Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 18 maggio 2011
Saif Al Adel nuovo capo di Al Qaeda
Al Qaeda ha un nuovo leader, seppure ad interim. Si tratta dell'egiziano Saif Al-Adel anche noto come Muhamad Ibrahim Makkawi; 50 anni membro delle forze speciali della jahad islamica è accusato dell'attentato contro l'ambasciata USA di Nairobi e di Dar es Salaam nel 1998, si ritiene che sia uno stretto collaboratore di Ayman Al Zawahiri, il medico egiziano numero due dell'organizzazione terroristica. L'elezione si è resa necessaria per colmare il vuoto lasciato dalla morte di Bin Laden. Formatosi durante la lotta contro l'esercito sovietico in Afghanistan, ha militato nelle formazioni talebane, successivamente pare abbia diretto la sezione di Al Qaeda in Arabia Saudita, la quale si è resa protagonista di numerosi attentati all'interno del paese. L'impulso all'elezione del nuovo capo di Al Qaeda è arrivato dai leader afghani e pakistani, che hanno così evidenziato la necessità di una guida per il movimento impegnato direttamente nella lotta contro la NATO sul territorio afghano. Tuttavia non tutte le componenti dell'organizzazione paiono non essere in accordo con la nomina, che probabilmente è stata lasciata ad interim, infatti Arabia Saudita e Yemen sembrano rivendicare il fatto che il successore di Bin Laden debba provenire dalla penisola arabica. Secondo indiscrezioni la nomina avrebbe uno scopo contingente per lo sviluppo delle ostilità in Afghanistan e non sarebbe definitiva, ma solo preparatoria alla definitiva presa del potere di quello che è ritenuto il successore naturale di Osama Bin Laden: Ayman al-Zawahiri.
martedì 17 maggio 2011
Le ragioni della fretta di Israele per la creazione dello stato di Palestina
La manovra del premier israeliano per avviare il processo di costruzione dello stato palestinese, sembra essere obbligata più che mossa da sinceri sentimenti di pace. In poco tempo le certezze del governo riguardo alle proprie frontiere si sono sgretolate ed il paese si sente sempre più minacciato. Il primo bastione a saltare è stato l'Egitto, con il quale le relazioni diplomatiche, grazie a Mubarak, sono state sempre ottime; infatti lo stato israeliano non ha mai visto di buon occhio la rivolta proprio perchè poteva minare la stabilità internazionale della regione. Al momento attuale, su questo versante, la situazione non ha ancora conosciuto una definizione: la presa del potere dei militari, fortemente caldeggiata dagli USA, ha permesso di raffreddare le tensioni, ma sul versante interno, in attesa di libere elezioni, non vi è ancora un quadro certo degli assetti del potere. Lungo la linea di frontiera con la Giordania per il momento non si intravedono pericoli, il paese è stato toccato solo marginalmente dalla primavera araba, e gli assetti del potere sono inalterati per cui la stabilità dei rapporti internazionali per ora è assicurata. I problemi arrivano salendo verso i confini a nord di Israele. Le accese rivolte siriane hanno determinato una situazione di tensione sugli altipiani del Golan. Pur non avendo formali relazioni con Damasco, tra i due paesi si era instaurato un tacito accordo che manteneva uno status quo di pace sostanziale. La pressione internazionale, causata dalle feroci repressioni, ha, invece, determinato la scelta siriana di puntare su strategie diversive per distogliere l'attenzione dai propri problemi interni. In quest'ottica si devono leggere i recenti scontri tra palestinesi siriani ed esercito israeliano. Gli USA hanno accusato chiaramente Damasco di avere orchestrato direttamente la sollevazione contro i militari con la stella di David. Questo episodio, che per quanto grave, non ha messo in pericolo il territorio Isrealiano, accende però una spia sulle mutate condizioni di questo tratto di frontiera. Oggi è stata una manifestazione, anche violenta, domani potrebbe essere una via che l'Iran potrebbe volere usare. Resta la frontiera con il Libano, da sempre sotto osservazione perchè, alla fine era l'unico punto pericoloso per l'integrità dello stato con capitale Tel Aviv. Da questo quadro emerge con chiarezza come le condizioni di sicurezza siano mutate, delle quattro nazioni al confine, soltanto una risulta affidabile per la pace dello stato. Potenzialmente tutte le altre possono portare alterazioni alla stabilità del paese. Si capisce allora come Israele abbia necessità urgente di pacificare il fronte interno, per avere maggiori risorse da dedicare ai nuovi fronti venutisi a creare, con l'unica via possibile: accelerare il processo della costruzione dello stato della Palestina. Di solito la fretta non è una buona consigliera, ma in questo caso potrebbe aiutare a sbloccare una situazione decisiva per la pace del mondo intero.
Birmania: cancellata la pena di morte
Il governo della Birmania commuta la pena di morte in ergastolo e riduce di un anno tutte le altre condanne. Le misure dovrebbero servire per dare una impronta più moderna e democratica al paese asiatico. Non è dello stsso avviso l'organizzazione umanitaria Uuman Rights Watch, che considera gravemente insufficiente il provvedimento e continua a chiedere la libertà per gli oltre 2000 prigionieri politici. In realtà la misura dovrebbe proprio dimostrare che il paese si sarebbe avviato sulla via della democrazia e dovrebbe essere la dimostrazione tangibile di quanto richiesto anche dall'ONU. Tuttavia il provvedimento non riguarda quelli che sono l'argomento principale del contendere: i prigionieri politici. Del resto il governo, eletto con modalità discutibili e senza l'ammissione alla competizione del maggior partito di opposizione, nonostante siano state celebrate le elezioni dopo oltre venti anni, risulta essere composto da ex militari. Questi fattore ha da subito alimentato i dubbi sulla veridicità della trasformazione democratica del paese.
Netanyahu potrebbe cedere per la pace
Pressato dalle proteste palestinesi e dall'evoluzione della situazione internazionale, Benjamin Netanyahu afferma che è disposto alla cessione di una parte dello stato israeliano purchè venga raggiunta la pace. E' ancora presto per dire se si è arrivati ad un punto di svolta nel processo della costruzione di uno stato palestinese, unica possibilità per pacificare la regione, o se si tratta dell'ennesima mossa tattica per guadagnare tempo. L'attuale stato della politica internazionale, con lo sviluppo delle primavere arabe, può essere il motivo che consenta l'accelerazione del processo di pace israelo-palestinese, l'assetto della regione che può scaturire dalle rivolte in corso potrebbe fungere da acceleratore della costruzione dello stato palestinese, consentendo a Tel Aviv di chiudere in modi e tempi ragionevoli la partita, in modo da concentrarsi su altri fronti che mettono in pericolo la sicurezza dello stato. Inoltre, dal punto di vista mediatico consentirebbe ad Israele di guadagnare posizioni nel radimento dell'opinone pubblica ed infine toglierebbe l'alibi fondamentale agli arabi più integralisti per le loro ataviche posizioni anti israeliane. Il corso della storia sembrerebbe, quindi più potente di tante guerre e trattative non andate a buon fine. La condizione essenziale perchè questo processo si porti a termine dovrà essere il reciproco riconoscimento dei due stati sovrani. Netanyahu pone anche come condizione la logica fine del conflitto armato e, più complicato da ottenere, la smilitarizzazione della Palestina. Come difficile sarà ottenere l'indivisibilità di Gerusalemme a totale vantaggio di Tel Aviv, contraccambiato, nelle intenzioni del premier israeliano, dallo smantellamento dei coloni nella Cisgiordania. Queste sono le offerte che provengono da Israele, sono certamente una base di partenza, che non consentono, però una soluzione immediata. Resta da vedere quanta è l'urgenza per Israele di arrivare ad una definizione della partita, sopratutto con gli USA che spingono per la definizione del problema. Lo scenario internazionale che è davanti a Tel Aviv non gioca a suo favore ed il mondo intero spinge per la creazione dello stato di Palestina.
lunedì 16 maggio 2011
Israele reprime le manifestazioni dei palestinesi di Siria e Libano
Gli scontri ai confini di Israele, sulle frontiere di Libano e Siria, segnalano i sentimenti contrastanti che si vivono a Tel Aviv. La reazione, spropositata dell'esercito israeliano, che ha sparato sulla folla armata di pietre denuncia uno stato di timore, che alberga sempre di più nei cuori degli israeliani. Il reale timore è di vedere grandi masse di palestinesi esasperati muoversi dai loro paesi di esilio e dirigersi verso la propria patria espropriata. A livello mediatico Israele rischia di trasformarsi in carnefice, se non mantiene i nervi saldi. Paradossalmente essere sotto minaccia dell'atomica iraniana o dei razzi di Hamas, consente a Tel Aviv di recitare il ruolo della vittima perseguitata, viceversa sparare su persone disarmate non può che fare diminuire la simpatia per la causa sionista. Non si capisce se la mossa di muovere quasi simultaneamente dalle frontiere dei paesi dove sono esiliati sia stata casuale o organizzata; il risultato è stato che Israele è caduto nella trappola soffocando le dimostrazioni nel sangue. Tel Aviv accusa la Siria di avere orchestrato le proteste in modo da distogliere da essa stessa l'attenzione internazionale, ciò può essere verosimile, il regime di Assad non è nuovo ad usare strategie del genere per distogliere i riflettori, sotto la cui luce sta compiendo la sua feroce repressione. In ogni caso la reazione israeliana è stata un boomerang, sopratutto se si pensa alla pressione che Abu Mazen sta mettendo per portare in sede ONU il problema palestinese. Tel Aviv, già irritata per gli accordi tra ANP ed Hamas si vede ora pressare anche dai palestinesi di Siria e Libano, ma non si dimostra ancora convinta della necessità di avviare in modo formale le trattative per la creazione dello stato palestinese, unica soluzione per la pace nell'area.
domenica 15 maggio 2011
Pakistan ed USA: relazioni in crisi?
Il parlamento pakistano ha approvato all’unanimità una dura condanna all’intervento americano in occasione della morte di Osama Bin Laden. L’intervento, avvenuto in suolo straniero di una forza armata di altro paese è una chiara violazione del diritto internazionale. Ma all’inizio sia USA che Pakistan avevano affermato che l’azione era stata concordata, sebbene queste affermazioni non fossero state date in un comunicato congiunto. Già questa modalità aveva alimentato sospetti circa la veridicità dell’affermazione; in seguito si erano rincorse versioni differenti, che non lasciavano dubbi sulla mancata verità di una operazione congiunta. Il Pakistan è apparso,per la verità, subito disorientato dall’azione dei Navy Seals, ed ha tentato di rintuzzare la rabbia crescente nel paese, per la violazione di cui era stato oggetto, con dichiarazioni approssimative e di circostanza, perfino affermando che i reali protagonisti dell’intervento non erano miltari americani ma i servizi segreti nazionali. Sicuramente nel paese di Islamabad la confusione è aumentata per le mancate immagini e prove del successo operativo delle forze speciali della marina USA. Tuttavia la confusione è potuta durare solo fino a quando la stessa Al Qaeda ha ammesso la morte del proprio capo. Da quel momento per il Pakistan si è aperta la via, anche legittima, della contestazione alla modalità dell’operazione. Oltre le contestazioni, sono stati gli attentati ai soldati pakistani a decretare la necessità di una presa di posizione ferma, almeno sul piano legale e politico del parlamento pakistano. La condanna agli americani, a quel punto, è stato un atto dovuto, certamente calcolato fin dall’inizio dall’amministrazione Obama. Ma il punto attuale della situazione impone almeno due riflessioni. La prima è di ordine strategico, innazitutto è ormai appurato che Obama godeva di protezioni all’interno dell’apparato burocratico militare pakistano e la prova di ciò è, appunto, che Islamabad è stata tenuta all’oscuro dell’operazione, fatto ormai acclarato. Da ciò discende, siccome purtroppo la guerra afghana continua, la domanda, peraltro più volte posta, se Islamabad è ancora un alleato affidabile. Le pulsioni interne del paese pakistano contano molta parte dell’opinione pubblica contraria all’alleanza con gli USA, questo è un dato da tenere sempre a mente; come, però si deve sempre considerare anche la costante necessità dell’appoggio logistico, di cui le forze NATO necessitano entro il territorio pakistano. Fatto di cui Islamabad è consapevole ed infatti è la prima minaccia contenuta nella disposizione parlamentare approvata a maggioranza. La seconda considerazione è di ordine politico, questo è il punto più basso, nonostante i precedenti, delle relazione USA-Pakistan. In realtà non conviene a nessuno dei due soggetti rompere le relazioni, ma il Pakistan era obbligato a dare un segnale forte, sia in campo internazionale, per rivendicare la propria sovraità sul suo territorio, sia in campo interno per provare almeno a calmare gli ambienti più ostili al patto con Washington, che hanno visto nella prova di forza americana una sorta di subalternità del Pakistan agli Stati Uniti. Per la verità Islamabad ha ancora un problema più grave, che è il terrorismo di matrice islamica, che ha da subito iniziato a colpire le istituzioni del paese con attentati kamikaze. In quest’ottica la dura presa di posizione contro Washigton è da leggere anche come azione di raffreddamento sul fronte interno. Resta una domanda, valeva la pena per il colpo mediatico mettere in gioco un rapporto, seppure molto conflittuale, con l’unico pase chiave da cui condurre la lotta ai talebani?
sabato 14 maggio 2011
La violazione dell'Artico
La penuria di materie prime sara' la causa della violazione dell'Artico, l'enorme giacimento ancora intonso dai guasti umani. Otto paesi a Mosca, tra cui USA e Russia, hanno firmato un accordo propedeutico allo sfruttamento del tesoro che somma il 25% delle riserve mondiali di gas, petrolio e minerali. Complice di questo accordo anche il riscaldamento che provoca lo scioglimento dei ghiacci. Non serve ed anzi insospettisce, l'ecologismo di cui si e' vestita la Clinton, che ha auspicato uno sviluppo economico che preservi l'ecosistema. L'asserzione e' un ossimoro, infatti non si vede come si possa conciliare l'ecosistema inviolato con lo sviluppo economico. La scelta di violare l'artico è ancora più grave se si pensa alla recente sciagura atomica giapponese ed al disastro BP avvenuto nel golfo del Messico. Questi gravi fatti, giunti a molti altri di gravità non così eccessiva, non hanno ancora insegnato nulla ai governanti del mondo. Intaccare l'ecosistema artico significa mettere in pericolo il già traballante stato dell'ecologia mondiale. Anzichè firmare un accordo per preservare in maniera integrale le zone artiche, se ne firma uno che le comprometterà in maniera definitiva. La cecità della strada intrapresa non tarderà a manifestare i suoi effetti nefasti appena si deciderà di operare intaccando l'ecosistema artico. Tutto questo ancora una volta nel silenzio delle organizzazioni sovranazionali. Infine, dal punto di vista inernazionale, questo, che è stato definito il primo accordo panartico, rappresenta la volontà delle nazioni firmatarie di non preservare la regione, ma di depredarla delle sue imprtanti ricchezze.
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