Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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lunedì 19 novembre 2012
Unione Europea: sul bilancio divisioni sempre maggiori
Per il Presidente della Commissione Europea Barroso resta difficile raggiungere un accordo che ratifichi il bilancio di previsione per l'Unione Europea, previsto per il periodo 2014-2020, che contiene elementi tesi a favorire la crescita, ma che contrasterebbero con la volontà di rigore portata avanti dagli stati del nord del continente. Secondo Barroso il bilancio, pur contenendo forti tagli di spesa, come richiesto dagli stati più rigoristi, favorirebbe la crescita economia, creando occupazione, sopratutto nelle fasce giovanili, che patiscono i più alti livelli di disoccupazione. Tuttavia le proposte sul tavolo, che suscitano maggiore disaccordo, sono quelle relative al taglio dei programmi di solidarietà sociale relativi alla lotta alla povertà. Queste resistenze, tra l'altro da parte di governi da sempre in prima linea per il welfare state, come la Svezia, rischiano di creare una frattura profonda tra i due poli geografici europei, mettendo seriamente a rischio l'unità sovranazionale. Quella che si presenta molto concretamente è la possibilità tanto temuta dell'Europa a due velocità, con la novità che i due piani distinti non sarebbero più soltanto economici, cioè in relazione all'Euro, ma anche politici, determinati da una visione particolaristica dell'interesse nazionale, troppo spinto per essere ancora inquadrato in un contesto continentale. Anche il recente ostruzionismo contro i fondi destinati all'Italia per la ricostruzione del terremoto delle zone produttive dell'Emilia, peraltro già stanziati, rivela la mancanza dei presupposti di fondo, da parte di alcuni governi di paesi, oltre al regno Unito, dove sta emergendo un sentimento contrario ai fondamenti dell'Unione Europea. Il caso italiano, poi è illuminante sulle reali intenzioni di chi ha posto i pareri ostativi, con scuse di circostanza, contro un territorio capace produttivo probabilmente in concorrenza con quelli appartenenti agli stessi stati contrari. Questo caso limite, va, comunque, ricompreso in un atteggiamento più ampio le cui responsabilità non possono non cadere sul comportamento tedesco e su quello inglese, capaci di fare proseliti in stati neanche tanto in buona salute economica. Berlino ha la colpa di insistere in un rigore punitivo, che sfiora la patologia: se le paure dei tedeschi sono quelle di dovere contribuire con i propri fondi per tamponare le situazioni debitorie degli stati in difficoltà, occorre rammentargli i facili investimenti che hanno procurato lauti guadagni in Grecia e Spagna e tutto il mercato dove le loro esportazioni sono ingenti, nel sud Europa. Questi fatti dovrebbero essere usati con maggiore spregiudicatezza dai pavidi governanti europei, che sembrano farsi dettare l'agenda dei loro impegni dalla cancelleria di Berlino. Londra ha assunto un comportamento di perenne critica all'Europa, dal suo isolamento geografico cerca di intralciare ogni tentativo di maggiore unione, sopratutto politico economica, perchè gelosa del suo ampio margine di manovra, specialmente nelle speculazioni finanziarie. Questa forza inusitata, che usa per accrescere la propria ricchezza, spesso a scapito dei suoi stessi alleati, costituisce la barriera più forte che impedisce una azione comunitaria capace di sanzionare il Regno Unito. Eppure il modo ci sarebbe: costringere Londra ad uscire dalla UE, se l'Inghilterra insisterà nella sua posizione di contrasto allo sviluppo dell'autonomia delle istituzioni comunitarie centrali. Ciò andrebbe a costituire un precedente importante ed un monito severo, per chi intendesse proseguire su quella strada. Con queste premesse il programma di Barroso di trovare una intesa che possa soddisfare tutti i membri dell'Unione, appare un miraggio capace soltanto di rallentare decisioni che devono essere prese con rapidità per dare un segnale sia ai mercati, che ad un tessuto sociale continentale che si sta sempre più sfaldando sotto i colpi dell'eccessivo immobilismo e che langue in una condizione difficile a causa delle poche decisioni che vengono prese soltanto in nome di rigore sempre più eccessivo. Su questi temi si gioca l'effettiva tenuta della UE, che può andare avanti comunque grazie alla forza d'inerzia di chi ha convenienza al mantenimento dello status quo, che, però, rappresenta soltanto una visione di breve periodo che non può comprendere una risoluzione strutturale dei problemi del vecchio continente.
venerdì 16 novembre 2012
Israele miope di fronte al cambiamento internazionale
Le operazioni militari scatenate nella striscia di Gaza dall'esercito israeliano, hanno assunto la dimensione di carneficina elettorale, ad uso e consumo, non della nazione israeliana, dove non tutti sono concordi nella politica intrapresa dal primo ministro della coalizione al governo, di esclusiva raccolta voti. Si tratta, infatti, di una campagna elettorale improntata all'uso della forza contro il nemico palestinese, che deve evidenziare come il programma elettorale sia incentrato nella difesa del territorio. Ciò deve essere inteso anche in senso più ampio, quando si affronteranno situazioni analoghe, come il caso iraniano, che saranno risolte con l'impiego dell'azione bellica. Se questo è il programma politico interno, impresso sulle pallottole e sui missili anzichè sulla carta dei depliants, che sarà la linea della campagna elettorale della coalizione che siede già al governo di Tel Aviv, non è difficile pronosticare un isolamento internazionale ancora più spinto per lo stato che ha la stella di David nella propria bandiera. Infatti se in Europa ed anche negli Stati Uniti, insomma nell'occidente sempre tollerante con Israele anche quando ciò è chiaramente controproducente, le reazioni di sdegno sono unanimi anche sui giornali conservatori, ben diverse sono e saranno le conseguenze che questa azione a Gaza produrranno nel mondo arabo. La miopia politica, o la scarsa lungimiranza, come si vuole definire, sul piano internazionale, di Benjamin Netanyahu, appare disarmante per le conseguenze che si stanno abbattendo sugli equilibri regionali e sulla stabilità stessa del proprio stato. Provare a ripetere una operazione analoga a quella del 2008 significa non tenere assolutamente in conto del radicale mutamento avvenuto nella regione e nel mondo arabo in generale, con l'avvento delle primavere arabe. Israele, di fronte agli sconvolgimenti politici che hanno attraversato il mondo arabo, è sempre stato critico perchè individuava il pericolo della caduta di quello status quo, che gli permetteva, grazie alle alleanze con i dittatori in carica e sopratutto con Mubarak, un adeguata assicurazione sulla propria libertà di movimento ed una immunità alle sue azioni. La transizione democratica non era apprezzata in quanto tale, singolare per la nazione che si è sempre dichiarata l'unica democrazia del medio oriente, ma era avvertita, come poi si è puntualmente verificato, come l'instaurazione al potere di partiti di matrice islamica e quindi contrari ad Israele quasi per definizione. Il dialogo balbettante con i nuovi governi non ha permesso l'instaurazione di rapporti su basi nuove, perchè inficiati dal peccato originale della mancata risoluzione della questione palestinese. In questo errore, di cui più volte l'amministrazione americana ha giustamente sollecitato la riparazione, Israele ha continuato a perseverare praticando la politica, al di fuori degli accordi internazionali e quindi fuori dalla legge, degli insediamenti abusivi delle colonie, per quanto riguarda la Cisgiordania, e della repressione, al limite della ferocia, nella striscia di Gaza. La continuazione imperterrita di questa strategia è però avvenuta in un contesto troppo mutato per non cambiare l'approccio, che non poteva più essere consentito dal periodo storico attuale. Il cambio di atteggiamento egiziano, dopo i raid su Gaza, è il segnale più eloquente di tutta questa situazione. Se il Presidente egiziano invia il suo premier direttamente a Gaza per condividere la tragedia con quelli che chiama i propri fratelli ed apre i varchi al confine con l'Egitto, che Mubarak in ossequio a Tel Aviv teneva ben sigillati, siamo di fronte ad un cambiamento epocale nella regione. Aldilà della retorica usata dalle istituzioni egiziane, che devono rispondere ad un sentimento generale della popolazione, prima soffocato, di comunanza con i palestinesi, questi fatti dimostrano come Israele abbia agito, per le ripercussioni sullo scacchiere internazionale, in modo avventato e sia rimasto sorpreso dalla visita ufficiale del premier egiziano a Gaza, tanto da sospendere i bombardamenti programmati per non incorrere in un pericoloso incidente diplomatico con il paese delle piramidi. Ma ancor più preoccupante è la rabbia che è cresciuta in maniera esponenziale nei popoli arabi e sopratutto nei movimenti più estremi: i valichi con l'Egitto sono aperti nei due sensi: se verso Il Cairo viaggiano i profughi, verso la striscia potrebbero viaggiare armi o, peggio ancora, kamikaze disposti a tutto per immolarsi alla causa palestinese su istigazione di qualche potenza o movimento che non aspetta migliore occasione per dichiararsi come paladino della lotta contro Israele. Lo schema degli attentati contro i civili israeliani è una risposta tragicamente ben conosciuta da Tel Aviv, sopratutto dopo azioni dimostrative come quella appena compiuta. Non solo, dalla parte opposta Hezbollah potrebbe innescare un confronto che rischierebbe di impegnare Israele su due fronti contemporaneamente, senza tralasciare la questione siriana, che ha provocato lo stato di allerta nel Golan. Vista in questo modo l'imperizia del premier israeliano appare evidente, scegliere la via delle armi anzichè quella del dialogo, secondo la logica, dovrebbe essere fortemente penalizzante come elemento di valutazione in una tornata elettorale ormai prossima, se non fosse che Benjamin Netanyahu ha puntato tutto sulle paure ataviche dell'elettorato israeliano, sul quale, però si spera in una maggiore ragionevolezza.
giovedì 15 novembre 2012
Lo sciopero europeo ed i suoi significati
Una Unione Europea che è partita, questa volta dal basso. Rimane questo il senso più profondo dello sciopero che ieri ha attraversato alcuni paesi del vecchio continente, contro le misure draconiane adottate contro un debito pubblico costruito in maniera distorta e che ha favorito gli istituti bancari ed i grandi capitali. Come si sa le misure scelte per combattere questa situazione debitoria, che ha trascinato i paesi del sud europa in una situazione di grave crisi, sono state prese a carico delle classi medio basse con l'innalzamento inconsulto della pressione fiscale congiuntamente alla riduzione del welfare pubblico, con il conseguente impoverimento generale della gran parte della popolazione. Sono stati, cioè, materialmente addebitati i costi di anni di scelte sbagliate ed avventate a quella parte del tessuto sociale che già durante la loro attuazione ne aveva iniziato a pagare le conseguenze. Questa scelta, univoca di tutti i governi coinvolti, fatta su indirizzo della Germania e della subalterna Unione Europea, ha letteralmente sovvertito la ragione d'essere stessa dello stato moderno in quanto tale. Con queste politiche il cittadino è regredito nei suoi diritti ad uno stato di sudditanza che nulla ha a che vedere con la moderna concezione dell'ordinamento statale democratico. La ragione del pagamento delle tasse, che doveva avvenire per contribuire al corretto funzionamento dello stato, inteso come organo supremo della comunità nazione, ma anche per ricevere in cambio servizi adeguati, nella sicurezza, nella sanità, nell'istruzione ed in tutti gli altri ruoli di competenza dell'amministrazione statale, viene stravolta per assolvere ad una funzione quasi esclusivamente riparatoria di ammanchi generati per distrazione di denaro pubblico, causa incapacità o malafede. A poco valgono le offensive giustificazioni di chi dice che le popolazioni coinvolte in questo processo hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, ciò rappresenta una menzogna assoluta facile da smentire con i dati economici dei periodi passati, contraddistinti da valori comunque già elevati di diseguaglianza sociale dovuta alla scarsa redistribuzione della ricchezza ed alla presenza di tassi di disoccupazione e precariato già preoccupanti. Se le piazze spagnole, portoghesi, francesi, italiane e greche si sono riempite, con eccessi minoritari senz'altro da condannare, il significato è che la base della cittadinanza di questi paesi, passata la fase dello sconcerto per le politiche subite, passa ad un livello successivo che oltrepassa il logico scontento intimo per renderlo finalmente pubblico. Difficile che i governi trovino strade alternative alla lotta al debito, perchè essi sono sostanzialmente espressione di quelle parti economiche, che oltre ad avere creato questa situazione di difficoltà, che hanno la necessità di non compromettere il loro patrimonio e la loro libertà di azione. Tuttavia il segnale presentato dalle piazze parla chiaramente alle istituzioni e presenta il conto di una tensione sociale da non sottovalutare perchè espressione di reale bisogno e difficoltà, che rappresenta la pressochè totale rottura di uno dei fondamenti dello stato: quello della coesione sociale. La spaccatura generata dalle politiche di recupero economico, che ha presentato il conto, caricandone della quasi totalità del costo, le parti più deboli della popolazione, può generare pericolosi fenomeni che possono minare la stabilità dello stato. La sempre maggiore affermazione dei partiti populisti e dei movimenti di matrice locale, giunti alla crescente avversione all'istituzione europea, che si contraddistingue sempre più come fenomeno trasversale che attraversa, non solo tutti i ceti sociali, ma anche quelli produttivi, può dilaniare, sia l'istituzione sovranazionale, che quella stessa nazionale, in una frammentazione di istanze capace di sgretolare i pochi elementi di unitarietà. Questo difetto discende dalle soluzioni calate dall'alto, dell'attività degli eurocrati che non si addentrano nelle specifiche situazioni e dal governo dei tecnici, che elaborano situazioni su dati macroeconomici nel breve periodo, anche esatti nel loro complesso, ma che non tengono conto delle molteplici sfacettature foriere di conseguenze ben peggiori sul lungo periodo. Uno stato non può guardare soltanto al risultato economico complessivo della sua azione, senza tenere conto delle ripercussioni dei costi sociali generati per raggiungerlo. Ma purtroppo è questo ciò che accade. Le ragioni di questo sciopero europeo, devono essere considerate in maniera importante, senza essere sottovalutate dai governi e dall'Unione Europea, il clima che si sta instaurando a causa del disagio deve essere bonificato con politiche che favoriscano l'occupazione, la redistribuzione del reddito e mantengano lo stato sociale, pazienza se qualche banca fallisce, anzi ciò può costituire un segnale positivo ed ottenere un effetto calmierante su di una piazza sempre più esasperata.
mercoledì 14 novembre 2012
I rapporti tra Germania e Russia potrebbero peggiorare
Il prossimo vertice tra Germania e Russia si annuncia teso, l'atteggiamento tedesco, verso l'ex impero sovietico, guidato da Putin, non è più benevolo come è stato fino ad ora. Dopo la caduta del muro di Berlino le relazioni tra i due stati si sono particolarmente rinforzate, grazie a rapporti sempre più stretti. La strategia tedesca è sempre stata imperniata sulla volontà di attrarre la Russia verso l'Europa mediante un fitto scambio commerciale, una politica di prestiti ed una stretta relazione sull'energia, tema molto sensibile per la Germania perchè Berlino importa gran parte del suo fabbisogno di gas proprio da Mosca. Lo scopo era quello di favorire un maggiore radicamento delle regole democratiche in un ambiente ancora condizionato dal lungo periodo caratterizzato dalla dittatura comunista. Ma l'atteggiamento tutt'altro che libertario del governo di Putin, improntato ad una negazione dei diritti civili, attraverso la repressione e l'intimidazione della società, ha causato una irritazione sempre più accentuata nel parlamento tedesco. Proprio il Bundestag ha richiesto al governo di Angela Merkel di essere maggiormente critica con la Russia, dopo che Putin si è nuovamente insediato al Cremlino. Ciò potrebbe aprire una discussione sulle relazioni tra i due paesi, che potrebbero potenzialmente patire un peggioramento, data la poca inclinazione ad accettare critiche sul proprio operato da parte di Putin. Inoltre queste critiche potrebbero essere interpretate come una ingerenza negli affari interni dello stato russo e non come un tentativo di perorare la causa democratica. D'altronde le perplessità sull'operato e sul comportamento dell'attuale governo russo attraversano in maniera trasversale il parlamento tedesco, essendo condivise sia dalla maggioranza, che dall'opposizione e rappresentano, perciò, il comune sentire del popolo della Germania. La Merkel non può non tenere conto di questi sentimenti e, probabilmente, si dovrà fare carico di presentare all'inquilino del Cremlino lo stato d'animo dei parlamentari tedeschi. Tuttavia dovrà anche cercare di non compromettere un mercato dove la penetrazione dei prodotti tedeschi risulta già avanzata, ma che ha ancora ampi margini di potenziale; Berlino è, infatti, il primo partner economico per Mosca e non può permettersi di perdere questo primato nell'attuale momento. Ma anche la Russia ha interesse a non incrinare troppo il rapporto con la Germania, perchè questa è il suo alleato più affidabile all'interno dell'Unione Europea e riveste quindi un ruolo strategico per Mosca. Difficilmente quindi, aldilà dei discorsi di prammatica, le reciproche convenienze ed opportunità saranno scalfite, anche se è difficile credere che la Merkel, come già dimostrato in altre occasioni, rinunci a muovere alcune critiche a Putin sul tema dei diritti in Russia.
Israele minaccia gli accordi di Oslo
L'avvicinamento alla data delle elezioni israeliane rappresenta una occasione, per la parte attualmente al potere, di aumentare le tensioni con i palestinesi, scegliendo la via ritenuta più redditizia, in termini di raccolta di voti presso un corpo elettorale in preda al panico da accerchiamento. Pur non sembrando opportuna, relativamente all'attuale scenario internazionale, la tempistica della scelta di scagliarsi, alzando i toni, contro l'Autorità Nazionale Palestinese, rappresenta la via scelta dal governo in carica a Tel Aviv, già completamente calato nella competizione elettorale. Ad Abu Mazen viene contestata l'intenzione di ottenere il riconoscimento della Palestina, come paese osservatore, presso l'ONU. Ciò non rappresenta una novità, Israele non ha mai digerito l'appoggio a grande maggioranza che l'assemblea delle Nazioni Unite assicurerebbe alla richiesta dell'ANP, che rappresenta uno smacco a livello internazionale per la politica israeliana circa la questione palestinese. La messa in una luce pessima del governo di Israele sul piano mondiale, potrebbe ritorcersi conto al momento del voto, per evitare tale contraccolpo negativo, Tel Aviv arriva a mettere in discussione gli accordi di Oslo del 1993. La motivazione con cui gli accordi vengono minacciati è oltremodo pretestuosa e pone chiaramente Israele in una posizione tale da potere essere considerato protagonista di una azione deliberata per arrivare ad un punto di rottura, forse non sanabile, con i palestinesi. Il ministro degli esteri Liebermann parla apertamente di una violazione degli accordi con la presentazione all'ONU della richiesta di riconoscimento ed arriva a dire che Abu Mazen non è un interlocutore affidabile per il semplice fatto di non rappresentare sia la Cisgiordania che Gaza, cioè l'interezza dei palestinesi, dato che i due territori sarebbero, di fatto, due entità scollegate. Le ragioni addotte dal ministro degli esteri israeliano sono però chiaramente pretestuose, intanto perchè non godono del principio della reciprocità, in quanto non contemplano le continue violazioni di Israele, che con la politica degli insediamenti abusivi in Cisgiordania ha più volte violato i patti esistenti, poi perchè Abu Mazen è stato riconosciuto anche da Hamas, fino a nuove elezioni, come presidente palestinese. Anche Netanyahu e da sempre su queste posizioni, perchè incolpa ai palestinesi la mancata ripresa delle trattative, preferite alla tattica del riconoscimento all'ONU. Anche su questa posizione vi è un chiaro vizio sostanziale, dato che il rifiuto delle trattative da parte di Abu Mazen è dovuto alla politica sempre più spinta della pratica degli insediamenti nelle zone palestinesi. Il comportamento dei coloni israeliani, incoraggiato dal governo in carica, ha messo a dura prova la pace nel territorio cisgiordano e l'azione pacifica di Mazen, concretizzatasi con la richiesta dello status di osservatore all'ONU, appare di gran lunga più responsabile delle soluzioni praticate da Tel Aviv. Tuttavia, pur muovendosi in un solco già tracciato, l'accelerazione impressa da Netanyahu alla questione è un chiaro segnale dato al proprio elettorato: la delegittimazione dell'ANP potrebbe consentire una nuova espansione in Cisgiordania; è un atteggiamento, che sul piano internazionale non potrà non creare forti imbarazzi, specialmente al rieletto presidente USA, da sempre fautore della soluzione dei due stati, ma che permetterà al primo ministro israeliano di avere sicuramente dalla propria parte anche i settori più integralisti della destra. Ciò è ritenuto fondamentale per avere quella maggioranza, che tra i suoi fini potrà avere anche la facoltà di colpire l'Iran per non consentire al paese sciita il possesso dell'arma nucleare.
martedì 13 novembre 2012
Politica estera e politica militare della Cina
La crescita economica cinese non ha sostenuto soltanto lo sviluppo, seppure contrassegnato da profonde differenze e diseguaglianze, della popolazione, ma è stato ed è tuttora funzionale ad un disegno più complesso che riguarda l'ambizione di grande potenza, con tutto ciò che ne consegue in termini di influenza sul piano internazionale, che deve essere sostenuta da un adeguato investimento per potere disporre di una forza armata sempre più equipaggiata. Va detto che, per ora, le velleità di grande potenza, capace di influenzare i processi diplomatici mondiali, sono rimaste frustrate più che altro, dallo stesso atteggiamento cinese, che non ha derogato dal proprio principio di non ingerenza negli affari interni degli altri stati. Va detto,però, che questo principio è stato rispettato maggiormente per le grandi questioni, sopratutto quelle che hanno investito il Consiglio di sicurezza dell'ONU, dove Pechino, forte del proprio seggio permanente, ha sempre negato, insieme alla Russia, qualsiasi forma di intervento, anche per ragioni umanitarie, in quei paesi interessati da guerre civili. Soltanto nel caso libico, grazie alla propria astensione, la Cina ha permesso l'intervento armato che ha messo fine al regime di Gheddafi. Va però detto che Pechino si quasi da subito pentita di questa decisione, accusando l'occidente di averla ingannata con la scusa della guerra umanitaria, che in realtà è stata usata per rovesciare il rais di Tripoli. Ma se questo è l'atteggiamento ufficiale, una politica estera cinese continua ad esistere ed estendersi in maniera ramificata, proprio grazie alla proprie disponibilità economiche ed in funzione delle sue esigenze energetiche, la Cina ha intessuto una fitta rete di relazioni con paesi poveri, ma ricchi di risorse, specialmente nell'area africana. In questa diffusione della propria influenza non è mai stato necessaria una presenza militare, se non in forme quantitativamente piccole e sopratutto discrete, perchè si è sempre trattato di rapporti basati sull'economia, che prevedevano e prevedono tuttora, uno scambio concordato con i governi locali. Esistono però altri scenari che necessitano di una forza armata capace di affrontare sfide potenziali di ampio respiro. Nell'ultimo ventennio il budget militare della Repubblica Popolare Cinese ha registrato un incremento per anno a doppia cifra, raggiungendo, secondo i valori ufficiali, ben 84.000 milioni di euro, anche se gli analisti americani ritengono tale cifra sia soltanto la metà di quanto veramente investito. Va ricordato che l'esercito cinese, numericamente è il più grande del mondo con i suoi 2,2 milioni di effettivi. Inoltre la Cina si è dotata di una prima portaerei, cui dovrebbero seguirne altre, dispone di una flotta di sottomarini nucleari ed ha sviluppato aerei da combattimento invisibili a i radar. Negli armamenti aerospaziali Pechino sta colmando il gap con le altre potenze ed è ormai in grado di distruggere i satelliti in orbita. Nella guerra informatica la Cina è all'avanguardia, come dimostrato in diverse incursioni praticate da suoi hacker.
Tale dimensione e sviluppo enorme delle forze armate cinesi ha creato e sta creando in maniera sempre maggiore forti tensioni nell'area del Pacifico. La presenza cinese sta diventando sempre più ingombrante ed è fonte si preoccupazione per il suo possibile espansionismo, anche sollecitato dal continuo bisogno di approvigionamento a fonti di energia per sostenere la propria crescita industriale ed economica. La versione ufficiale, che Pechino continua a proporre, basata sulla crescita pacifica, non convince più nessuno e mette in allarme i paesi vicini, che sentono in pericolo la percorribilità delle grandi vie di comunicazione marina, percorsi fondamentali per il trasporto delle merci prodotte nella regione. Lo stato di tensione che si è venuto a creare con il Giappone, per l'arcipelago conteso, rischia di provocare un effetto a catena nell'area del Pacifico, dove la Cina intende affermare la propria supremazia e dove sono già coinvolti altri paesi; a fronte di questa situazione, che sta subendo un cambiamento in divenire, sopratutto a causa del mutato atteggiamento del colosso cinese, non è azzardato prevedere che la regione potrebbe subire periodi di grande instabilità, condizionata da continue situazioni al limite del confronto. Anche i numerosi missili puntati verso Taiwan, potrebbero segnalare la volontà della riapertura del confronto con una parte di territorio a cui la Cina non ha mai rinunciato. Tuttavia, per ora, la parte fondamentale e preponderante della politica cinese è rappresentato ancora dall'elemento economico, non sembra improbabile che Pechino continui, pure in una linea leggermente cambiata, a privilegiare i rapporti di scambio, tra cui fortunatamente, il Giappone è uno dei maggiori partner commerciali. Finchè questi rapporti saranno presenti le cannoniere saranno solo una presenza all'orizzonte.
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lunedì 12 novembre 2012
La Cina teme i gesti estremi dei tibetani
La strategia estrema dei tibetani sta creando non pochi problemi e molta irritazione alla Cina. La particolare attenzione mediatica mondiale, concentrata sullo svolgimento del Partito Comunista Cinese, offre una occasione ed una platea enorme per chi lotta per l'indipendenza tibetana. La forma di protesta è sempre tragicamente la stessa: immolarsi dandosi alle fiamme. Dall'inizio del congresso sono già stati sette i tibetani che si sono sacrificati contro l'oppressione cinese e per il ritorno del Dalai Lama. L'ultima vittima risale allo scorso sabato ed ha avuto come protagonista un ragazzo di appena diciotto anni, Gongo Tsering, bruciato di fronte ad un monastero nella provincia di Gansu. Il giorno prima nella provincia di Qinghai, le manifestazioni per la libertà del Tibet hanno assunto proporzioni forse mai raggiunte fino ad ora. Il governo tibetano in esilio, ha affermato che le proteste sono intensificate per inviare un esplicito messaggio alla nuova dirigenza cinese, che uscirà dal congresso, affinchè la questione tibetana sia trattata sotto una diversa ottica, che non contempli più la rigidità attuale. Le autorità cinesi si trovano sempre più spiazzate di fronte alle proteste non violente, se non verso se stessi, dei monaci tibetani, per l'eco che riescono a suscitare, sopratutto nell'opinione pubblica mondiale, in un momento in cui la Cina ha sempre più bisogno di consensi a livello internazionale. Molto temute sono le eventuali azioni dimostrative che potrebbero compiersi nel luogo simbolo della protesta cinese: Piazza Tiananmen, dove sono stati schierati stabilmente poliziotti dotati di estintori. Ma di fronte alla strategia dei tibetani, quasi settanta persone si sono immolate dandosi fuoco dal 2011, anche la potente Cina appare praticamente impotente e più di accusare il Dalai Lama di essere il fomentatore del fenomeno e di equiparare questi atti di ribellione ad azioni terroristiche Pechino non può fare. Tuttavia, se lo stato di disagio imposto dalla dominazione cinese obbliga a tali gesti estremi, la tanto invocata, dai burocrati del partito, armonia sociale, appare soltanto una formula priva di ogni significato. Nella scorsa settimana la Cina ha ricevuto una pesante valutazione ufficiale sul suo operato in Tibet: l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha parlato espressamente di "continua violenza perpetrata contro i tibetani che cercano di esercitare i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e di religione", chiedendo la presenza di esperti dell'ONU nella zona. Ma già il mese scorso l'ambasciatore USA, durante un viaggio nella provincia del Sichuan, in pieno Tibet, ha invitato la dirigenza cinese a riconsiderare la propria politica nella regione, caratterizzata da troppe restrizioni.
Pechino ha sempre reagito con rabbia a dichiarazioni di questo tenore, che, però, purtroppo non si discostano affatto da una realtà costituita da dominazione e repressione. Secondo il Dalai Lama, la massima autorità dei tibetani costretto a vivere in esilio, quello messo in atto dai cinesi è un vero e proprio genocidio culturale, praticato anche favorendo una emigrazione di altri gruppi etnici, con lo scopo di sgretolare l'identità e la cultura tibetana. Resta il fatto che spesso durante le sue visite all'estero il Dalai Lama sovente non è stato ricevuto dalle autorità locali, per non urtare Pechino e la sua grande forza economica, tacitamente avallando il comportamento cinese. Pare difficile che la Cina riesca ad avere ragione di un popolo così fiero, malgrado tutta la potenza messa in campo, sembrerebbe più ragionevole arrivare, tramite un nuovo atteggiamento, ad una situazione che sappia tenere conto delle esigenze dei tibetani senza insistere in questo processo di annessione perseguito con la ricerca della cancellazione delle tradizioni ed identità del paese. Ma senza una revisione globale che comprenda una maggiore apertura verso i diritti, questo auspicio resterà tale.
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