Politica Internazionale

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martedì 2 agosto 2011

Israele cerca di allontanare la discussione ONU sulla Palestina

Avvicinandosi la fatidica data di settembre, Israele prova in tutti i modi a dissuadere i palestinesi a richiedere l'adesione all'ONU. L'ultima soluzione proposta è la negoziazione sulla base della situazione del1967. L'offerta pare un estremo tentativo per evitare una capitolazione diplomatica israeliana di fronte al mondo. Anche se appare difficile un riconoscimento, per l'opposizione USA, il solo fatto di potere presentare la domanda ed eventualmente essere ammesso come osservatore, darebbe al nascente stato di Palestina una dignità molto più importante dell'attuale. La nuova dimensione infastidisce Israele, che sopratutto, potrebbe vedrebbe sanzionati gli atti violenti perpetrati ai danni dei palestinesi. Ma la proposta non pare sincera e sembra a tutti gli effetti un tentativo per guadagnare tempo in modo da bloccare il processo di riconoscimento dell'ONU. Infatti i palestinesi hanno più volte richiesto proprio, come base di partenza i confini del 1967, compresa la parte est di Gerusalemme. Questa condizione è stata più volte rigettata da Tel Aviv e la politica degli insediamenti fino ad ora praticata risulta essere coerente con la condotta del governo israeliano. Non pare sufficiente la promessa di Netanyahu senza una messa in pratica degli smantellamenti degli insediamenti nelle zone contese.
In effetti i fondamenti della volontà di procedere con nuovi negoziati di pace, da parte israeliana sono sempre stati subordinati ad una nuova discussione delle frontiere, sulla base delle mutate esigenze demografiche del paese della stella di David. Tutti questi indizi concorrono a sospettare della proposta del premier israeliano, ed interpretarla come mero tentativo di allontanare la discussione delle Nazioni Unite.

L'escalation della crisi siriana

L'escalation della violenza della repressione siriana indigna, anche se con ritardo le cancellerie e la diplomazia internazionale. I sanguinosi scontri di Hama hanno finalmente risvegliato le paludate coscenze di chi si occupa di affari internazionali. Almeno cento i morti per le strade di Hama, che risulta sottoposta ad un vero e proprio stato d'assedio, con interi quartieri senza luce ed acqua ed con i civili falciati dalle raffiche di mitragliatrice dell'esercito. Anche a Deraa, Harasta, periferia di Damasco ed a Deir Ezzor, nella parte orientale del paese il maglio della repressione si è abbattuto violentemente sugli oppositori del regime, con i cecchini appostati sui tetti che hanno sparato sulla folla. Nella società siriana oramai l'avversione al regime ed ai suoi alleati, in principal modo gli Hezbollah, è ormai tangibile e non più sanabile e potrebbe prendere corpo anche una divisione del paese, con le zone sfavorite dal regime pronte a staccarsi da quelle che godono di maggiori privilegi, come Aleppo. La Siria, oltre ai disordini, sta patendo una inflazione galoppante, che costringe il regime a repentini, ma insufficienti, aumenti degli stipendi delle forze armate, ormai unico strumento di mantenimento del potere. Anche il petrolio scarseggia e la dipendenza dal greggio iraqeno diventa sempre più indispensabile. E' in questo quadro che la diplomazia internazionale comincia ad interessarsi in maniera più consistente del problema Siria. Gli appelli a fermare le violenze sono pervenuti uda tutto il panorama occidentale, ma il più importante è venuto dalla Russia, nazione tradizionalmente amica della Siria, che ha rotto il proprio riserbo chiedendo una esplicita fine della violenza. In ambito europeo è presente una iniziativa congiunta di Germania ed Italia, che presso l'ONU richiedono un inasprimento delle sanzioni, in modo da mettere in ginocchio il regime dal punto di vista economico. Ma la dichiarazione più pesante è stata quella del ministro degli esteri britannico, Hague, che non ha escluso un intervento armato per ottenere la fine dell'uso della violenza sui civili da parte delle forze di Assad. L'ipotesi, tuttavia è ancora remota, la NATO, per il momento si dichiara contraria ad un ulteriore impegno militare, con lo sforzo libico in corso, ed in generale prima di intervenire in armi in Siria occorre considerare attentamente l'alleanza di Damasco con l'Iran. E' questo l'aspetto più pericoloso del problema siriano, infatti se Assad dovesse perdere il potere come potrebbe reagire Teheran, che giudica la Siria un punto chiave della sua politica estera? Per il momento a parte prendere posizione ufficiale contro le proteste, l'Iran non è andato, anche se in via ufficiosa si sospetta che effettivi dei Pasdaran abbiano partecipato alle repressioni. Nel frattempo la Turchia continua ad essere in allerta nel timore che la rivolta siriana coinvolga ad un livello più alto dell'attuale il problema curdo. Come si vede la necessità di un intervento dell'ONU, come agente capace di portare la calma, è sempre più necessario.

lunedì 1 agosto 2011

La parabola di Obama

L'accordo sul debito USA pone delle riflessioni sull'andamento dell'azione politica di Barack Obama. In primo luogo si assiste ad un accentramento sempre maggiore delle posizioni politiche del presidente Obama, che ha vinto le elezioni partendo come progressista e si ripresenterà invece soltanto un poco più a sinistra dello schieramento repubblicano. Obama è vittima, in primo luogo di se stesso, ha generato troppe aspettative che non ha potuto mantenere, finendo per appiattirsi su schemi consolidati, dovuti ad un esercizio politico diventato stanco. I grandi stravolgimenti sociali, basati su di una nuova distribuzione del reddito, dopo una partenza incoraggiante, sono rimasti poco più che lettera morta. La mutata situazione politica non ha fatto che imbrigliare definitivamente quello che doveva essere il new deal del ventunesimo secolo. Chi guardava con fiducia alla trasformazione della società americana verso una dimensione di maggiore equità è restato deluso. E' vero che la situazione contingente non lasciava molte vie d'uscita, scongiurare la bancarotta, anche come responsabilità mondiale, era diventato prioritario di fronte ad ogni altra ragione, tuttavia questa è stata la logica conclusione di una azione assente precedentemente. Quella che è mancata è stata l'azione di contrasto alle lobby ed ai grandi gruppi che hanno osteggiato da subito le intenzioni del presidente. La manovra che doveva avere una ampiezza su più temi è arrivata a ridursi all'annientamento di Bin Laden, come atto dimostrativo e di forza, più che altro simbolico. Essere ostaggio di un parlamento repubblicano, a sua volta prigioniero del Tea Party, ha costretto l'amministrazione Obama a rivedere i propri programmi, ma così non è lo stesso presidente eletto dal corpo elettorale. Alle prossime elezioni quello che si presenterà sarà un Obama con minore appeal. Anche il nocciolo dell'accordo per salvare gli USA dal default preannuncia un anno dove non ci saranno grandi stravolgimenti, si tirerà a campare in attesa dell'appuntamento elettorale, mantenendo un basso profilo sia sul fronte interno che quello esterno. Un anno di ordinaria amministrazione, senza slanci ne emozioni, guardando l'evoluzione dei freddi numeri, nella speranza di avere qualche buona notizia.

La strategia di Al Qaeda nello Yemen

In uno Yemen sempre più sconvolto dalle proteste, sembra l'ora del tutti contro tutti. Innazitutto continuano ad affrontarsi nelle piazze e nelle vie di San'a i sostenitori del presidente Saleh ed i suoi avversari, che spingono per un rinnovamento dopo i 33 anni ininterrotti di governo dello stesso Saleh. Le fila dell'opposizione vanno sempre più ingrossandosi ed ora annoverano anche alti ufficiali che sono passati con tutte le loro truppe e mezzi, anche blindati, che vengono, sempre più spesso schierati nelle manifestazioni di piazza. In questo clima da guerra civile cerca di inserirsi Al Qaeda, con lo scopo sempre meno velato di introdurre nel paese la sharia come legge ufficiale. L'azione dei qaeddisti si muove su due linee principali: l'infiltrazione nei cortei e nel movimento di protesta nei centri urbani, mentre nei villaggi più remoti vengono prese di mira, con attacchi armati sia le truppe regolari, che le tribù avverse ai fondamentalisti islamici. Lo scopo è quello di instaurare uno stato di terrore, che sommato a quello di profonda incertezza che attraversa il paese, ha il compito di portate ulteriore elementi di destabilizzazione dello stato yemenita. Ma se nelle zone più remote l'azione terroristica può sembrare più agevole, perchè basata esclusivamente sull'uso della forza, più complicata risulta l'opera nelle città e all'interno del movimento di protesta. La natura del movimento di opposizione somma diverse tendenze, ma non sembra che la natura confessionale sia preponderante ed anzi la direzione presa, sembra quella di una forma di governo a cui possano partecipare i diversi partiti finora esclusi dall'agone politico. Tuttavia il capo di Al Qaeda nello Yemen, Nasser Al Wahishi, in una comunicazione audio inviata ad Ayman Al Zawahiri, successore di Osama Bin Laden, ribadisce la critica generale al sistema dei partiti di opposizione e la ferma volontà di instaurare la legge islamica nel paese.

Tra Israele e Libano sparatoria pericolosa

La situazione al confine israelo-libanese ritorna ad essere difficile. Una sparatoria tra soldati delle due nazioni sarebbe avvenuta nelle prime ore del 1 Agosto, intorno alla linea blu, il confine tracciato dall'ONU nel 2000, a seguito del ritiro dell'esercito israeliano, dopo i ventidue anni di occupazione. Le versioni delle due parti ovviamente non collimano, per i libanesi, gli israeliani sarebbero penetrati per almeno 30 metri fuori dal loro territorio, mentre per gli israeliani i loro soldati sarebbero stati oggetto del fuoco nemico all'interno della propria frontiera. La scaramuccia, se inquadrata come singolo episodio rientra nella "normale" dialettica tra i due stati, tuttavia questa lettura in questo momento appare errata, in ragione della diatriba sui confini marini tra le due nazioni, che rischia di innescare un motivo ulteriore di riscaldamento nella regione. Israele intende interpretare in modo estensivo la prassi internazionale per spostare i propri confini marini, facendo così rientrare sotto la propria giurisdizione una porzione di mare sotto la quale sarebbero stati trovati dei giacimenti di idrocarburi. La mossa israeliana appare molto avventata, soprattutto in questo momento, attraversato da notevoli problemi nella regione. Presente questa questione, entrambi gli eserciti hanno sicuramente innalzato il livello di attenzione lungo la frontiera e non è escluso che la pressione sulle rispettive truppe sia la vera responsabile della sparatoria. Tuttavia dato l'innalzamento del livello della tensione, occorrerrebbe che le Nazioni Unite mettessero la questione del confine marino israele-libanese al centro dei loro lavori al più presto per evitare di andare verso l'apertura di un possibile nuovo conflitto.

sabato 30 luglio 2011

La rete iraniana del terrore

Gli USA accusano l’Iran di essere alleati con Al Qaeda. Arriva dal dipartimento del tesoro americano, quello che pare piu’ di un sospetto, l’avviso che Teheran sia un punto di transito delle finanze del gruppo terroristico islamico, con destinazione Pakistan. Non solo, il transito riguarderebbe anche effettivi volontari pronti a combattere sotto le insegne qaeddiste. Si tratterebbe sia di stranieri addestrati in Iran, sia di miliziani reclutati in loco. Facile immaginare la destinazione: la frontiera tra Pakistan ed Afghanistan, teatro della dura guerra, quasi di posizione, tra le milizie talebane e e le truppe NATO. Dal punto di vista teologico questa alleanza pare un paradosso, giacche’ il regime iraniano segue il ramo scita dell’islam, che Al Qaeda ha bollato come eretico, ma la valenza politica e militare ne costituisce il vero cardine; d’altro canto non e’ neppure una novita’: immediatamente dopo l’undici settembre Washington punto’ subito il dito contro Teheran, come uno dei possibili mandanti dell’attentato. Quello rilevato dal dipartimento del tesoro USA, costituisce una conferma di una rete piu’ volte identificata, che e’ la spina dorsale della politica estera iraniana, che con la sua azione sottotraccia, si muove in una rete ramificata di ambienti terroristici e governativi, che hanno come unici obiettivi gli USA stessi ed Israele. Si va, appunto dai combattenti Talebani in Afghanistan, ai servizi deviati pakistani, agli Hezbollah libanesi, al governo siriano, ai terroristi iraqeni fino ad arrivare ai palestinesi di Hamas. La condotta dell’Iran si muove attorno ad una politica fatta di aiuti militari, finanziari e logistici, che tengono in costante apprensione gli USA, non tanto per azioni eclatanti, come invece piu’ volte minacciato da Teheran, quanto per una tattica quasi di guerriglia fatta di piccole o medie azioni di disturbo capaci di influenzare concretamente e l’aspetto delle sicurezza e l’aspetto della diplomazia. Esiste una fascia di territorio, nel mondo, dove queste azioni hanno una continuita’ sia di movimento che di capacita’ politica di influenza tale da fare guadagnare consensi alla causa iraniana. Tutto questo, poi e’ contiguo ai problemi internazionali dell’Iran, connessi sia al regime di isolamento, peraltro facilmente aggirabile, sia alle sanzioni, cui Teheran e’ sottoposta per il problema nucleare. Anche per questo versante l’uso spregiudicato delle alleanze risulta conforme al ragionamento iraniano, che ne fa ragione e di disturbo e di confusione.

venerdì 29 luglio 2011

Le implicazioni politiche del debito USA

Sul debito gli USA vanno incontro alla pilatesca decisione del rinvio. Con le elezioni incombenti, vero ostacolo ad una soluzione strutturale, la strada sembra già tracciata: nonostante una serie di discussioni, anche particolarmente accese, nessuno dei due schieramenti vuole prendersi la responsabilità di prendere accordi con gli avversari, che pregiudichino il rapporto con i propri elettori. Quindi il livello del debito sarà innalzato ed il problema rimandato dopo le elezioni. La situazione è un chiaro esempio di come la politica tenga in ostaggio l'economia e come, alla fine tutto ricada sulla popolazione. Gli USA sono ora in ostaggio di un sistema sbilanciato che mette in competizione il potere legislativo con quello esecutivo, quando la maggioranza che costituisce un potere non coincide con l'altra si arriva allo stallo. Ad aggravare la situazione vi è poi la complicata situazione interna del partito repubblicano, dove il movimento del tea party rischia di fare saltare i già delicati equilibri. Formatosi in base ai sentimenti dell'america bianca più profonda il tea party all'inizio è stato usato dai vertici del partito repubblicano per evidenziare le contraddizioni di Obama. Ma la pochezza ed anche gli scarsi argomenti dei repubblicani hanno finito per fare diventare prevalente il movimento del tea party in seno al partito conservatore americano. A questo è dovuto l'irrigidimento che ha portato al rinvio. L'economia americana, in realtà non è a rischio default, se non con possibilità remote, perchè gli interessi sui titoli decennali USA restando bassi dimostrano la fiducia dei mercati. Il problema più grosso è quello sociale, Washington deve fare i conti con un numero di disoccupati che ha raggiunto la quota astronomica di 29 milioni di persone, pari al 9,2 per cento ed i 18.000 nuovi posti di lavoro di Giugno rappresentano veramente poca cosa. Con queste premesse potrebbe avvicinarsi un conflitto sociale di proporzioni enormi, senza una soluzione politica il debito americano rischia di innescare una reazione a catena sui cui effetti la Cina è l'attore maggiormente preoccupato. Pechino ha nei suoi forzieri una quota pari a 1.600 miliardi di dollari di titoli americani e quindi non ha alcun interesse a soffiare sul fuoco del debito USA, tuttavia Hillary Clinton, durante una sua recente visita a Hong Kong, si è impegnata a rassicurare le autorità cinesi. Al momento la Cina non ha problemi di liquidità, nella peggiore delle ipotesi il debito cinese, comprendendo nel conteggio oltre allo stato anche le amministrazioni locali, potrebbe toccare il 40 per cento del PIL. Le implicazioni sono però, ancora una volta politiche, i rapporti tra Cina ed USA sono costellati da frizioni, che spesso si risolvono con compromessi raggiunti a fatica, nella competizione per potenza globale ormai la partita è a due: ma la quota di debito USA in mano alla Cina costituisce una vera e propria arma puntata su Washington, il cui blocco politico interno, alla luce di ciò risulta essere una pericolosa aggravante.