In Pakistan la presenza dei rifugiati afghani ammonta a circa 1.700.000 persone registrate ufficialmente, più un milione di clandestini, secondo le stime delle organizzazioni internazionali. La condizione di queste persone, sfuggite al conflitto presente nella propria nazione, che sta continuando oltre il previsto, è al limite; essi sono ospitati, per lo più, in case di fortuna, confinate in zone senza le più elementari infrastrutture. Eppure nel paese pachistano sta montando un crescente malessere verso questi immigrati, con sfumature sempre più accentuate di xenofobia. Se è vero che alcuni fanno parte di gruppi terroristici o si occupano del traffico di droga, attraverso le montagne al confine tra i due stati, la maggioranza è composta da una massa di disperati, che accettano di vivere in una condizione di miseria molto dura per sfuggire alle violenze del proprio paese. Lo stesso governo di Islamabad ha già minacciato diverse volte l'espulsione dei cittadini afghani rifugiati sul proprio territorio, adducendo a misure di sicurezza per i propri cittadini. In realtà la minaccia rappresenta uno strumento di pressione politica su Kabul, che sta andando verso una alleanza sempre più salda con l'India, il nemico principale del Pachistan. Si tratta dell'evoluzione della lotta commerciale nella regione, in corso tra Cina ed India, con Pechino, che ha stipulato accordi molto stretti con il Pachistan e Nuova Delhi che ha bilanciato la presenza cinese attraverso accordi con l'Afghanistan. Nei programmi pachistani, in realtà, vi erano tutte le intenzioni per portare Kabul sotto la propria sfera di influenza o, almeno, evitare che uno dei partner principali fosse l'India per non correre il rischio di avere il principale avversario anche su di un altro lato della frontiera. Tra l'altro gli accordi tra India e Pachistan prevedono sia forniture militari, che addestramento alle forze regolari di Kabul, con la conseguente presenza di militari indiani praticamente al confine con il Pachistan.
Occorre anche ricordare che i rapporti tra Afghanistan e Pachistan, sono già deteriorati da parecchio tempo, a causa delle accuse del governo di Karzai a quello di Islamabad, di ospitare, tollerandole, sui propri territori, basi talebane, da cui partirebbero gli attacchi verso le forze regolari e gli alleati della NATO. Peraltro questa accusa è sostanzialmente veritiera per essere stata verificata dalle truppe americane ed è stata sostenuta anche dal governo Obama in più di una occasione, tanto da non ritenere più il Pachistan un alleato affidabile, come più volte riscontrato nelle azioni militari USA, dove l'esempio più eclatante è stata l'uccisione di Bin Laden, avvenuta, senza prendere accordi ne essere stata preceduta da un avvertimento formale, sul territorio di Islamabad. Per contro il Pachistan accusa l'Afghanistan di ospitare sul proprio territorio talebani pachistani che andrebbero a compiere attacchi contro la madrepatria, proprio partendo dalle base afghane. Risulta difficile credere che questa eventualità possa essere possibile con la presenza costante di truppe americane, in costante pattugliamento sul territorio di Kabul. Malgrado le minacce di espulsione, gli osservatori internazionali, ritengono poco verosimile, che l'eventualità sia messa in atto dal Pachistan, principalmente per limiti tecnici oggettivi, si tratterebbe, infatti, sommando la cifra degli immigrati regolari con quelli clandestini, di espellere circa 7.400 persone al giorno per un anno. Peraltro l'Afghanistan non possiede la capacità di assorbire un tale numero di persone, che rappresenta, comunque, il 10% del totale della sua popolazione. In ogni caso se non si dovesse arrivare ad un accordo, anche attraverso l'ONU o le sue agenzie, si rischia di sfiorare la tragedia umanitaria, perchè questa massa di persone rappresenta comunque uno strumento di pressione sul quale può abbattersi qualunque decisione capace di aggravarne le già precarie condizioni.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 24 agosto 2012
giovedì 23 agosto 2012
In Libano rischio di allargamento del conflitto siriano
Come si è più volte temuto, ma anche preventivato, il conflitto siriano passa il confine con il Libano a causa di tre giorni consecutivi di combattimento nella città libanese di Tripoli, tra fazioni favorevoli ad Assad e gruppi contrari al regime di Damasco, che hanno visto circa 12 morti ed oltre 75 feriti. Si tratta di una precisa strategia di Assad, che cerca di riportare il paese vicino nella guerra civile che l'ha martoriato per più di 15 anni. Il governo di Damasco spera in una ripresa delle ostilità in grande stile tra gli sciti alawiti, cui appartiene la famiglia di Assad, ed i sunniti, da sempre contrari alle ingerenze siriane nella politica interna libanese. L'interesse di Damasco affinchè ciò avvenga contempla diverse motivazioni, tra cui impedire ai miliziani sunniti di aggiungersi ulteriormente alle forze ribelli siriane, colpire le basi presenti in Libano da cui partono gli attacchi delle forze di opposizione siriane, spostare l'attenzione dalla guerra civile in corso in Siria, in special modo, da parte delle potenze occidentali già ufficiosamente impegnate nei teatri di combattimento ed infine mettere in apprensione, e forse anche coinvolgere, Israele. Su quest'ultimo punto la strategia di Assad potrebbe contemplare che un possibile coinvolgimento di Tel Aviv sarebbe fortemente temuto dagli USA, per le ovvie implicazioni di un'entrata in guerra dell'esercito della stella di David, tanto da causare un impegno diretto degli americani per un cessate il fuoco immediato, che, per lo meno nel breve periodo, non potrebbe che favorire Damasco, guadagnando tempo prezioso per una riorganizzazione sia politica che militare dell'apparato statale, ora gravemente compromesso. Assad sta procedendo nel suo obiettivo di esportare la guerra in Libano con episodi mirati associati ad una campagna sistematica di attentati, in grado di seminare il caos in Libano, che sta già producendo la fuga dei cittadini stranieri, sollecitati dalle proprie nazioni di appartenenza a lasciare il paese, con il primo risultato di mettere in crisi il fondamentale settore turistico, punto di forza dell'economia libanese. Ma ancora peggiore è lo stato d'animo della società libanese sprofondata nella paura di una nuova guerra civile. Proprio per evitare ciò sia il governo, che l'esercito libanese, hanno chiesto a tutte le fazioni di deporre le armi e non cadere nel tranello di Assad. La situazione è talmente temuta che perfino il movimento Hezbollah, alleato dell'Iran, ha affermato di astenersi dai combattimenti, provocando così una falla nei piani siriani, tuttavia la presenza di svariate milizie, anche di piccola entità, praticamente incontrollate, favorisce una situazione di grande instabilità ed incertezza,lasciando aperte grandi possibilità ai piani di Assad. Se la situazione libanese minaccia di diventare esplosiva, descrive però anche molto bene la difficile condizione del regime siriano ormai costretto ad espedienti di natura diversiva, che hanno lo scopo di creare qualche situazione favorevole in grado di dare una svolta al conflitto interno. Potrebbe essere questo il momento propizio per le potenze che intendono impegnarsi per la caduta del regime, sfruttando i chiari segnali di difficoltà, che le azioni di Damasco consentono di interpretare.
L'India alle prese con l'intolleranza
L'India è attraversata da profondi sentimenti di intolleranza. Nella capitale economica del paese, Mumbai, più di 50.000 persone, hanno aderito alla manifestazione del partito nazionalista contro l'afflusso di emigrati provenienti dal Bangladesh. Sebbene il tutto si sia svolto senza incidenti di rilievo, la questione, che si incentra sia su motivi economici, che religiosi, gli emigrati del Bangladesh sono per lo più musulmani, la manifestazione è il sintomo di un disagio palpabile nella società indiana, dove la forte emigrazione richiamata dal miracolo economico indiano, viene avvertita sempre più spesso come minaccia alla stabilità nazionale. La questione religiosa riveste poi particolare importanza, a seguito delle continue manifestazioni che i musulmani stanno facendo nel paese e che sono poi spesso degenerate in atti di violenza. I nazionalisti indù vedono, dietro questi avvenimenti, l'ispirazione da parte del Pakistan, stato musulmano, tradizionale nemico dell'India con cui i rapporti, dopo una fase che sembrava di distensione, sono tornati ad essere tesi. Difficile dire se questa teoria possa corrispondere al vero, ma risulta comunque essere un buon argomento per l'attivismo del partito nazionalista, capace di aggregare intorno alle proprie idee, masse di scontenti. Questa strategia, peraltro ha provocato tensioni rilevanti in tutta l'India, che hanno provocato più di 80 morti e la fuga di più di 40.000 persone di religione musulmana, dai territori a maggioranza indù. Uno dei temi centrali è la proprietà della terra, che i leader indù ritengono intollerabile diventi di proprietà dei musulmani, perchè altererebbe l'identità stessa del paese. Per l'India si tratta di un grosso problema da affrontare in un periodo segnato da profonde trasformazioni, sia economiche, che sociali. Il paese è condizionato dai grandi contrasti dai quali è contrassegnato, benchè sia presente un ritmo di crescita con valori molto alti, tali da provocare preoccupazione in Cina, la ricchezza resta concentrata nelle mani di pochi ed il tasso di povertà ed indigenza, uno dei più alti al mondo, sopratutto per quanto riguarda la povertà infantile, non accenna a scendere. Inoltre le riforme dei governi recenti, che sono state tese a cambiare la struttura sociale delle caste, pur promulgate non hanno ancora attecchito in maniera incisiva in un tessuto sociale che non riesce ad uscire da usi e costumi atavici. In questo quadro, per il partito nazionalista risulta facile intercettare
lo scontento generale ed indirizzarlo verso gli emigrati musulmani, replicando un quadro già ben sperimentato nelle democrazie occidentali. Tuttavia la scarsa penetrazione delle strutture politiche nella società indiana, non mette al riparo la protezione dei diritti elementari, spesso calpestati da manifestazioni popolari violente.
E' uno scenario che non può permettere all'India quel salto economico che i suoi governanti rincorrono e che non consente al paese quella competizione, spesso cercata con la Cina, che, pur tra mille contraddizioni, sfrutta la sua maggiore organizzazione sociale e sopratutto il ferreo controllo sul paese.
lo scontento generale ed indirizzarlo verso gli emigrati musulmani, replicando un quadro già ben sperimentato nelle democrazie occidentali. Tuttavia la scarsa penetrazione delle strutture politiche nella società indiana, non mette al riparo la protezione dei diritti elementari, spesso calpestati da manifestazioni popolari violente.
E' uno scenario che non può permettere all'India quel salto economico che i suoi governanti rincorrono e che non consente al paese quella competizione, spesso cercata con la Cina, che, pur tra mille contraddizioni, sfrutta la sua maggiore organizzazione sociale e sopratutto il ferreo controllo sul paese.
In Iran il vertice dei paesi non allineati
Il vertice dei paesi non allineati in programma per il 30 e 31 agosto nella capitale iraniana, rischia di perdere il proprio significato per diventare una manifestazione di consenso verso la Repubblica degli ayatollah. Quello che il regime di Teheran ha organizzato, infatti, pare una manifestazione per dimostrare che il paese è tutt'altro che isolato, come le intenzioni di Stati Uniti ed Israele vorrebbero, a causa dello sviluppo del proprio programma nucleare. La presenza di ben trenta capi di stato e di almeno un centinaio di rappresentanti di governo di altri paesi, secondo quanto dichiarato da Teheran, dimostra, come in effetti è nella realtà, che il piano di isolamento voluto da Washington ed appoggiato dalla UE è fallito, grazie alla efficace strategia diplomatica degli iraniani, che hanno saputo aprirsi e percorrere strade alternative al rapporto con i paesi più industrializzati. In effetti quanto dichiarato dal portavoce del ministero degli esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, che ha definito il vertice come il più grande evento della storia diplomatica del paese, corrisponde al vero e rappresenta in concreto come gli sforzi di isolare il paese siano, di fatto, naufragati. La significativa presenza di alcuni determinati paesi, poi, assume una grande rilevanza politica nel momento attuale. In particolare la visita del nuovo presidente egiziano Morsi significa la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Egitto ed Iran, interrotte da più di trenta anni. Questo elemento, anche se non dovrebbe portare allo spostamento dei delicati equilibri regionali del medio oriente, non può che determinare una maggiore diffidenza degli israeliani per il nuovo assetto politico uscito dalle urne egiziane. Per Teheran è comunque un successo la ripresa delle relazioni con Il Cairo, fino ad ora comunque dichiaratosi alleato degli USA, proprio perchè ciò rappresenta un fattore di disturbo per Israele. L'organizzazione del vertice rappresenta anche la volontà iraniana di assumere un ruolo di guida dei paesi non allineati, per perseguire la propria strategia di media potenza, che cerca di ritagliarsi un ruolo da protagonista sul panorama internazionale, facendo leva sull'anti americanismo di molti paesi membri e nello stesso tempo allacciando rapporti commerciali capaci di annullare gli effetti delle sanzioni. Teheran cerca di mettersi alla guida di un insieme eterogeneo di nazioni, senza però avere su molte di esse, la necessaria autorevolezza e la capacità di manovra indispensabile per portarle sotto la propria influenza, tuttavia l'esistenza di tratti comuni con paesi che coprono diverse aree geografiche e si sentono accomunate da sentimenti contrari al fenomeno della globalizzazione, avvertito come nuova versione dell'imperialismo americano, potrebbe consentire una ulteriore crescita del peso diplomatico iraniano. Questa situazione rappresenta una sorta di parziale sconfitta per l'impostazione data da Obama alla propria politica estera, imperniata su di un ruolo meno visibile e più di secondo piano dell'attivismo americano fuori dai propri confini, anche se in realtà in diversi episodi la troppa rigidità nell'affrontare alcune situazioni ha determinato, di fatto, un mantenimento di vecchie posizioni, invise a paesi di particolari aree geografiche, oggetto in passato degli eccessi invasivi di Washington. Quello che rischia di uscire da questo vertice è quindi il ribadire di una posizione dei paesi non allineati contraria all'occidente, in un momento storico dove, invece, sarebbe necessaria una maggiore collaborazione tra nord e sud del mondo su materie determinanti per il mantenimento della pace e l'intensificazione della cooperazione mondiale.
martedì 21 agosto 2012
Il caso Assange come causa dell'interruzione del diritto internazionale
Dietro la vicenda londinese che vede come principale interprete Julian Assange, vi sono, in realtà, diverse implicazioni che riguardano i rapporti diplomatici e lo stesso diritto internazionale, tali da potere sovvertire consuetudini consolidate. La minaccia del governo del Regno Unito di violare impunemente una ambasciata di uno stato sovrano, che gode, pare superfluo ricordarlo, di extraterritorialità, va contro ogni ragionevole scenario che si possa prefigurare nei rapporti tra due stati, nemici o no. La gravità della minaccia potrebbe essere soltanto superata dalla sua messa in pratica, che darebbe il via a spinose questioni presso l'ONU, ma che potrebbe, sopratutto, inficiare il principio dell'extraterritorialità, su cui si basano gli insediamenti diplomatici in tutto il mondo. Creare un tale precedente potrebbe aprire una serie di provvedimenti analoghi in altre parti del pianeta, mettendo in crisi il complesso sistema su cui poggiano le relazioni internazionali ed aprire così una fase storica dei rapporti diplomatici segnata da profonda incertezza. Pare impossibile che la diplomazia londinese, formata da personale molto esperto, non sia consapevole della responsabilità di dare il via ad una pratica così pericolosa, in un ambiente dove la creazione di un precedente può costituire una legge non scritta, tuttavia più che ai diplomatici professionisti, la responsabilità di tale minaccia sembra da ascrivere ad un governo come quello di Cameron, che continua a distinguersi per la scarsa professionalità, l'inesperienza nella gestione delle situazioni difficili, come più volte dimostrato nei casi di politica interna ed ora per il servilismo, quasi ostentato, verso gli Stati Uniti. Difficile infatti non pensare che dietro la manovra inglese non vi sia la mano di Washington, che, però, si distingue per un basso profilo, continuando ad affermare che la vicenda riguarda soltanto Londra, Quito e Stoccolma. In realtà per gli USA l'atteggiamento inglese pare avere procurato soltanto fastidi, compattando i paesi del centro america in appoggio all'Ecuador anche in nome di un rinnovato anti americanismo. La frase del presidente ecuadoriano Correa che afferma che i paesi centro americani non sono più il cortile di casa degli USA, può rappresentare per Washington implicazioni ben peggiori dei supposti vantaggi della cattura di Assange. L'esercizio del diritto di asilo da parte dell'ambasciata ecuadoriana, pone così problemi che vanno aldilà del singolo caso, che già da solo presenta risvolti interessanti. Non possono che essere ovvie le considerazioni che la volontà di punire chi ha divulgato notizie riservate, in nome di una pur dubbia libertà di stampa, non possano essere motivo di dubbio sul reale comportamento di stati che si auto nominano campioni dei diritti civili. L'intreccio che si è venuto a creare, tra relazioni diplomatiche ed i possibili sviluppi intorno al caso del fondatore di Wikileaks, fornisce la misura di quanto stati più deboli sappiano sfruttare le occasioni per riempire i vuoti che si sono venuti a creare negli equilibri mondiali: non è un caso che Correa ha espressamente dichiarato che si tratta di una lotta tra Davide e Golia, ma può essere l'occasione per i tanti Davide del mondo di unirsi per guadagnare visibilità ed importanza. In effetti se la questione viene impostata come protezione fornita ad una persona per le sue opinioni politiche, risulta difficile stare dalla parte degli inglesi, che, anzi, ne escono, a prescindere da ogni finale possibile della vicenda, come i perdenti in assoluto, per avere assunto un atteggiamento contrario al diritto. D'altro canto l'Ecuador, dopo una minaccia esplicita ad una sua sede diplomatica, non poteva cedere di fronte a minacce irragionevoli ed inopportune, ed ha così assunto un ruolo di paladino dei diritti facilmente condivisibile, ottenendo l'appoggio anche implicito di un'area ben più vasta di quella dei paesi centro americani. Vi è ancora un aspetto che è parso trascurato da più parti: il silenzio delle Nazioni Unite di fronte alla minaccia di una violazione così palese. La mancata reazione, che doveva essere di sanzione automatica, del Palazzo di vetro pone inquietanti interrogativi sulla reale indipendenza dell'organismo creato per favorire la cooperazione dei popoli in nome del diritto; il fatto è gravissimo ed impone un rimedio che permetta di riguadagnare la fiducia, oltre che dell'opinione pubblica mondiale, di quei paesi del terzo mondo che si sono spesso sentiti trascurati dalle Nazioni Unite.
lunedì 20 agosto 2012
Per il Giappone, dopo la Corea del Sud, si apre il fronte diplomatico con la Cina
Dopo la tensione con la Corea del Sud, per la questione delle Isole Takeshima, per il Giappone si apre un altro fronte diplomatico analogo, questa volta con la Cina, per le isole Senkaku. Attivisti che componevano l'inedita alleanza tra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, hanno infatti piantato le rispettive bandiere su questo piccolo arcipelago, formato da cinque isole, situato nel mar Cinese Orientale e distante circa 120 miglia marine a nordest di Taiwan, 200 miglia marine ad est della Cina continentale e 200 miglia marine a sudovest dell'isola di Okinawa, di cui amministrativamente fanno parte per essere inserite nella sua prefettura, attraverso la dipendenza dal comune di Ishigaki. L'arcipelago era sotto il dominio cinese fino al 1895, anno in cui, in base la trattato di Shimonoseki, dell'aprile 1895, conseguente alla sconfitta della Cina nella prima guerra con il Giappone, passarono sotto la sovranità di quest'ultimo. Gli attivisti cinesi sono stati sfrattati semplicemente senza arrivare ad un processo, che poteva avere conseguenze ben più gravi del già difficile clima che si è venuto a creare; ma questo episodio è soltanto l'ultimo di una serie di incidenti, che si registrano in aumento dal 2007. Come per le isole Takeshima, esistono più ragioni che provocano questa situazioni, che possono portare ad incidenti diplomatici gravidi di conseguenze. Le Senkaku sono circondate da acque molto pescose ed hanno giacimenti di idrocarburi, che pur non consistenti in termini assoluti, possono rappresentare, sopratutto per il Giappone, una riserva considerevole. Inoltre l'importanza strategica, inquadrata in un contesto orientato al sempre maggiore controllo e presidio delle rotte commerciali, ne determina un valore intrinseco molto superiore allo stretto valore economico, non solo, anche l'importanza militare non è secondaria, perchè potrebbe permettere la creazione di una base che potrebbe essere una vera e propria testa di ponte nel Pacifico, sopratutto per la flotta cinese, che avrebbe l'opportunità di insidiare proprio la supremazia di quella giapponese. Il tema è quindi delicato ed arriva in un momento particolare sia per Pechino, che per Washington, alle prese con passaggi di potere annunciati e non. Proprio gli USA, che hanno trasferito la sovranità dell'arcipelago al Giappone, nel 1972, in seguito al trattato di pace di San Francisco, mai riconosciuto dalla Cina, hanno, recentemente, dichiarato che l'arcipelago rientra nel trattato con Tokyo per la sicurezza, da cui consegue che ogni attacco di cui potenzialmente potrebbero essere oggetto, potrebbe fare scattare delle rappresaglie ad opera delle forze armate americane. Negli ambienti statunitensi si ritiene che le rivendicazioni cinesi siano soltanto simboliche e non possano andare aldilà di meri episodi dimostrativi. Tuttavia sia in Cina, che in Giappone, le rispettive opinioni pubbliche sono protagoniste di manifestazioni contro il paese avversario in nome di un rinnovato nazionalismo, che accomuna i due paesi, divisi da storica rivalità. Sopratutto il Giappone sembra attraversato da un sentimento patriottico che sconfina in un pericoloso revanscismo, capace di aggravare una situazione regionale, sempre più in bilico per la presenza di focolai potenziali altamente pericolosi.
Sulla UE il pericolo dell'affermazione dei movimenti politici estremi
La velocità con cui i mercati stanno condizionando la vita degli abitanti dell'Unione Europea, continua a produrre reazioni politiche che muovono l'opinione pubblica sempre più verso le ali estreme delle formazioni politiche. Certo per ora è una tendenza non maggioritaria ma che rivela una propensione degli elettori al rifiuto dei partiti tradizionali che occupano le posizioni di governo. Il fenomeno è rivelatore di una percezione piuttosto netta sulla responsabilità della crisi e dell'inadeguatezza delle misure prese, che sono andate a pesare solo su di una parte ben definita della società europea. Il dato comune, infatti, evidenzia lo scontento dei ceti medi e medio bassi i cui redditi sono stati fortemente decurtati da misure pressochè analoghe, applicate in nazioni differenti. La crescita delle ali estreme del panorama politico, diventa, quindi, la logica conseguenza di una radicalizzazione di una situazione caratterizzata dall'assenza di controllo, che ha permesso materialmente la grave situazione attuale. Ma, se nell'immediato, proprio per la mancanza di peso politico nelle sedi parlamentari, questo fenomeno reata circoscritto alla sola protesta, in un prossimo futuro segnato da competizioni elettorali imminenti, una affermazione elettorale di questi movimenti potrà creare diverse condizioni capaci di bloccare il necessario processo di integrazione europea, che resta l'unica strada per fare uscire il vecchio continente dalle sabbie mobili della crisi finanziaria. Intanto una frammentazione più accentuata dell'attuale nei parlamenti nazionali ed in quello comunitario, non potrà che avere effetti di rallentamento sui processi decisionali, con conseguenti cause ostative alla necessaria univocità di indirizzo. Questo segnale, comune sia a paesi da tripla A, come l'Olanda, sia a nazioni in evidente difficoltà come la Grecia, non può essere sottovalutato da chi è attualmente al governo e specialmente ricopre ruoli di maggiore importanza, in virtù della propria forza economica, nella UE. La discrepanza che divide la velocità dei mercati dall'azione politica è ormai assodato, la ragione che impedisce un corretto funzionamento dell'Europa. Le misure studiate e contrattate a lungo sono sempre un passo indietro a ciò che proviene da mercati esenti da regole, che impongono decisioni sempre più drastiche al di fuori di un normale processo politico. In questa ottica la democrazia viene calpestata ogni giorno dall'oligarchia finanziaria, ormai assurta a novello despota, in grado di controllare i destini delle masse della popolazione europea. Ma se sulle prime, cioè all'inizio del manifestazione della crisi si poteva, giustamente addebitare al legislatore europeo, la mancanza di lungimiranza per non avere saputo prevedere gli effetti nefasti di un liberismo troppo accentuato, ormai il fenomeno è consolidato; eppure le istituzioni europee ed i governi internazionali non sono stati ancora in grado di elaborare una strategia politica unitaria volta al contenimento degli effetti deleteri delle oscillazioni finanziarie. Il primo elemento da eliminare è la lentezza della reazione da un punto di vista normativo, in grado, cioè, di procedere da una regolamentazione effettiva ai fenomeni che condizionano i bilanci ed il debito degli stati. Fino ad ora si è proceduto con strumenti puramente tecnici, di natura economica e sopratutto soltanto contingenti, senza il necessario requisito della programmazione a media o lunga distanza. Ma la ragione è logica: per elaborare provvedimenti di tale portata è necessario un supporto di tipo politico e non soltanto tecnico. E' però proprio su questo aspetto che si riscontrano le maggiori deficienze di un governo sovranazionale, che per il momento è del tutto assente. I provvedimenti dei singoli stati , seppure presi in accordo tra i diversi governi, restano, appunto, leggi nazionali o peggio conseguenze di stati di necessità, per risolvere le quali, gli stati più forti impongono ai più deboli. Se da un punto di vista di necessità ed urgenza questo può essere tollerabile in maniera limitata, per essere accettato deve essere accompagnato dall'elaborazione di progetti tendenti ad una maggiore centralità, che favorisca l'indirizzo politico su quello esclusivamente tecnico. Ciò potrebbe permettere, innanzitutto una regolamentazione a livello comunitario, degli aspetti più nocivi delle conseguenze delle oscillazioni finanziarie ed, in seconda battuta, una programmazione legislativa proveniente dalla rinnovata centralità dell'azione politica, legittimata dall'effettiva riaffermazione del ruolo della democrazia, per ora calpestata dalla causa economica. Per fare ciò il tempo non è tanto, senza un adeguato miglioramento delle condizioni generali delle popolazioni, il guadagno in termini di voti di chi cavalca la protesta è destinato ad aumentare in maniera esponenziale. Per limitare il fenomeno è necessario introdurre una politica di redistribuzione che permetta di mantenere un sistema di protezione sociale, capace di riavvicinare lo stato al cittadino ed insieme procedere con riforme in grado di unire in maniera efficace, dal punto di vista politico, la UE, che siano percepite dalla popolazione come una protezione delle istituzioni.
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