Politica Internazionale

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giovedì 4 agosto 2011

La pena di morte ancora troppo praticata nel mondo

Il rapporto dell'associazione "Nessuno tocchi Caino" sulla pratica della pena di morte nel mondo, registra una sensibile diminuzione della condanna capitale. Ma nonostante questo dato ancora troppi paesi fanno uso della pena di morte come sanzione penale, per contrastare sia fenomeni delittuosi di tipo comune, che di tipo politico. E' significativo che la maggior parte di paesi dove si pratica questo tipo di pena siano dittature o regimi illiberali, che sovente nascondono reati politici dietro a sentenze di altra natura. La Cina è di gran lunga in testa alla classifica con oltre 5.000 esecuzioni. Pechino ha ridotto i reati passibili della pena capitale, ma la crescente industrializzazione del paese avanza di pari passo con la corruzione, male sociale endemico nella Repubblica Popolare cinese, che i tribunali sanzionano spesso con la pena capitale. L'Iran ha incrementato le condanne a morte, anche in ragione delle sommosse politiche, e le commina anche verso gli omossesuali. Al terzo posto la Corea del Nord dove le esecuzioni sono state 60. Va detto che dietro i dati ufficiali ci sono diverse situazione dubbie che potrebbero rientrare nella casistica ma per ragioni di opportunità non vengono denunciate dagli stati stessi. Nella triste classifica figurano al quinto posto, dopo lo Yemen, anche gli Stati Uniti, dove la pena di morte è ancora vigente in alcuni stati; è singolare che un paese che si vanta di esportare la democrazia, si trovi così in alto nella graduatoria delle nazioni che usano la condanna capitale. Tuttavia esistono casi di stati dove si discute del reintegro della pena di morte come Panama ed addirittura il Regno Unito, dove recenti casi di assassinio di minori hanno ridestato la voglia del patibolo. La questione comunque, va letta in un discorso più ampio: dove esiste la pena di morte sovente mancano anche le garanzie della presenza dei diritti più elementari dell'individuo, la pena capitale, costituisce cioè, una spia spesso inequivocabile della mancanza di democrazia e diritti civili e politici.

Assad concede il multipartitismo

Sotto la pressione dell'opinione pubblica internazionale il presidente siriano Assad, prova ad allentare la stretta concedendo alla Siria il multipartitismo. Il decreto emanato attua una legge approvata il 24 luglio scorso dal governo e rende effettivo il provvedimento senza il passaggio in parlamento. I nuovi partiti, o meglio le condizioni perchè un partito venga riconosciuto dalla legge, devono essere costituiti non su base tribale o da non siriani e non devono disporre di forze paramilitari, inoltre il finanziamento deve essere trasparente. La riforma che ammette il pluripartitismo è una delle più richieste dal popolo siriano e la sua mancata concessione, fino ad ora, è tra i motivi delle proteste che stanno trascinando il paese nell'abisso della repressione. Dal 1963 al potere vi è un unico partito, il Baath, che vede sancita nella costituzione la sua unicità.
Tuttavia nel contesto attuale, dove ogni giorno si registrano diverse vittime della repressione, oltre alla sempre maggiore negazione dei diritti individuali, questa nuova norma, oltre alla possibilità di essere interpretata come una provocazione, è accolta con profondo scetticismo, sia nel paese che all'estero. In verità la mossa sembra un tentativo di guadagnare tempo, per distogliere la profonda attenzione a cui è sottoposta la Siria, anche perchè l'attuazione del cambiamento in regime pluripartitico non sarà senz'altro un processo rapido.

Gli USA non saranno più il gendarme del mondo?

Dietro alla risoluzione della questione del debito USA c'è una mutazione genetica della politica americana. L'affermazione della tendenza del movimento del tea-party, vero regista dietro le quinte delle trattative indica che sull'espansionismo a stelle e strisce sta calando il sipario. Quella che si sta affermando è una tendenza quasi introspettiva, che obbliga gli Stati Uniti a guardare al loro interno, cioè con maggiore attenzione alle problematiche di politica interna ed alle sue connessioni. Il taglio concordato alla spesa militare è la prova più tangibile di questo indirizzo. Il vecchio Partito repubblicano mai avrebbe permesso la decurtazione del bilancio della difesa, che è la leva per portare la bandiera americana nel mondo. L'avversione maturata in questi anni verso le guerre condotte a partire dall'amministrazione Bush senior, che hanno gran parte della responsabilità del grande debito pubblico americano, ha contagiato sia i democratici, che questa nuova branca di conservatori, che non riconoscendosi più nella vecchia politica repubblicana, hanno trovato asilo nel movimento del tea-party. In effetti più che un rifugio è una rifondazione della destra americana, che il partito repubblicano non ha ne inteso, ne intercettato i sentimenti, restando indietro nel suo sviluppo, fino a diventarne ostaggio in sede parlamentare. Le implicazioni in politica estera della nuova tendenza americana sono evidenti: si sta andando verso la fine del ruolo di gendarme mondiale degli Stati Uniti; del resto si sono già avute delle avvisaglie con la crisi libica, dove gli americani si sono tenuti volontariamente in retroguardia, lasciando a Francia e Regno Unito il ruolo di protagonisti. Senza più un paese che si accolli, a torto o a ragione, questo fardello, si apre uno spazio per potenze emergenti ma anche per un ruolo più incisivo delle Nazioni Unite, che potrebbero finalmente recitare in maniera fattiva lo scopo per il quale sono state create.

mercoledì 3 agosto 2011

La manovra USA non incontra i favori del mondo economico

Il mondo economico e finanziario non mostra di apprezzare la manovra USA. La montagna democratico - repubblicana ha partorito un topolino, che non è stato gradito dalle borse. La Cina, che detiene una grossa fetta del debito americano, boccia in maniera assoluta l'intesa americana giudicandola priva di effetti tangibili. La sensazione, a livello mondiale, è che manchi una programmazione strutturale che, mediante fatti concreti, operi sulla giusta via dell'aggiustamento definitivo del debito USA. Sui mercati le sensazioni negative hanno provocato un effetto domino causando cali consistenti su tutte le piazze mondiali. In Europa preoccupa la situazione di Italia e Spagna che sono al centro dell'attenzione degli speculatori. Dunque, per il momento gli USA si salvano alzando l'asticella del debito, ma lasciano in sospeso la propria economia ed a ruota quella del resto del mondo. Nonostante si sia scongiurato il default il futuro resta incerto, il primo pericolo e' che la mancanza di ripresa, che pare davvero difficile con questi provvedimenti, inneschi un fenomeno deflattivo capace di provocare un avvitamento della situazione economica USA su se stessa, con il risultato di un blocco dei consumi, che andrebbe a paralizzare, di conseguenza la produzione e quindi, di seguito, aumento esponenziale della disoccupazione. In questo quadro la tenuta della società USA sarebbe messa a dura prova, anche considerando i tagli previsti proprio sul welfare dall'accordo concluso tra i due partiti americani. La situazione richiederebbe degli interventi contraddistinti dalla velocità di decisione e di esecuzione di misure drastiche e risolutive, ma la scadenza elettorale obbligherà il governo USA, in ostaggio del numero maggiore di componenti del partito repubblicano, avverso nel ramo legislativo, a provvedimenti di ordinaria amministrazione per non urtare i rispettivi elettorati. Possono gli Stati Uniti e di conseguenza l'intera economia mondiale permettersi di aspettare ancora un anno, prima di arrivare al superamento della data di elezione del Presidente americano? La risposta lapalissiana ancora una volta porta ad un ragionamento sulla scarsa importanza degli organismi internazionali ed il loro sotto utilizzo. Quando gli stati da soli non riescono a colmare i loro gap strutturali e di capacità occorrerebbe un intervento ulteriore dall'alto capace di imporre una regolamentazione a tutto vantaggio dell'intero sistema. Sembra fantascienza ma risolverebbe molti problemi.

martedì 2 agosto 2011

Israele cerca di allontanare la discussione ONU sulla Palestina

Avvicinandosi la fatidica data di settembre, Israele prova in tutti i modi a dissuadere i palestinesi a richiedere l'adesione all'ONU. L'ultima soluzione proposta è la negoziazione sulla base della situazione del1967. L'offerta pare un estremo tentativo per evitare una capitolazione diplomatica israeliana di fronte al mondo. Anche se appare difficile un riconoscimento, per l'opposizione USA, il solo fatto di potere presentare la domanda ed eventualmente essere ammesso come osservatore, darebbe al nascente stato di Palestina una dignità molto più importante dell'attuale. La nuova dimensione infastidisce Israele, che sopratutto, potrebbe vedrebbe sanzionati gli atti violenti perpetrati ai danni dei palestinesi. Ma la proposta non pare sincera e sembra a tutti gli effetti un tentativo per guadagnare tempo in modo da bloccare il processo di riconoscimento dell'ONU. Infatti i palestinesi hanno più volte richiesto proprio, come base di partenza i confini del 1967, compresa la parte est di Gerusalemme. Questa condizione è stata più volte rigettata da Tel Aviv e la politica degli insediamenti fino ad ora praticata risulta essere coerente con la condotta del governo israeliano. Non pare sufficiente la promessa di Netanyahu senza una messa in pratica degli smantellamenti degli insediamenti nelle zone contese.
In effetti i fondamenti della volontà di procedere con nuovi negoziati di pace, da parte israeliana sono sempre stati subordinati ad una nuova discussione delle frontiere, sulla base delle mutate esigenze demografiche del paese della stella di David. Tutti questi indizi concorrono a sospettare della proposta del premier israeliano, ed interpretarla come mero tentativo di allontanare la discussione delle Nazioni Unite.

L'escalation della crisi siriana

L'escalation della violenza della repressione siriana indigna, anche se con ritardo le cancellerie e la diplomazia internazionale. I sanguinosi scontri di Hama hanno finalmente risvegliato le paludate coscenze di chi si occupa di affari internazionali. Almeno cento i morti per le strade di Hama, che risulta sottoposta ad un vero e proprio stato d'assedio, con interi quartieri senza luce ed acqua ed con i civili falciati dalle raffiche di mitragliatrice dell'esercito. Anche a Deraa, Harasta, periferia di Damasco ed a Deir Ezzor, nella parte orientale del paese il maglio della repressione si è abbattuto violentemente sugli oppositori del regime, con i cecchini appostati sui tetti che hanno sparato sulla folla. Nella società siriana oramai l'avversione al regime ed ai suoi alleati, in principal modo gli Hezbollah, è ormai tangibile e non più sanabile e potrebbe prendere corpo anche una divisione del paese, con le zone sfavorite dal regime pronte a staccarsi da quelle che godono di maggiori privilegi, come Aleppo. La Siria, oltre ai disordini, sta patendo una inflazione galoppante, che costringe il regime a repentini, ma insufficienti, aumenti degli stipendi delle forze armate, ormai unico strumento di mantenimento del potere. Anche il petrolio scarseggia e la dipendenza dal greggio iraqeno diventa sempre più indispensabile. E' in questo quadro che la diplomazia internazionale comincia ad interessarsi in maniera più consistente del problema Siria. Gli appelli a fermare le violenze sono pervenuti uda tutto il panorama occidentale, ma il più importante è venuto dalla Russia, nazione tradizionalmente amica della Siria, che ha rotto il proprio riserbo chiedendo una esplicita fine della violenza. In ambito europeo è presente una iniziativa congiunta di Germania ed Italia, che presso l'ONU richiedono un inasprimento delle sanzioni, in modo da mettere in ginocchio il regime dal punto di vista economico. Ma la dichiarazione più pesante è stata quella del ministro degli esteri britannico, Hague, che non ha escluso un intervento armato per ottenere la fine dell'uso della violenza sui civili da parte delle forze di Assad. L'ipotesi, tuttavia è ancora remota, la NATO, per il momento si dichiara contraria ad un ulteriore impegno militare, con lo sforzo libico in corso, ed in generale prima di intervenire in armi in Siria occorre considerare attentamente l'alleanza di Damasco con l'Iran. E' questo l'aspetto più pericoloso del problema siriano, infatti se Assad dovesse perdere il potere come potrebbe reagire Teheran, che giudica la Siria un punto chiave della sua politica estera? Per il momento a parte prendere posizione ufficiale contro le proteste, l'Iran non è andato, anche se in via ufficiosa si sospetta che effettivi dei Pasdaran abbiano partecipato alle repressioni. Nel frattempo la Turchia continua ad essere in allerta nel timore che la rivolta siriana coinvolga ad un livello più alto dell'attuale il problema curdo. Come si vede la necessità di un intervento dell'ONU, come agente capace di portare la calma, è sempre più necessario.

lunedì 1 agosto 2011

La parabola di Obama

L'accordo sul debito USA pone delle riflessioni sull'andamento dell'azione politica di Barack Obama. In primo luogo si assiste ad un accentramento sempre maggiore delle posizioni politiche del presidente Obama, che ha vinto le elezioni partendo come progressista e si ripresenterà invece soltanto un poco più a sinistra dello schieramento repubblicano. Obama è vittima, in primo luogo di se stesso, ha generato troppe aspettative che non ha potuto mantenere, finendo per appiattirsi su schemi consolidati, dovuti ad un esercizio politico diventato stanco. I grandi stravolgimenti sociali, basati su di una nuova distribuzione del reddito, dopo una partenza incoraggiante, sono rimasti poco più che lettera morta. La mutata situazione politica non ha fatto che imbrigliare definitivamente quello che doveva essere il new deal del ventunesimo secolo. Chi guardava con fiducia alla trasformazione della società americana verso una dimensione di maggiore equità è restato deluso. E' vero che la situazione contingente non lasciava molte vie d'uscita, scongiurare la bancarotta, anche come responsabilità mondiale, era diventato prioritario di fronte ad ogni altra ragione, tuttavia questa è stata la logica conclusione di una azione assente precedentemente. Quella che è mancata è stata l'azione di contrasto alle lobby ed ai grandi gruppi che hanno osteggiato da subito le intenzioni del presidente. La manovra che doveva avere una ampiezza su più temi è arrivata a ridursi all'annientamento di Bin Laden, come atto dimostrativo e di forza, più che altro simbolico. Essere ostaggio di un parlamento repubblicano, a sua volta prigioniero del Tea Party, ha costretto l'amministrazione Obama a rivedere i propri programmi, ma così non è lo stesso presidente eletto dal corpo elettorale. Alle prossime elezioni quello che si presenterà sarà un Obama con minore appeal. Anche il nocciolo dell'accordo per salvare gli USA dal default preannuncia un anno dove non ci saranno grandi stravolgimenti, si tirerà a campare in attesa dell'appuntamento elettorale, mantenendo un basso profilo sia sul fronte interno che quello esterno. Un anno di ordinaria amministrazione, senza slanci ne emozioni, guardando l'evoluzione dei freddi numeri, nella speranza di avere qualche buona notizia.