Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 26 ottobre 2011
Il Qatar sostituirà la NATO in Libia
La NATO afferma di avere esaurito i propri compiti in Libia. Il capo di stato maggiore britannico, David Richards, in una riunione tra i comandanti dei paesi NATO, che hanno partecipato alla missione libica ed il CNT, ha dichiarato che i compiti dell'alleanza erano essenzialmente tre: fare rispettare la no fly zone, l'embargo e la protezione dei civili, come deciso dall'ONU; terminati questi incarichi non vi è più ragione di restare sul territorio libico. L'organizzazione atlantica cerca di sganciarsi facendo passare il fatto di avere adempiuto ai propri compiti in un'ottica puramente legalitaria, tuttavia, senza entrare nel merito della strategia politica dell'abbattimento del regime di Gheddafi, occorre rilevare che, per almeno il terzo punto, l'incarico NATO non è stato del tutto assolto. Infatti l'accanimento di alcune parti dei ribelli contro civili ritenuti, a torto o a ragione, fedeli al colonnello è stato troppo tollerato dalle forze dei volenterosi, che hanno lasciato dare libero sfogo a ritorsioni e vendette. Questo tralasciando il trattamento inumano riservato ai combattenti lealisti ed ignorato dalla NATO, che ha tentato di ripulirsi la coscienza proclamando a gran voce aperture di inchieste sul tema. Se la NATO lascerà il paese, la Libia non sarà lasciata sola a ricostruire le proprie forze armate e di polizia. Sarà infatti, probabilmente il Qatar a capo di una nuova forza multinazionale che sosterà nel paese oltre la fine dell'anno ed almeno fino a quando le condizioni del paese non saranno tali da garantire un adeguato livello di sicurezza interna. Le forze armate del Qatar avrebbero già operato con effettivi di terra nella guerra libica a fianco delle forze del CNT, tuttavia questa partecipazione non è mai stata riconosciuta dal governo del Qatar, che ha sempre smentito in modo ufficiale l'impiego di propri soldati direttamente sul campo di battaglia. L'appoggio al CNT necessitava di forze di terra direttamente sul terreno a completare il lavoro della forza aerea, ma il grosso degli uomini impiegati non poteva non provenire da un paese musulmano, per non urtare la suscettibilità della popolazione e sopratutto non generare dubbi circa possibili intenzioni "colonialistiche" di eventuali paesi occidentali presenti con propri uomini sul terreno. Non che questi siano mancati, ma sono stati, presumibilmente, impiegati soltanto in alcune operazioni mirate. D'altra parte il governo del Qatar non poteva ammettere lo schieramento di propri soldati in aperta violazione della risoluzione ONU, che ha consentito l'intervento aereo.
L'anomalia italiana
Le espressioni a volte di sorpresa, a volte di incredulità, spesso di commiserazione, che contraddistinguono i politici europei quando parlano dell'Italia, sono dovuti alla più grossa anomalia presente in un sistema politico democratico occidentale nella storia recente. Non si vuole qui dare un giudizio di opportunità o peggio morale sulla condotta del premier italiano, ma analizzare le cause che discendono dalla sua presenza e che vanno a determinare il blocco politico attualmente presente nel bel paese. Fin dalla sua entrata in politica, Silvio Berlusconi ha rappresentato una fonte di profonda divisione, sia tra le forze politiche che nella società italiana. Il confronto politico si è radicalizzato in maniera insana, esaltando la pura partigianeria e scavando un solco diventato ormai incolmabile tra le forze partitiche, che da avversari sono diventati esclusivamente nemici. Quello che si è instaurato è un clima dove alcuna collaborazione tra forze avverse è totalmente impossibile, anche in situazioni particolarmente difficili, dove l'unità nazionale dovrebbe essere un attributo indispensabile, l'unico dialogo possibile è una continua sequela di insulti fine a se stessi. Nonostante il paese italiano avesse attraversato la delicata fase del dualismo tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, avversari storici su fronti opposti, il rapporto tra questi due soggetti, pur nell'aspra dialettica politica, non è mai trasceso ad episodi di così basso livello come quelli attuali. Uno dei fattori dello scadimento del livello della politica italiana è stata la sua spettacolarizzazione che ne ha determinato la volgarizzazione. Le istituzioni si sono trasformate da un luogo paludato di forma alta, ben definita e rispettata ad un bivacco frequentato da personaggi improvvisati e non all'altezza. L'affermazione del partito azienda ha inserito nelle istituzioni personaggi senza l'adeguata preparazione ne la necessaria autonomia ed i partiti storici si sono adeguati verso il basso anche con fantasiose forme, come il partito leggero, che hanno distrutto anni di storia e tradizione associativa. Siamo così arrivati alla presa d'atto pubblica, in realtà già percepita da tempo, dai governanti europei. L'indegno siparietto della Merkel con Sarkozy, pur con tutte le giustificazioni che gli si voglioni accordare, rappresenta bene lo stato d'animo che alberga nelle cancellerie continentali. Quello che ferma l'Italia è il blocco politico a cui è costretta, la presenza ingombrante di Berlusconi riduce le formazioni politiche ad un comportamento astioso che non permette alcun costrutto. L'unica soluzione praticabile è quella di un governo senza l'attuale premier, come raccomandato da più parti in Europa, che permetta di affrontare una fase interna con maggiore pacificazione e consenta al paese di affrontare in piena concordia l'emergenza a cui è di fronte.
martedì 25 ottobre 2011
Per la Turchia si aprono possibilità enormi con l'islamismo moderato
Quello che si sta delineando nella sponda sud del Mediterraneo, con la primavera araba ancora in corso, è l'affermazione dei partiti islamici di stampo moderato. Pressochè sicura l'affermazione in Tunisia e molto probabile in Libia ed anche in Egitto, il risultato sarà comunque l'instaurazione della sharia a regolare la vita civile e penale dei cittadini. Il risultato democratico va così a rovesciare l'impostazione data dai tiranni, che, seppure con modalità diverse, privilegiava l'impostazione laica degli stati. Quello che è uscito dalle urne tunisine, cui dovrebbero seguire responsi analoghi anche dagli altri paesi arabi, è una ulteriore riprova della avversione della popolazione ai regimi precedenti. L'interrogativo è come si instaurerà e svilupperà il rapporto, sia su base globale che regionale, con gli altri stati, in special modo quelli occidentali della sponda opposta del Mediterraneo. Avere di fronte diplomazie provenienti da formazioni islamiche dovrà richiedere una nuova impostazione dei rapporti con questi nuovi governi, che dovranno, giocoforza comprendere una variazione dei rapporti bilaterali. Ma l'aspetto più temuto è una sorta di "iranizzazione" della sponda sud del Mediterraneo, la paura di un insediamento al governo non moderata, come effettivamente si presentano i partiti di ispirazione islamica che hanno tenuto a battesimo la primavera araba, è il vero spauracchio per i governi occidentali. A mitigare queste paure potrebbe esserci l'esempio turco, dove una formazione islamica moderata guida il paese anche con risultati eccellenti. Peraltro proprio la Turchia, cerca di ritagliarsi un ruolo guida, grazie ad una politica accorta e mirata allo scopo, per gli stati usciti dalla primavera araba. Questo fatto può essere una leva per l'occidente per scardinare la possibile diffidenza giustificata dei nuovi governi, dati i rapporti che le democrazie occidentali intrattenevano con i regimi caduti. Gli ottimi rapporti che Ankara intrattiene con entrambe le parti possono favorire dialoghi fruttuosi. Tuttavia questa strada può determinare una crescente importanza per la Turchia in una zona lontana dalla sua sfera d'azione, decretandone la crescente importanza non più come potenza regionale ma di vera e propria media potenza mondiale. L'ipotesi non è peregrina, non è detto che le diplomazie occidentali trovino le porte aperte come sperano, il ruolo turco è destinato a crescere nell'area mediterranea per la grande affinità che si svilupperà con le nuove formazioni al governo sul piano religioso e politico.
Benedetto XVI: un magistero attento ai problemi economici
La particolare attenzione che viene prestata dagli ambienti vaticani per l'economia e la finanza registra un netto cambiamento di rotta rispetto al papato precedente. Benedetto XVI ha avviato in sordina un magistero più attento ai problemi sociali che vanno inevitabilmente a connettersi con quelli dell'economia. Rispetto a Giovanni Paolo II, di cui non possiede la presenza quasi scenica, l'attuale pontefice ha avviato una attenta analisi sui problemi generati da una finanza sregolata, spesso condannandone gli eccessi, portatori di diseguaglianza profonda che mina le fondamenta della società. L'attenzione mostrata ai problemi del lavoro ed all'analisi spesso incentrata sull'inadeguatezza degli stipendi dei lavoratori, ha mostrato un lato di Ratzinger sconosciuto, anche nei modi e nelle parole con cui ha condannato questi comportamenti, uscendo anche dalle consuete espressioni misurate, per dare maggiore enfasi al rilievo effettuato. Con il documento uscito ieri sulle storture della finanza e la rimarcata necessità di una riforma in senso maggiormente garantista per per le parti più povere del sistema, la Chiesa cattolica si pone in prima linea, gettando sul piatto tutta la sua autorità, ed espressamente, contro i guasti del neoliberismo, andando contro la politica economica portata in auge fin dagli anni '80 dalla Tatcher e Reagan e continuata fino agli attuali eccessi dai loro successori, anche di segno politico opposto. Tale documento, molto duro, seppure espresso con le consuete sfumature curiali, non può non essere stato avvallato dal Pontefice, confermando così la linea intrapresa sull'argomento. Si individua così che la Chiesa cattolica intende governare in modo fattivo questa emergenza ponendosi come protagonista contro la dottrina economica neoliberista che sta condizionando i tempi attuali. Questa direzione dice chiaramente che i tempi devono cambiare inaugurando una stagione dove il solidarismo e la mutualità devono rimpiazzare la concorrenza sfrenata e l'assenza di regole. Ratzinger, che sembrava il campione della conservazione, dimostra invece sull'argomento, una conoscenza ed una visione più aperta e lungimirante di tanti governanti in carica, che abbozzano soluzioni temporanee prive di progettualità. L'idea di un organismo mondiale che governi la finanza in senso globale, nella sua semplicità rappresenta la soluzione più appropriata per rimettere il fenomeno sotto controllo e si concilia con l'ecumenismo come fondamento della misura. Se la Chiesa continuerà a mantenere l'attenzione su queste materie sarà un avversario in più per chi si oppone alle necessarie riforme per ridare fiato all'economia del mondo.
lunedì 24 ottobre 2011
Il Vaticano per un governo mondiale della finanza
Sul tema del governo dell'economia e della finanza mondiale il Vaticano presenta la propria proposta centrando il bersaglio e dicendo quello che in pochi ammettono: la necessità della creazione di una nuova autorità mondiale che coinvolga, non solo le grandi potenze economiche mondiali, ma anche i paesi in via di sviluppo e le nazioni in fondo alla classifica del reddito e che sia destinata a governare i processi finanziari e monetari a livello globale, con la riscrittura delle regole degli scambi e con l'esercizio del controllo dell'osservanza dei nuovi regolamenti. Questa è la sostanza del documento presentato dal Pontificio consiglio per la giustizia e la pace. La soluzione rappresenta insieme una conclusione naturale di una riflessione attenta allo svolgimento della cronaca economica e la logica definizione di un problema che saprà suscitare diverse contrarietà negli ambienti finanziari e politici, gelosi della propria autonomia di gestione. Il documento verte essenzialmente su due cardini principali, che costituiscono le indicazioni su cui deve svilupparsi il nuovo governo mondiale della finanza: la prima è, appunto la creazione di un organismo che regoli e controlli l'andamento economico finanziario, che non deve essere, per forza, creato ex novo, ma ne può essere utilizzato uno già esistente ampliandone ed integrandone poteri e funzioni. Un esempio concreto può essere la Banca Mondiale, che potrebbe essere individuato come istituto sul quale impiantare le nuove funzioni. Il secondo cardine è la riforma del sistema monetario, che deve essere ripensato in modo da favorire in senso maggiormente egualitario gli scambi finanziari, in maniera tale da favorire non il bene di una parte pa il bene comune dell'intero sistema. Anche se la visione pare utopica, rappresenta un chiaro segnale del bisogno della chiesa di affermare della necessità di un cambiamento dell'andamento attuale. Ma oltre le indicazioni che si potrebbero definire tecniche, nel documento sono presenti valutazioni politiche e morali che vanno in senso contraio ai canoni ed ai principi che hanno governato l'economia fino ad ora. Quello che la situazione impone è una riflessione radicale sulla ricaduta sociale che hanno avuto le teorie neoliberiste in campo economico, con un giudizio finale completamente negativo. La Chiesa si dimostra contraria alla totale assenza di regole che dagli anni '80 del secolo scorso hanno travolto le forme di salvaguardia delle famiglie e delle persone, individuando queste cause come possibili motivi di sovvertimento dell'ordine democratico e della stabilità sociale. Il documento arriva ad individuare la necessità della tassazione delle transazioni finanziarie come elemento di riequilibrio sia macro che microeconomico; nel primo caso andando ad alimentare la costituzione di un fondo mondiale per di riserva per le economie in crisi ed il loro conseguente risanamento, mentre nel secondo caso potrebbero andare a finanziare strumenti su base statale in grado di assicurare forme di welfare avanzato. Il documento è in ultima analisi la condanna della globalizzazione affermatasi senza alcuna forma di controllo, tanto decantata dai governi di stampo liberista ed ora finalmente individuata come fattore di disturbo sociale.
L'influsso della morte di Gheddafi
Come hanno agito sulla psiche dei dittatori, in carica e no, le immagini drammaticamente crudeli della morte di Gheddafi? Sono state un monito, un vaticinio spaventoso, che ha avuto un qualche effetto o sono state catalogate come evento inevitabile per chi non ha avuto la mano sufficientemente salda nella repressione, per chi non ha avuto il polso della situazione ed ha sottovalutato la ribellione, fidandosi delle prerogative fin li acquisite e quindi sopravvalutandosi di fronte ad un pericolo imminente? Lo svolgimento della crisi libica sfociata in guerra civile rappresenta un ottimo insegnamento per chi è ancora in sella e sicuramente si è visto nei logori panni di Gheddafi. La morte violenta del colonnello può costituire una svolta, in un senso o in un altro delle rivolte in atto? Se un fattore psicologico esiste non pare influire troppo su chi è al governo, la fine pur tragica di un "collega" non cambierà i piani di chi vuole mantenere il potere, semmai potrebbe esserci un inasprimento sulla scia dell'emotività; il grosso effetto psicologico potrebbe, al contrario essere, sui dimostranti, una spinta emotiva sulla base della concreta possibilità di rovesciare un regime. Un effetto psicologico del genere non è da sottovalutare per un regime non più saldo, costretto ad incrementare le forme e la violenza della repressioni. La via imboccata da Siria, Arabia Saudita, Yemen è caratterizzata da ripetute violenze tese a soffocare il dissenso ormai pubblico, è vero che questi paesi non possono contare sull'aiuto della NATO, e ciò è da considerare assolutamente certo per l'Arabia che è funzionale agli USA, ma per la Siria e lo Yemen la situazione potrebbe cambiare. L'errore di queste dittature è stato non interpretare all'inizio lo spirito delle proteste, non si sono operate concessioni ed aperture, se non in modo blando in Arabia Saudita, inoltre la mancanza di un ruolo cuscinetto svolto dall'esercito egiziano nel paese dei faraoni, ha determinato una spaccatura sociale con le forze armate che potevano essere un fattore calmierante. La vicenda libica dimostra che la fine del tiranno è possibile ed è tanto più possibile perchè il tiranno muore, non come in Tunisia o in Egitto, e questo fatto assume un valore simbolico enorme, che rimarrà a lungo impresso in quei popoli che patiscono sotto il giogo delle dittature. Se le repressioni continueranno ad essere violente la resa dei conti non potrà che essere violenta.
domenica 23 ottobre 2011
Sulle presidenziali USA spunta la variabile Iraq
Nelle elezioni americane ritorna centrale il tema degli esteri e della perdita di centralità e del ruolo di potenza mondiale degli USA. Il problema è connesso con il tutti a casa decretato da Obama per le forze americane presenti in Iraq. Fino a poco tempo fa non era prevedibile che una mossa del genere potesse rivelarsi un boomerang per il presidente in carica, con gli USA focalizzati sul fronte interno della crisi economica ed il gran sforzo economico e di vite umane avviato a finire, il ritiro dall'Iraq sembrava il più grosso spot elettorale per la competizione del 2012. Ma i repubblicani stanno trovando un punto debole nella strategia democratica di Obama: un Iraq sguarnito dalla potenza militare americana rischia di finire sotto la nefasta influenza iraniana, lo stato sempre più inquadrato come il nemico numero uno per la bandiera a stelle e strisce. L'eliminazione fisica di Saddam Hussein, Bin Laden e Gheddafi non garantisce a Barack Obama di avere la certezza di non fare trovare più sulla strada degli Stati Uniti un nemico forse ancora più pericoloso ed insidioso come Ahmadinejad. L'evoluzione militare iraniana, che punta ad inserire l'arma atomica nel proprio arsenale, mette in allarme gli analisti americani più vicini al Partito Repubblicano. Una espansione dell'influenza iraniana sul travagliato Iraq metterebbe in discussione delicati equilibri sia dal punto di vista interno tra sciti e sunniti, che da quello diplomatico, contribuendo a riscaldare la tensione già presente tra Arabia Saudita ed Iran. Con un quadro del genere il dispiegamento americano degli anni passati potrebbe risultare inutile ed un lavoro incompiuto. In effetti, anche tralasciando il tema della supremazia USA in campo mondiale, argomento caro ai Repubblicani, gli argomenti sollevati per l'abbandono dell'armata americana in Iraq non possono che sollevare qualche legittimità sulle questioni poste. In questa ottica un abbandono completo dell'Iraq sembrerebbe vanificare anni di sforzi per raggiungere obiettivi ritenuti il caposaldo dell'intera politica estera americana. La brusca marcia indietro potrebbe generare confusione anche in un elettorato concentrato su argomenti diversi e lontani, aprendo un vero e proprio squarcio nella tattica elettorale di Obama. In effetti si tratta di due diverse visioni contrapposte, se il Presidente in carica ha sempre reso pubblico, fin dalla campagna elettorale di cinque anni prima, l'intenzione di sganciare gli USA dai vari conflitti ereditati dall'amministrazione precedente ed ha proseguito nelle emergenze successive mantenendo un basso profilo per gli Stati Uniti, per i repubblicani storici la tendenza è sempre stata del tutto opposta. Semmai una convergenza con Obama su questo tema poteva esserci dal movimento del tea party, che ha sempre prediletto i temi di economia interna a discapito dei grandi problemi di politica internazionale. Ma la questione cardine rimane sul tappeto, quale sarà il destino degli equilibri regionali se l'Iraq verrà abbandonato al suo destino? La questione è da valutare attentamente poichè se si verificasse la necessità di un ritorno da zero per sopraggiunte necessità sarebbe una sconfitta storica per Obama ed anche su queste previsioni a lungo termine si giocherà l'esito delle presidenziali del prossimo anno.
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