Se, come sembra, l'Iran ha tentato veramente di assassinare l'ambasciatore saudita a Washington, occorre fare alcune riflessioni per cercare di comprendere quale tattica ha intrapreso Teheran. L'obiettivo del rappresentante della monarchia sunnita, con la quale l'Iran si contende il primato dell'islamismo, significa, appunto, dare un duplice segnale forte sulla scena internazionale ai propri alleati, infatti colpire sul territorio americano l'ambasciatore saudita avrebbe significato dare una dimostrazione di forza di non poco conto. L'attentato rientrerebbe in un piano più vasto, che avrebbe avuto come obiettivo anche diplomatici israeliani. Si tratterebbe, cioè, di un strategia volta a mettere in allarme le cancellerie dei paesi alleati contro l'Iran e l'estremismo islamico. Il momento attuale, per sviluppare questi piani concorda con la difficile situazione di isolamento di Israele, le continue sommosse degli sciti in Arabia Saudita ed anche la complicata situazione di Obama alla vigilia delle elezioni presidenziali. Se azioni terroristiche ripetute possono portare ancora più scompiglio in situazioni particolarmente cariche di tensione, il periodo attuale presenta occasioni favorevoli. Tuttavia per quale ragione l'Iran si deve esporre alle naturali ritorsioni, prestando il fianco per un attentato che alla fine non è neanche riuscito? Un motivo può essere una perdita di leadership che l'Iran sta subendo per gli sviluppi sia della primavera araba che dei nuovi assetti geopolitici che stanno favorendo nuovi soggetti come la Turchia. L'Iran vuole fare presa sui soggetti più estremi, Hezbollah, Talebani, Siria, dimostrando di avere una forza in grado di affrontare soggetti più forti. Se questa ipotesi dovesse essere vera, sarebbe una spia che la situazione per l'Iran non sarebbe tanto buona, questa azione potrebbe costituire la mossa della disperazione, anche per contrastare l'ondata di opposizione interna che non si è mai sopita.
Ma quello che ora rischia di aprirsi è un inasprimento delle relazioni tra USA ed Iran, peraltro già sufficientemente tese. Sarà difficile che Washington accetti la teoria di Teheran, che ha definito ridicola la ricostruzione americana. Sulle possibili forme di ritorsione americane la speranza è che si concretizzino con un aggravemento delle sanzioni, come annunciato dalla Clinton, tuttavia non sono da escludere azioni più pesanti, che però potrebbero suscitare reazioni non prevedibili, con conseguenze fortemente negative sugli assetti attuali.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
Cerca nel blog
mercoledì 12 ottobre 2011
Per la nuova Libia è l'ora di gestire il petrolio
Il conflitto libico continua nelle ultime roccaforti gadafiste, ma Sirte è praticamente caduta e la sua conquista da parte delle truppe del CNT è vissuta come fortemente simbolica per il legame della città con il clan del colonnello, mentre le ultime sacche di resistenza si oppongono, alle ormai truppe governative, soltanto nella zona di Bani Walid. La NATO ritiene che togliendo l'ultimo accesso al mare ai lealisti di Gheddafi, il conflitto sia veramente alle battute finali. Intanto il governo libico di transizione inizia ad addentrarsi nella gestione della maggiore ricchezza del paese: il petrolio. Una delle molle che ha scatenato il conflitto è stata la condizione di povertà del popolo libico, addebitata, oltre alla gestione del rais, anche alla corruzione fortemente estesa nei gangli burocratici del sistema di governo di Tripoli. Una delle maggiori branche dell'amministrazione di Gheddafi ad essere contaminata dal fenomeno della corruttela è stata proprio quella relativa alla gestione dell'oro nero. L'intenzione dei nuovi amministratori libici è da subito quella di esaminare i contratti per trovare chi si è arricchito a scapito dei cittadini. Sul fronte dei contratti per la fornitura di greggio, motivo di trepidazione di diversi governi occidentali, alla ripresa della piena produzione è prevista la priorità verso le raffinerie domestiche, per soddisfare principalmente i fabbisogni interni, lasciando per l'esportazione l'eccedenza. Tuttavia la Libia è un paese di tre milioni di abitanti, con necessità contenute, questa affermazione pare la premessa per una ricontrattazione delle destinazioni e delle quantità delle forniture del petrolio. Non è un mistero, che l'aiuto al CNT sia stato fortemente interessato, l'intervento immediato di Francia e Regno Unito è stato dettato anche dall'esigenza di incrementare le proprie importazioni di greggio dal paese libico a scapito di chi se ne avvantaggiava maggiormente e cioè l'Italia. Roma ha più volte ribadito che i contratti precedentemente presi non si toccano, ma la fase in cui entra la vicenda, non pare assicurare l'assunto italiano in toto, il futuro del petrolio libico sarà oggetto di una trattativa serrata, che lascerà degli scontenti sul terreno.
martedì 11 ottobre 2011
II punto più basso di Netanyahu
L'evoluzione della questione delle colonie israeliane costruite su territori palestinesi prende una via inaspettata e destinata ad aumentare la tensione. Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto la creazione di un pool di specialisti per cercare di dare una via legale alla legittimità degli insediamenti sui territori. Oltre che illegale per la stessa legge israeliana, perchè in contrapposizione con la posizione della Corte Suprema, che dal 1979 considera illegali gli insediamenti ebraici costruiti sui terreni privati palestinesi, questa novità è in contrasto con gli stessi ordini impartiti dal governo in carica, che prevedono, per l'esercito, l'ordine di smantellare diverse colonie. Inoltre le stesse autorità israeliane considerano fuori legge, tutte le colonie costruite dopo il 2001, a prescindere anche dalla regola che considera legali quelle costruite sulla base della proprietà della terra.
La comunità internazionale, abbraccia una visione più ampia, considerando illegali tutti gli insediamenti posizionati nella West Bank ed a Gerusalemme Est occupate fin dal 1967. Netanyahu, con questa decisione, si dimostra ostaggio della estrema destra ebraica e mostra scarsa lungimiranza e poca attitudine all'esercizio del governo del paese; infatti una decisone tale mostra il fianco ad una prevedibile serie di critiche senza possibilità di replica. La base legale che il premier vorrebbe utilizzare, per rendere legali le colonie dovrebbe costruirsi sul principio ottomano (il che sarebbe un aspetto comico, se non fosse un tragico ossimoro) che prevede che la terra incolta o abbandonata sia destinata allo stato. Ora è evidente, che anche si volesse applicare una regola di uno stato che non esiste più, totale contraddizione giuridica, pur recependola nel proprio ordinamento, non si vede come si possa conciliare la destinazione dei terreni ad un'altra entità statale, soltanto confinante con lo stato legittimo. In questo modo si viola espressamente il diritto internazionale ed anche quello civile. Se il capo del governo israeliano intende controbattere con questa mossa all'operazione di Abu Mazen presso l'ONU, non fa altro che confermare la propria pochezza e rende esplicito il proprio pensiero di potere contare sempre sugli USA, anche se è chiaro che il Presidente americano non può che condannare questo espediente. Netanyahu gioca d'azzardo contando sulle prossime elezioni americane e sulla necessità per Obama del voto ebraico. Ma la sensazione è che questa alzata d'ingegno possa rompere una corda già molto consumata, gli americani, infatti, si sono focalizzati maggiormente sui problemi di casa propria ed addirittura, per Obama una condanna esplicita di Israele potrebbe costituire una boccata di ossigeno nei sondaggi.
La comunità internazionale, abbraccia una visione più ampia, considerando illegali tutti gli insediamenti posizionati nella West Bank ed a Gerusalemme Est occupate fin dal 1967. Netanyahu, con questa decisione, si dimostra ostaggio della estrema destra ebraica e mostra scarsa lungimiranza e poca attitudine all'esercizio del governo del paese; infatti una decisone tale mostra il fianco ad una prevedibile serie di critiche senza possibilità di replica. La base legale che il premier vorrebbe utilizzare, per rendere legali le colonie dovrebbe costruirsi sul principio ottomano (il che sarebbe un aspetto comico, se non fosse un tragico ossimoro) che prevede che la terra incolta o abbandonata sia destinata allo stato. Ora è evidente, che anche si volesse applicare una regola di uno stato che non esiste più, totale contraddizione giuridica, pur recependola nel proprio ordinamento, non si vede come si possa conciliare la destinazione dei terreni ad un'altra entità statale, soltanto confinante con lo stato legittimo. In questo modo si viola espressamente il diritto internazionale ed anche quello civile. Se il capo del governo israeliano intende controbattere con questa mossa all'operazione di Abu Mazen presso l'ONU, non fa altro che confermare la propria pochezza e rende esplicito il proprio pensiero di potere contare sempre sugli USA, anche se è chiaro che il Presidente americano non può che condannare questo espediente. Netanyahu gioca d'azzardo contando sulle prossime elezioni americane e sulla necessità per Obama del voto ebraico. Ma la sensazione è che questa alzata d'ingegno possa rompere una corda già molto consumata, gli americani, infatti, si sono focalizzati maggiormente sui problemi di casa propria ed addirittura, per Obama una condanna esplicita di Israele potrebbe costituire una boccata di ossigeno nei sondaggi.
La Birmania libera 6.300 prigionieri
La Birmania, messa alle strette dalle sanzioni di UE ed USA, annuncia la liberazione di 6.300 prigionieri. Tuttavia non viene precisato dagli organi statali birmani, se sono inclusi anche i prigionieri politici. La richiesta degli Stati Uniti e dell'Unione Europea verteva sul rilascio di circa 2.100 prigionieri politici, oggetto, quindi di abusi circa i propri diritti civili. Ed è proprio la questione sui diritti umani, non rispettati dalla passata giunta militare birmana ad essere la causa delle sanzioni di America ed Europa. Il nuovo governo birmano, pur avendo una impronta più libertaria è comunque espressione dei militari, che sono il vero soggetto forte dietro al governo. Ma la pressione sia internazionale, che interna, sta costringendo al cambiamento, seppure lento e graduale, il governo del paese, che sta operando progressive aperture in favore dei diritti civili e politici. I reclusi liberati rientrano nel piano avanzato dal governo al Presidente del paese, che richiedeva il rilascio dei cosiddetti prigionieri di coscienza e quelli che non costituiscono una minaccia alla stabilità dello stato ed alla pubblica tranquillità del paese. Con questa misura il governo della Birmania spera di attenuare la pressione di cui è oggetto e di cancellare le sanzioni per inserirsi a pieno titolo nell'economia della regione.
lunedì 10 ottobre 2011
Per l'Egitto il problema dell'intolleranza religiosa
La primavera egiziana rischia di frantumarsi sugli scogli dell'intolleranza religiosa. I gravi incidenti de Il Cairo riflettono una situazione sempre sull'orlo della crisi ed a rischio di potenziali incendi. Il movimento di liberazione contro la dittatura di Mubarak è stato essenzialmente privo di connotazione religiosa, anche se la preparazione tattico logistica dei Fratelli musulmani ha agevolato e di molto la ribellione di piazza. Tuttavia il movimento islamico ha mantenuto un basso profilo, accodandosi insieme agli altri partiti e movimenti per le istanze di libertà per l'Egitto. Le reazioni dei copti sono state invece piuttosto fredde alla rimozione di Mubarak. In effetti la minoranza cristiana sotto il regime caduto, godeva di una maggiore protezione, che non nella fase attuale di transizione, dove l'esercito, di fatto al potere, non riesce o non vuole garantire una adeguata salvaguardia alle persone ed alle cose copte. La scintilla degli ultimi sanguinosi incidenti è stata proprio uno sfregio ad una chiesa copta, che è stata incendiata da estremisti islamici. Il vuoto di potere che si è venuto a creare dalla caduta di Mubarak, facilita i movimenti dei gruppi più estremi sia da parte islamica che cristiana. Il futuro dell'Egitto rischia di avvitarsi sul tema della libertà religiosa, pur essendo un paese a maggioranza islamica, risulta impossibile non tenere conto del 10% di popolazione copta; il dubbio è questo: è matura la nazione per esercitare una democrazia ed un autogoverno che non si fossilizzi sulla questione religiosa? Se questa maturità manca, per l'Egitto rischia di aprirsi una contesa che può diventare molto pericolosa, fino a sfociare in una autentica guerra civile; inoltre già molti copti hanno o stanno per lasciare il paese, indebolendo quella peculiare funzione di diversità che può essere, invece un elemento di stabilità per il nuovo governo. Senza una pacificazione nazionale, uno degli scenari più probabili che si apre è il governo "sine die" delle forze armate, che possono utilizzare il pretesto come normalizzazione del paese nella direzione che più conviene alle alte gerarchie con le stellette, con la conseguente soppressione delle garanzie fondamentali per quanto riguarda i tanto ricercati diritti civili. Se così sarà il fallimento della primavera egiziana sarà completo.
La FAO preoccupata per l'aumento dei prezzi agricoli
La FAO suona l'allarme per gli aumenti e l'elevata volatilità dei prezzi dei generi alimentari. I dati registrati a livello mondiale suscitano una vera e propria preoccupazione per la nuova crisi a livello planetario che rischia di innescarsi a breve. Mentre gli effetti nefasti della crisi alimentare del Corno d'Africa sono ancora sotto gli occhi di tutti, le conseguenze delle crisi finanziarie e delle guerre, possono causare il dilagare di nuove emergenze legate al fattore cibo. Innazitutto il costo dei combustibili, anche dovuto alla guera di Libia ed in generale alle dimostrazioni legate alla primavera araba, ha inciso fortemente sui costi di impresa, andando a contribuire al rialzo del prodotto finale. Ma il costo del genere agricolo risente anche della nuova tendenza di impiegare vasti terreni alla coltura di prodotti destinati a diventare bio-carburanti, diminuendo, di fatto, la quantità di produzione di generi alimentari, risultando un nuovo elemento di aumento del prezzo. La preoccupazione della FAO si incentra, in special modo, sulle conseguenze per i piccoli agricoltori, del terzo e quarto mondo, che costituiscono una parte essenziale della società di quei paesi che non possono vantare una più complessa organizzazione produttiva. Il ruolo sociale di produttori in quelle economie, svolto dai piccoli coltivatori è fondamentale per prevenire la denutrizione ed assicurare le condizioni di vita basilari alla cittadinanza. Aumenti di componenti che concorrono alla determinazione finale del prezzo possono avere anche conseguenze psicologiche sul lavoro dei piccoli produttori agricoli, infatti se il margine di guadagno diminuisce, si abbassa anche la disponibilità all'aumento dell'investimento sia finanziario, che lavorativo. Il presidio assicurato dai piccoli agricoltori è ritenuto, dalla FAO, fondamentalmente strategico nel quadro della lotta alla denutrizione, pertanto focalizzare i problemi dei piccoli produttori, significa sapere dove intervenire per prevenire le crisi. Infatti i dati raccolti indicano una direzione di intervento per le Organizzazioni internazionali che preveda aiuti economici integrativi, sia gratuiti che a tassi particolarmente vantaggiosi, per alleviare le difficoltà economiche dei piccoli produttori in modo da potere garantire la certezza delle quantità di raccolto. Dovrebbe essere un interesse anche delle nazioni più ricche, al di la delle pure intenzioni umanitarie, cooperare per questi risultati, infatti alcune delle maggiori cause di migrazione sono la fame e la carestia. Consentire uno sviluppo sostenibile per i paesi più poveri significa calmierare anche i processi migratori e quindi anche combattere in modo preventivo ed efficace fenomeni di potenziale delinquenza, innescati dalla povertà assoluta.
sabato 8 ottobre 2011
Redistribuzione: una necessità mondiale
Per una volta gli USA arrivano dopo, non fanno tendenza e sono ad inseguire. Fa specie vedere che gli Stati Uniti si accodano al sentire sociale di movimenti che stanno tracciando la strada in nome di una diversa percezione dell'ordine presente. Anche se può sembrare strano accomunare la piazza egiziana, gli indignados spagnoli, le tendopoli di protesta israeliane ed i cittadini che occupano Wall Street, esiste un denominatore comune che associa persone di diversa religione, etnia e possibilità: manifestare contro le enormi differenze generate da storture del sistema economico ed anche politico. E' vero che per gli egiziani, e prima per i tunisini, poi i libici e via di seguito l'enorme seguito delle primavere arabe, la molla che ha fatto scattare la ribellione è stata individuata nella mancanza di libertà derivante dalle dittature, ma anche l'aspetto economico ha pesato in maniera determinante per la discesa in piazza. E' questo l'aspetto che più accomuna sud e nord del mondo, a volte vicini anche fisicamente, solo poche miglia di mare con la Spagna, la mancanza di opportunità causata dalla scarsa redistribuzione del reddito in favore di concentrazioni sempre maggiori della ricchezza. Che sia in ragione di sistemi dittatoriali di tipo politico o più soft, di tipo prettamente finanziario, la compressione delle possibilità, della restrizione del margine operativo delle risorse economiche della maggioranza dei cittadini, ha chiaramente superato il livello di guardia. Negli Stati Uniti, non in Egitto, il paese delle opportunità, del sogno americano, l'uno per cento della cittadinanza detiene la gran parte della ricchezza a discapito del restante novantanove per cento. Ci sono dati, tra le pieghe delle statistiche americane, che si possono definire soltanto orribili; dati che segnalano una povertà terribile nel paese più ricco del mondo: uno per tutti la vita media del bracciante agricolo statunitense è di soli 49 anni. Così si spiega la velocità di diffusione, una vera e propria macchia d'olio, della protesta negli USA, che malgrado le tante avvisaglie, sta cogliendo di sorpresa i governi statali e quello federale. Per ora la sola risposta è stata una ondata indiscriminata di arresti che segnala il chiaro disorientamento della politica americana. Difficile prevedere come andrà a finire, ma questa volta senza una radicale riforma del sistema finanziario, è molto probabile che chi dimostra possa aumentare in modo esponenziale. Per Obama si tratta di un grosso problema, alla vigilia delle elezioni. Chi va in piazza è lo zoccolo duro del suo elettorato, senza quei voti una riconferma è impossibile, ma per le riforme di cui c'è bisogno, occorrerebbe avere la maggioranza alla camera, dove i repubblicani operano un vero e proprio fuoco di sbarramento a difesa del liberalismo più spinto, vero colpevole della crisi economica. Tuttavia proprio quelle leggi del mercato che hanno originato lo sfascio attuale potrebbero venire in aiuto dei dimostranti. La contrazione della produzione dei paesi emergenti, entrati nel vortice dell'inflazione, provocherà una riduzione del PIL mondiale, a quel punto solo una diversa allocazione delle risorse, operata per legge potrà salvare il mondo in cui viviamo. Una nuova visione della fiscalità dovrà essere il primo passo per girare i capitali finanziari verso investimenti produttivi in grado di assicurare lavoro e consumi. L'obiettivo deve essere redistribuire la ricchezza in proporzioni più favorevoli per la maggioranza dei cittadini, assunto che vale per tutti i paesi. Senza diminuire il peso della finanza il destino è una sommossa continua e continuata.
Iscriviti a:
Post (Atom)