processo di integrazione europea, che resta l'unica strada per fare uscire il vecchio continente dalle sabbie mobili della crisi finanziaria. Intanto una frammentazione più accentuata dell'attuale nei parlamenti nazionali ed in quello comunitario, non potrà che avere effetti di rallentamento sui processi decisionali, con conseguenti cause ostative alla necessaria univocità di indirizzo. Questo segnale, comune sia a paesi da tripla A, come l'Olanda, sia a nazioni in evidente difficoltà come la Grecia, non può essere sottovalutato da chi è attualmente al governo e specialmente ricopre ruoli di maggiore importanza, in virtù della propria forza economica, nella UE. La discrepanza che divide la velocità dei mercati dall'azione politica è ormai assodato, la ragione che impedisce un corretto funzionamento dell'Europa. Le misure studiate e contrattate a lungo sono sempre un passo indietro a ciò che proviene da mercati esenti da regole, che impongono decisioni sempre più drastiche al di fuori di un normale processo politico. In questa ottica la democrazia viene calpestata ogni giorno dall'oligarchia finanziaria, ormai assurta a novello despota, in grado di controllare i destini delle masse della popolazione europea. Ma se sulle prime, cioè all'inizio del manifestazione della crisi si poteva, giustamente addebitare al legislatore europeo, la mancanza di lungimiranza per non avere saputo prevedere gli effetti nefasti di un liberismo troppo accentuato, ormai il fenomeno è consolidato; eppure le istituzioni europee ed i governi internazionali non sono stati ancora in grado di elaborare una strategia politica unitaria volta al contenimento degli effetti deleteri delle oscillazioni finanziarie. Il primo elemento da eliminare è la lentezza della reazione da un punto di vista normativo, in grado, cioè, di procedere da una regolamentazione effettiva ai fenomeni che condizionano i bilanci ed il debito degli stati. Fino ad ora si è proceduto con strumenti puramente tecnici, di natura economica e sopratutto soltanto contingenti, senza il necessario requisito della programmazione a media o lunga distanza. Ma la ragione è logica: per elaborare provvedimenti di tale portata è necessario un supporto di tipo politico e non soltanto tecnico. E' però proprio su questo aspetto che si riscontrano le maggiori deficienze di un governo sovranazionale, che per il momento è del tutto assente. I provvedimenti dei singoli stati , seppure presi in accordo tra i diversi governi, restano, appunto, leggi nazionali o peggio conseguenze di stati di necessità, per risolvere le quali, gli stati più forti impongono ai più deboli. Se da un punto di vista di necessità ed urgenza questo può essere tollerabile in maniera limitata, per essere accettato deve essere accompagnato dall'elaborazione di progetti tendenti ad una maggiore centralità, che favorisca l'indirizzo politico su quello esclusivamente tecnico. Ciò potrebbe permettere, innanzitutto una regolamentazione a livello comunitario, degli aspetti più nocivi delle conseguenze delle oscillazioni finanziarie ed, in seconda battuta, una programmazione legislativa proveniente dalla rinnovata centralità dell'azione politica, legittimata dall'effettiva riaffermazione del ruolo della democrazia, per ora calpestata dalla causa economica. Per fare ciò il tempo non è tanto, senza un adeguato miglioramento delle condizioni generali delle popolazioni, il guadagno in termini di voti di chi cavalca la protesta è destinato ad aumentare in maniera esponenziale. Per limitare il fenomeno è necessario introdurre una politica di redistribuzione che permetta di mantenere un sistema di protezione sociale, capace di riavvicinare lo stato al cittadino ed insieme procedere con riforme in grado di unire in maniera efficace, dal punto di vista politico, la UE, che siano percepite dalla popolazione come una protezione delle istituzioni.

venerdì 10 agosto 2012

Tra Giappone e Corea del Sud relazioni diplomatiche in pericolo

Il recente episodio della visita del presidente sudcoreano Lee Myung Bak alle isole Dokdo o Takeshima, ha riacceso un mai sopito motivo di profondo contrasto tra Corea del Sud e Giappone. L'arcipelago conteso ha una dimensione ridotta, di circa 0,186 chilometri quadrati, ed è composto da due isole maggiori, contornate da diversi isolotti, ma poggia su di un mare molto pescoso e, si sospetta, giace su depositi di gas; inoltre la sua importanza è giudicata strategica dal punto di vista militare. Nonostante l'arcipelago delle isole Dokdo abbia costituito storicamente un oggetto di disputa tra i due paesi, ultimamente vi erano, però, stati episodi in cui Tokyo e Seul, si erano alleati sull'argomento, contro le pretese della Corea del Nord.
Ma la visita del Presidente sud coreano, accompagnato dai ministri dell'ambiente e della cultura, ha scatenato nel Giappone una reazione sdegnata. In realtà le isole, situate a metà strada tra i due paesi, sono occupate dalla Corea del Sud fin dagli anni 50 dello scorso secolo, con un posto di polizia, un faro, un eliporto ed un piccolo porto. Nel 1982 sono state dichiarate monumento naturale, perchè sede di riproduzione e rifugio di diverse rare specie animali. Dal punto di vista amministrativo, la Corea del Sud le ricomprende nella provincia di Kyongsan mentre Tokyo, che ne continua a rivendicare il possesso, come facenti parte della prefettura di Shimane. La veemente reazione giapponese, che ha provocato il ritiro del proprio ambasciatore sa Seul, è dovuta principalmente al fatto che la visita del presidente coreano è la prima, nella storia, alle isole contese e ciò ha provocato a Tokyo una lettura particolare dell'evento, come affermazione della sovranità territoriale coreana, che, pur sempre rifiutata dai giapponesi, pare ormai un dato di fatto. Il Giappone ha affermato che le relazioni tra i due paesi sono compromesse e che reagirà con fermezza all'atto formale della visita. Pur comprendendo la necessità di risvegliare un nazionalismo, sempre capace di mascherare un momento della politica interna del paese nipponico non troppo felice, la reazione giapponese appare spropositata, sopratutto nei confronti di un paese alleato, in un momento storico nel quale la regione è attraversata dalla minaccia di potenziali conflitti legati, sia al predominio delle rotte commerciali, una disputa con la Cina, che all'eterno problema degli ordigni atomici presenti nella Corea del Nord. La sorpresa è ancora maggiore se si considera che le isole sono occupate dai sud coreani da più di cinquanta anni e non è certo una visita ufficiale a peggiorare le cose. Quali forme di reazione il Giappone intenda adottare è difficile da prevedere, mentre è facile intuire il malumore americano per la dimensione che ha assunto la vicenda. Per gli Stati Uniti, di cui sia Giappone che Corea del Sud, sono grandi e strategici alleati, la regione orientale sta diventando sempre più una zone chiave, come dimostra l'attivismo diplomatico in Viet Nam dell'amministrazione Obama. Per Washington la regione sarà ancora più importante nel futuro per contrastare la potenza economica, ma anche militare della Cina, quando il tasso di crescita dei paesi che si affacciano nel Mare Cinese Meridionale, consentirà di andare a costituire un motore economico rilevante, sia come produttori che come consumatori. Nella strategia americana non sono previsti motivi di attrito tra gli alleati, perchè è già considerata difficile la gestione con Pechino e Pyonyang, per cui l'incrinatura tra Tokyo e Seul è vissuta come un intoppo fastidioso da risolvere al più presto. Tuttavia la missione non appare facile, se per la Corea del Sud non vi sono variazioni di comportamento, l'atteggiamento giapponese desta viva preoccupazione. Senza ipotizzare soluzioni estreme, che potrebbero comprendere manovre militari navali nelle acque prospicienti le isole contese o sanzioni di tipo economico e commerciale, già la sola interruzione dei normali rapporti diplomatici, prolungata nel tempo, rappresenterebbe un ostacolo a tutto quel sistema che gli americani hanno elaborato proprio in funzione anti cinese, perchè significherebbe la rottura di una alleanza nella regione che pareva apparentemente solida. Per la diplomazia americana si prepara, così l'ennesima sfida, questa volta totalmente inaspettata.

Israele ed Egitto collaborano nel Sinai

Le conseguenze di quanto accaduto nel Sinai, la recente vicenda dove gruppi di jihadisti sono fortemente sospettati di avere ucciso 16 guardie di frontiera egiziane, hanno aperto nuove prospettive sugli equilibri regionali. La volontà egiziana di stroncare i movimenti alla frontiera con Israele dei gruppi islamici radicali, ha aperto forme di collaborazione inaspettate tra Tel Aviv ed Il Cairo. Infatti il governo israeliano ha aperto, seppure per un tempo limitato, il proprio spazio aereo all'aviazione leggera egiziana, per consentire l'impiego di elicotteri da guerra nella repressione dei movimenti sulla linea di confine tra i due stati. Per l'islamico, politicamente oltre che di religione, Morsi, il nuovo presidente egiziano, si tratta di una sfida importante, che testimonia come la questione della pace con Israele sia un punto centrale del suo mandato, come aveva affermato più volte, senza mai essere completamente creduto. D'altra parte una cosa è l'appoggio alla questione palestinese, anche con il sostegno materiale a gruppi come Hamas, altra cosa è il controllo del proprio territorio da gruppi terroristici indipendenti e non bene inquadrati in logiche strutturate ed organizzate. La questione è importante perchè attraverso la repressione di questi gruppi, Morsi vuole, innanzitutto evitare dubbi o confusioni da parte israeliana, che potrebbero generare dei conflitti armati tra i due stati. Del resto questa strategia è apparsa da subito una strada possibile ai gruppi terroristici, che hanno interesse ad alterare il pur fragile stato di pace tra i due paesi confinanti, per avviare una spirale capace di degenerare lo stato di stabilità regionale. Ad alimentare l'urgenza della risoluzione del problema vi è anche l'attività clandestina di questi gruppi radicali, che verte sul traffico di armi, droga ed esseri umani, spesso esercitati con la complicità delle tribù beduine, che costituiscono sia un mezzo di finanziamento per le attività terroristiche, sia un elemento di destabilizzazione per la sicurezza interna egiziana, perchè coinvolgono direttamente diverse reti di malviventi. Ed è proprio in questo ambiente che nascono i pericoli più subdoli per il rapporto tra Egitto ed Israele: se parte un attentato verso Tel Aviv, da queste zone, potrebbe risultare facile per gli israeliani accusare il nuovo governo egiziano, come minimo, di scarsa vigilanza, se non di aperta collusione con gli attentatori. L'azione di Morsi, che ha anche compreso la distruzione dei tunnel sotto il Sinai, che sono stati anche strategici per Hamas, ma non solo, perchè hanno favorito proprio quei traffici fonti di tanti dubbi sulla lealtà egiziana, è fondamentale per la distensione tra i due paesi ed afferma la chiara volontà da parte del governo del Cairo, di matrice islamica, di non volere alterare sia gli accordi, che gli equilibri regionali. Morsi, essendo appunto di matrice islamica, deve faticare maggiormente per accreditarsi di fronte allo scettico panorama internazionale, che teme per il paese una deriva religiosa. In questo senso il banco di prova dei rapporti con Israele costituisce un esame probante e l'apertura di credito che ha consentito agli elicotteri egiziani di sorvolare lo spazio aereo di Tel Aviv è una prova dell'avvio di una collaborazione che dovrebbe mantenere inalterata la pace tra i due stati. Sicuramente anche gli Stati Uniti si sono adoperati dietro le linee per favorire questa manovra, che si può definire congiunta, del resto anche per l'Egitto governato dai partiti islamici l'alleanza con Washington resta centrale, sia in chiave di politica estera, che interna. Per Israele nel momento contingente, l'azione egiziana può significare allentare la tensione da quella parte della sua frontiera, per concentrarsi maggiormente verso quella libanese, particolarmente critica per i fatti siriani, mentre in proiezione futura possono essere costruite delle basi per aprire una nuova fase diplomatica con uno stato governato da movimenti islamici, che può costituire un esempio da seguire nei rapporti con altri stati arabi.

mercoledì 8 agosto 2012

L'Iran resta fedele alla Siria

Il regime iraniano, ribadendo la sua alleanza con la Siria di Assad, mostra tutta la sua paura per gli sviluppi della situazione ed investe il tutto per tutto, confermando l'alleanza di Teheran con Damasco. Proprio nella capitale siriana è giunto un inviato del governo iraniano per rinforzare i legami tra i due paesi, giudicati fondamentalmente strategici per il regime degli ayatollah, per la difesa della nazione scita contro Israele e Stati Uniti. In questa alleanza l'Iran iscrive anche i miliziani libanesi di Hezbollah e la causa palestinese. Ma proprio da quest'ultima stanno arrivando le prime delusioni, sia per Assad, che per Ahmadinejad: infatti nei campi profughi palestinesi presenti nel territorio siriano, sta crescendo, in modo esponenziale, il sostegno verso i ribelli, causato dai ripetuti massacri ad opera dlle forze regolari, che hanno anche colpito recentemente, alcuni campi profughi con mezzi di artiglieria pesante. Per l'Iran il mutato atteggiamento dei profughi presenti in Siria verso Assad, costituisce una pesante delegittimazione, capace di minare la tanto ricercata leadership, che appare ormai compromessa, dei paesi arabi contro l'entità sionista ed il nemico americano. Per rovesciare la visione che viene percepita da tutto il mondo dei fatti siriani, e cioè, una ribellione contro una dittatura trasformata in guerra civile, l'Iran si sta adoperando per accreditare la propria interpretazione, che consiste nella negazione del conflitto interno, ma offrendo una lettura che opta per uno scontro organizzato da nemici esterni, facilmente individuabili negli USA ed in Israele, per rovesciare gli equilibri della regione. Cercando un punto di vista obiettivo è innegabile che vi sia una parte di verità in quanto asserito dagli iraniani, anche se è difficile ricostruire le fasi iniziali della rivolta, su di una base di partenza suggerita esclusivamente da soggetti esterni. E' pur vero che una differente gestione della situazione fin dalle fasi iniziali, proprio da parte di Assad, tramite maggiori concessioni ai rivoltosi, avrebbe, insieme con l'effetto di evitare l'ingente spargimento di sangue, potuto avere sbocchi più morbidi per un regime che ora pare destinato ad essere annientato. Non è chiaro come tutti i dittatori della primavera araba abbiano avuto un percorso comune di fronte alle ribellioni. Percorso che ha compreso la repressione via via più feroce, per poi concludersi con l'inevitabile sconfitta. L'errore fondamentale di Assad, a capo del paese che per ultimo è stato oggetto della rivolta è stato quello di non assumere un atteggiamento differente, proprio sulla base di quello successo ai suoi colleghi destituiti. Il dubbio legittimo che consegue ad una simile riflessione è che Damasco sia stato influenzato da potenze esterne fortemente interessate al fatto che Assad restasse al potere, per tutelarne gli interessi. Se questa ipotesi è vera, l'Iran non può che essere tra queste forze straniere, come dimostrato, tra l'altro, dalla presenza di propri miliziani, sia nelle fasi iniziali della repressione, sia in quella attuale, come testimonia la vicenda dei presunti pellegrini iraniani arrestati dai ribelli con l'accusa di essere, in realtà, agenti fiancheggiatori delle forze regolari. L'Iran ha chiesto la collaborazione sia della Turchia che del Qatar, per la liberazione degli ostaggi. La richiesta implica, da parte iraniana, un riconoscimento del ruolo svolto dai due paesi come sostenitori delle forze ribelli siriane, in quanto l'Ankara sta fornendo asilo sia ai profughi, che ai disertori dell'esercito regolare mentre Doha ha effettuato e sta effettuando, insieme all'Arabia Saudita, ingenti rifornimenti di armi e materiale alle truppe ribelli. Alla fine per non urtare la suscettibilità di questi due stati, Teheran ha indicato gli USA, proprio perchè fornitori anch'essi di aiuti alle forze contrarie al regime, di essere i diretti responsabili della salute degli ostaggi, ripercorrendo una strada diplomatica, oltre che consueta, ormai diventata abusata.