Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 10 ottobre 2012
L'attacco all'Iran è più vicino?
Due fatti, apparentemente scollegati, possono indicare che la strada verso un probabile attacco all'Iran si sta avvicinando. Nel primo caso il premier israeliano Netanyahu, ha annunciato l'intenzione di indire le elezioni anticipate, da effettuarsi nei primi mesi del 2013, quindi in un lasso di tempo ristretto, anzichè ad ottobre scadenza naturale della legislatura, ufficialmente per approvare un bilancio fortemente restrittivo, basato su misure di forte austerità, che sarebbe impossibile ottenesse il voto favorevole necessario con l'attuale composizione del parlamento. Tuttavia, sebbene la situazione economica israeliana risenta della crisi, come peraltro il resto del mondo, il guadagno di nove o dieci mesi, pare più funzionale ad impedire all'Iran di costruire la bomba, che mettere riparo ai problemi economici. Quella contro l'Iran è una lotta contro il tempo, ma l'assetto democratico di Israele non ha i margini di manovra così ampi come quelli del governo iraniano; nel tessuto sociale e politico israeliano il dibattito sull'opportunità di scatenare un attacco preventivo sta lacerando il paese ed il premier in carica vuole imprimere una svolta decisa, che legittimi la sua posizione. Quello che appare è però un paese in preda alla paura, dove i favorevoli all'attacco preventivo stanno crescendo, facendo crescere simultaneamente i consensi verso Netanyahu, come testimoniato dai sondaggi. A questo punto la strategia del governo in carica appare chiara: legittimare con un risultato elettorale che pare scontato, la volontà di attaccare l'Iran. Se ciò si verificherà, a prescindere dal candidato vincente nella competizione USA, sarà impossibile per il nuovo presidente USA, in special modo se sarà Obama, non tenere conto della volontà del popolo israeliano. La possibilità è ritenuta fortemente verificabile dagli USA, e qui si verifica il secondo fatto che diventa un indizio, che hanno infatti inviato, in forma segreta, ma non troppo, un contingente di 100 unità in Giordania per aiutare il paese medio orientale a fronteggiare il grande afflusso di profughi siriani in fuga dalla guerra civile. Secondo le indiscrezioni si tratterebbe di personale militare altamente specializzato, che sembra fuori ruolo nel compito ufficialmente affidatogli. La Giordania, nella regione, è l'unico alleato su cui può contare veramente Israele, sopratutto per il passaggio dei propri aerei da bombardamento, che potrebbero essere impiegati contro l'Iran. Quella americana, insomma pare una missione esplorativa, se non organizzativa di un qualcosa che potrebbe avvenire in tempi relativamente brevi. Il collegamento dei due fatti a questo punto è impossibile da non vedere, l'eventualità di un attacco all'Iran, nonostante le sincere intenzioni di Obama di scongiurarlo, è ormai ritenuta fortemente probabile. Politicamente, del resto, se si verificheranno le condizioni previste da Netanyahu, sopratutto in coincidenza dell'avvicinarsi dello scadere del tempo stimato affinchè l'Iran possa avere a disposizione l'ordigno nucleare, sarà ben difficile uno scenario differente da quello fortemente voluto dall'attuale governo israeliano. Anche per gli USA non pare esserci più grande margine di operatività, nonostante l'esito delle elezioni sia sembre più incerto, anzi una vittoria di Romney, che si è più volte dichiarato favorevole all'attacco all'Iran, probabilmente consentirebbe a Netanyahu una accelerata, che potrebbe permettergli di anticipare l'operazione militare ancora prima della consultazione elettorale, pensata in funzione di una vittoria di Obama.
martedì 9 ottobre 2012
L'Iran può avere l'atomica entro 14 mesi
Secondo le stime dell'Istituto per la Scienza e la Sicurezza Internazionale, un organismo indipendente statunitense, l'Iran potrebbe arrivare ad avere la bomba atomica in un periodo massimo di 14 mesi, così suddivisi: dai due ai quattro mesi per l'arricchimento della quantità necessaria alla costruzione dell'ordigno, stimata in circa venticinque chilogrammi di uranio altamente trattato, e dagli otto ai dieci mesi per la costruzione materiale della bomba. Il tempo stimato coincide praticamente con quanto affermato dal Segretario della Difesa USA, Leon Panetta, che ha valutato in circa dodici mesi il tempo necessario a Teheran per diventare una potenza nucleare, qualora la decisione presa dal governo dell'Iran andasse in quella direzione. Una volta in possesso della quantità necessaria di uranio arricchito, si ritiene che per i tecnici dell'AIEA, sarà impossibile rilevare i progressi e gli avanzamenti nella costruzione della bomba atomica del paese iraniano. A questo punto l'unica via per evitare una guerra preventiva, come più volte caldeggiato da Israele, e nello stesso tempo impedire la produzione dell'arma nucleare, è impedire a Teheran i rifornimenti di uranio. Tale soluzione, l'unica che può effettivamente scongiurare un conflitto, le cui conseguenze non sono immaginabili, pare però non facilmente praticabile: nonostante le restrizioni a cui è sottoposto il paese iraniano, da gran parte, ma non da tutta, la comunità internazionale, l'isolamento non è completo e Teheran può percorrere diverse vie che possono assicurargli le forniture della materia prima necessaria alla costruzione dell'ordigno. Verosimilmente, quindi, quella che si svilupperà, almeno nel breve periodo, sarà la guerra sotterranea e non dichiarata già in atto tra Israele ed Iran, che ha portato, attraverso numerosi attentati, all'eliminazione di diversi studiosi, da una parte, e l'esecuzione di atti terroristici dall'altra, in una continua rincorsa di ritorsioni. D'altra parte l'atteggiamento ufficiale iraniano è quello di sviluppare l'energia nucleare esclusivamente per scopi pacifici, anche se gli ostacoli frapposti alle ispezioni degli inviati dell'AIEA sono sempre stati di livello tale da impedire gli esami richiesti, comportamento che ha alimentato sospetti che hanno sconfinato nella certezza sulle reali intenzioni del paese scita. Se Mahmoud Ahmadinejad continua, comunque a mantenere la sua posizione che non prevede interruzione alcuna del programma nucleare iraniano, malgrado il grave crollo della moneta nazionale, principalmente dovuto agli effetti delle sanzioni economiche, resta però difficile capire il suo calcolo, che pone il paese in grave difficoltà economica, per la costruzione di un ordigno che può portare soltanto l'avversione delle potenze mondiali. Se il progetto è quello di diventare, attraverso il possesso dell'arma atomica, una potenza in grado di guidare quei paesi e gruppi contrari principalmente ad Israele ed all'occidente, tale schema pare sovradimensionato alle reali potenzialità del paese, sopratutto in relazione alle possibilità di riuscita; e se anche l'obiettivo fosse quello di tenere sotto pressione continua l'intera regione mettendone in pericolo l'equilibrio, in una prolungata guerra di nervi, anche questa opzione pare difficilmente percorribile per i timori di Tel Aviv, che difficilmente saranno ancora tenuti a bada a lungo dagli USA. Sicuramente questo rapporto non farà che confermare quanto già in mano al governo israeliano con il risultato di accelerare i preparativi del tanto annunciato attacco.
Nel Mondo ancora 870 milioni di persone soffrono la fame
La FAO, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, ha quantificato in circa 870 milioni, le persone che nel mondo soffrono la fame e denutrizione. Tale cifra è ritenuta ancora, giustamente, inaccettabile, seppure diminuita dal dato rilevato nel 2010, che era di 925 milioni. Il processo di diminuzione, in avanzamento costante fino al 2008, dopo tale data ha subito un rallentamento dovuto principalmente agli effetti della crisi economica globale, che è andata ad influire sull'aumento dei prezzi dei generi alimentari, la speculazione oltremodo spinta verificatasi sulle materie prime, l'incremento della produzione dei bio combustibili ottenuti a spese della produzione dei generi alimentari e non ultimo il cambiamento climatico, che ha provocato ingenti periodi di siccità, che hanno compromesso i raccolti. La distribuzione degli 868 milioni di persone che soffrono la fame si concentra per 852 milioni nei paesi in via di sviluppo ed ammonta al 15% della popolazione totale, mentre la cifra restante, 16 milioni, si trovano nei paesi sviluppati. Geograficamente sono tre le zone dove si concentra la maggior parte delle persone denutrite: 304 milioni in Asia meridionale, 234 milioni nell'Africa sub sahariana e 167 milioni in Asia orientale, per un totale di 705 milioni di persone. Compiendo delle valutazioni relative al numero complessivo di popolazione, in Africa si rilevano le condizioni più critiche. Da non sottovalutare anche l'impatto dei conflitti sulla situazione della fame: sia guerre che si trascinano da tempo, che nuove emergenze che si sono verificate a causa dell'espansione del fondamentalismo, hanno spesso portato, tra le varie conseguenze anche la difficoltà all'approvigionamento alimentare per le popolazioni coinvolte. La FAO, nelle sue considerazioni per risolvere almeno in parte il problema, pone l'accento sulla necessità di una crescita selettiva, che, cioè, non sia prerogativa principale dei paesi ricchi, ma che interessi principalmente le nazioni dove è maggiore la concentrazione dei poveri, per essere tradotta in un miglioramento tangibile della qualità e della quantità dell'alimentazione. Per favorire questo aspetto è necessario agire per favorire la crescita agricola intesa come strumento principale nella lotta alla fame, non in maniera generica ma rendendola sempre più sofisticata per ottenere, oltre ad una maggiore qualità del cibo, anche una differenziazione degli alimenti, sia in chiave di arricchimento della dieta, che in chiave di diversificazione delle scorte, per fronteggiare aspetti quali le calamità naturali.
lunedì 8 ottobre 2012
Il pericoloso destino dell'Afghanistan
Secondo un recente rapporto dell'istituto di studi dell'organizzazione International Crisi Groupe il destino cui si sta dirigendo l'Afghanistan, dopo la partenza definitiva delle truppe NATO, prevista per il 2014, sarebbe di una acuta crisi politica, con la concreta possibilità di un ritorno dei talebani al potere. I gruppi radicali islamici hanno già governato il paese dal 1996 al 2001 e non sono mai stati del tutto sconfitti, nonostante lo spiegamento delle truppe dell'Alleanza Atlantica. Il governo afghano non è riuscito ancora ad esercitare completamente la sua autorità sull'intero territorio nazionale, dove sfuggono intere zone al suo controllo, grazie al profondo radicamento delle milizie islamiche. Lo stato di precaria stabilità dello stato è dovuto alla fragilità delle sue istituzioni, che sono spesso frutto di elezioni contraddistinte da un elevato numero di brogli; inoltre la preparazione dell'esercito e della polizia locali viene ritenuta insufficiente per il mantenimento dell'ordine pubblico e della minaccia del terrorismo, senza la protezione delle truppe della NATO. Nei ceti dirigenti e nelle istituzioni preposte, malgrado ci sia la consapevolezza delle tante difficoltà, non si ravvisano decisioni atte a risolvere i problemi connessi con l'organizzazione dello stato in modo da elaborare una strategia adeguata al momento della conclusione della missione internazionale. Anche il presidente Karzai, pare più propenso ad assicurare il potere al suo clan che ad aumentare la credibilità del sistema politico. Con queste premesse pare francamente impossibile scongiurare il ritorno dei Talebani al potere, ma per il panorama internazionale tale esito riaprirebbe scenari non auspicabili. A parte una situazione interna, seppure già molto difficile, destinata a peggiorare notevolmente, l'Afghanistan potrebbe diventare una centrale del terrorismo internazionale di matrice islamica capace di ridare slancio alla guerra santa contro l'occidente. Se pare ormai impossibile mantenere l'ingente quantitativo di truppe presenti, sia per ragioni politiche che economiche, abbandonare del tutto il governo afghano, sebbene in un tale contesto di corruzione e forse anche di incapacità politica, potrebbe rivelarsi letale, non solo per l'occidente ma anche per Russia e Cina. Certo molto dipenderà dal destino dell'Iran, ma se l'assetto politico attuale di Teheran non dovesse variare, potrebbe andarsi a costituire un blocco di territorio formato da Iran, Afghanistan e Pakistan, dove, senza soluzione di continuità, la presenza del fondamentalismo islamico sarebbe preponderante. Resta da vedere se sarà sufficiente la presenza degli istruttori militari e dei droni, destinati a combattere dal cielo le formazioni talebane. Questa soluzione di ripiego non pare sufficiente a riempire il vuoto, non solo militare, che si verrà a creare con la partenza della NATO. Forse il lato ancora peggiore sarà la partenza delle tante organizzazioni umanitarie, che senza l'adeguata protezione, non potranno più operare dando sollievo a contesti sociali di estrema difficoltà e la cui opera contribuiva non poco a cambiare la cultura delle popolazioni, permettendogli una maggiore apertura e contrasto verso pratiche di sottomissione vecchie di millenni. E' infatti impensabile che possa continuare quell'opera intrapresa a fianco delle attività militari, che mirava ad allargare l'istruzione e le cure mediche a quelle parti di tessuto sociale fortemente condizionate dalla miseria e dalla repressione religiosa, con la sola protezione delle forze armate locali e dei droni di Washington. La questione non è di poco conto e se è giusto che non siano solo gli USA, attraverso la NATO, a farsi carico del problema, è altrettanto corretto che la questione venga presa in carico dalla comunità internazionale, con l'ONU in primo piano, per scongiurare ed evitare l'abbandono di una nazione tanto martoriata, che ha fatto qualche progresso con costi altissimi e che rischia che tutto questo venga vanificato dal ritorno di forze oscurantiste.
Romney torna sulla politica estera
Mitt Romney cerca di recuperare sul terreno in cui è più debole: la politica estera. Nonostante la risalita nei sondaggi, dovuta alla buona prestazione nel confronto diretto con il presidente uscente, il 46% degli elettori statunitensi pensa che Obama sarebbe più competente sulla materia internazionale, rispetto al 40% che da maggiore credito a Romney. Rispetto al dato di luglio, che vedeva un vantaggio per il presidente in carica del 47% rispetto al 39% dello sfidante, vi è stata una notevole crescita, che, però non è stata ancora sufficiente a colmare il considerevole svantaggio. Romney paga questa considerazione inferiore, per dichiarazioni estemporanee, che ne hanno fatto comprendere la scarsa preparazione sui fatti internazionali e diplomatici. Tuttavia il lavoro dello staff e gli ultimi accadimenti legati agli attacchi alle sedi diplomatiche americane, seguite al film su Maometto, hanno rilanciato lo sfidante alla presidenza USA, anche in questo campo. Romney ha così sferrato un attacco frontale contro la politica improntata alla prudenza di Obama, accusandolo di passività di fronte agli atti anti americani che sono avvenuti. Lo sfidante repubblicano ha proposto una ricetta che preveda un maggiore interventismo militare come risposta agli atti ostili verso gli Stati Uniti, frutto di una sottovalutazione del peso sempre più crescente del terrorismo islamico. Il punto debole della politica di Obama, secondo Romney, è l'eccessivo attendismo di una stabilizzazione, che senza un consistente aiuto americano non può verificarsi. E' chiaro che è una concezione dei rapporti con gli stati che sono usciti dalle primavere arabe diametralmente opposta a quella fin qui praticata da Obama, il quale ha preferito un profilo più basso proprio per non incorrere nel luogo comune che di solito vede l'azione americana come imperialista. Certamente i fatti seguiti alla diffusione del film su Maometto hanno favorito una presa di posizione che può fare breccia in certi ambienti della destra americana, fornendo gli indecisi a recarsi alle urne un argomento sempre convincente. Del resto, un'altra proposta di Romney tornata attuale è l'aumento del budget destinato alle spese militari e la questione israeliana con l'Iran, dove le soluzione dello sfidante collima con quella del presidente Netanyahu e cioè attaccare Teheran. Questi segnali non possono che essere letti come preoccupanti, in questo momento, pur con tutti i distinguo del caso, è senz'altro preferibile un presidente come Obama capace di gestire in modo più pacato anche altre situazione come il rapporto con la Russia e quello con la Cina, per ora tenuti sotto controllo grazie ad una intensa attività di mediazione, che non pare nelle capacità e nelle intenzioni di Romney. L'attuale fase storica non ha certo bisogno di persone al potere come il candidato repubblicano, che nonostante abbia migliorato nell'esposizione, resta un convinto assertore dell'affermazione degli USA come prima potenza mondiale in maniera dichiarata, cosa che Obama, pur continuando a perseguire nei fatti, evita accuratamente di ostentare.
venerdì 5 ottobre 2012
La Francia rilancia la collaborazione tra i paesi del Mediterraneo
Una delle soluzioni proposte durante la primavera araba, per affiancare le nascenti democrazie della sponda sud del Mediterraneo, dall'allora in carica presidente francese, Sarkozy, era quella di rilanciare l'idea di una organizzazione sovranazionale dei paesi del Mediterraneo, che potesse avviare progetti di collaborazione tra gli stati, sia in campo politico, che economico, che militare, che di aiuti alla formazione, per instaurare un rapporto che assicurasse la stabilità dei paesi affacciati sulle rispettive sponde del bacino. L'idea era poi decaduta per lo sviluppo, anche tragico, che le rivoluzioni dei paesi arabi avevano preso, sopratutto a seguito dell'intervento della coalizione dei volenterosi in Libia. Ma la creazione di una forma di unione tra i paesi del Mediterraneo deve essere una costante trasversale nel mondo politico francese se anche l'attuale presidente della repubblica, Hollande, la rilancia con grande convinzione. Nel prossimo vertice che si terrà a La Valletta, la Francia punta molto ad intensificare la collaborazione tra i cinque paesi della UE (Francia, Spagna, Italia, Malta, Portogallo) ed i cinque Maghreb (Algeria, Libia, Mauritania, Marocco, Tunisia), che saranno presenti. Questa formula, definita dei 5+5, ricalca lo schema in voga negli anni ottanta del secolo scorso, che prevedeva riunioni periodiche, sebbene informali, che permettevano uno scambi di idee ed un rapporto continuo tra paesi culturalmente molto distanti. L'evoluzione della situazione politica internazionale aveva fermato questi incontri al 2003, interrompendo una consuetudine che aveva instaurato un canale di comunicazione, che talvolta aveva rappresentato l'unico strumento semi ufficiale di confronto, troncando quindi una via sempre disponibile ed aperta. La variazione degli assetti politici seguiti alle primavere arabe ha determinato la necessità di ripristinare quei canali privilegiati, sopratutto diplomatici, che possono permettere una collaborazione comune alla definizione ed alla possibile risoluzione di quelle problematiche che possono riguardare le nazioni che si affacciano e si dividono il mare Mediterraneo. Non sappiamo se l'idea, prima di Sarkozy, ed ora di Hollande, parta da una reale presa di coscienza dell'importanza dello strumento o se costituisca una volontà di riaffermazione della politica francese, ultimamente un poco in ribasso, sul panorama internazionale, resta però il fatto che l'idea è senz'altro positiva e l'enfasi e la pubblicità che ne da l'Eliseo, a differenza di altre cancellerie pure coinvolte, testimonia che Parigi vuole essere il motore trainante di questa soluzione. Certo le condizioni in cui questa collaborazione dovrà svilupparsi non sono delle migliori: la crisi economica mondiale e quella dell'euro in particolare, non favoriscono certo l'assunzione di progetti troppo ambiziosi da parte dei paesi della UE, tuttavia, e non a torto, la presenza dei paesi del Maghreb, è ritenuta un punto di partenza incoraggiante. La politica di collaborazione dovrà partire da obiettivi minimi che, se funzionanti, permettano poi una collaborazione sempre maggiore. Non per niente si punta molto sulla formazione, tra cui è molto rilevante una sorta di progetto Erasmus del Mediterraneo, che punti ad uno scambio continuo tra gli studenti delle rispettive sponde, in una sorta di contaminazione culturale che favorisca il dialogo senza interruzioni. Ma il Progetto Mediterraneo ha ben altre ambizioni, dettate dalla necessità di regolare fenomeni non più sostenibili dai paesi delle due rive per motivi che sono complementari. Il controllo dell'immigrazione è uno degli aspetti comuni più rilevanti, perchè va ad innestarsi sulla necessità dello sviluppo dei paesi costieri della sponda meridionale, a questo proposito si è pensato all'intensificazione di progetti riguardanti le energie alternative per arrivare alla difesa ed alla sicurezza, dove è necessaria una stretta e continua collaborazione, sopratutto in relazione alla sempre crescente minaccia rappresentata del terrorismo islamico. Inutile dire che esistono obiettivi ancora più ambiziosi come il coinvolgimento della questione israelo palestinese, dove la diplomazia europea, se appoggiata da quella dei paesi arabi può giocare un ruolo importante, anche in ottica di possibile risoluzione dell'annoso problema. Uno dei fini ultimi di questo progetto potrebbe essere la costituzione della regione mediterranea, come organismo indipendente capace di sviluppare forme continue di collaborazione, all'interno di un proprio perimetro definito anche da leggi e regolamenti condivise, che potrebbe essere una anticamera ad un allargamento dell'Unione Europea anche a paesi tradizionalmente considerati fuori dal vecchio continente. Un processo certamente pieno di incognite e di ostacoli e magari inattuabile, che, tuttavia, potrebbe essere avviato con forme di integrazione studiate in maniera specifica, ma sempre con l'intento di favorire una maggiore integrazione, intesa come antidoto all'isolamento vera causa di contrasti tra le nazioni.
giovedì 4 ottobre 2012
La Turchia coinvolge la NATO sulla Siria
L'attacco siriano contro il territorio turco, che ha causato la morte di cinque civili, ha provocato la decisione della NATO di esprimere formalmente il proprio sostegno alla Turchia, che come paese membro dell'Alleanza Atlantica in situazione di pericolo può avvalersi dell'appoggio militare dell'organizzazione con sede a Bruxelles.
La decisione potrebbe costituire la giustificazione dell'intervento sul territorio siriano, tanto invocata dai ribelli, da parte di forze straniere, eludendo il veto del Consiglio di sicurezza dell'ONU, esercitato rigidamente da Cina e Russia. Gli ambasciatori dei 28 paesi che aderiscono alla NATO, in riunione di emergenza, hanno affermato in maniera univoca, che Damasco sta esercitando chiare violazioni del diritto internazionale nei confronti di un loro alleato. Tale dichiarazione potrebbe costituire il preludio a forme di intervento attive nei confronti della Siria. I piani militari delle armate di Assad, nei confronti del vicino turco, rientrano nella volontà di fermare il flusso dei profughi che fuggono oltre frontiera ed al contempo contrastare le basi dei ribelli presenti sul territorio turco. Gli episodi conflittuali tra i due stati, da quando è cominciata la guerra civile siriana, non sono infrequenti, prima dell'ultimo episodio, il caso più rilevante era stato l'abbattimento di un aereo militare turco da parte della contraerea di Damasco. Ma questa volta la risposta all'atto ostile siriano non è stata soltanto diplomatica, infatti l'esercito turco ha bombardato il territorio della Siria, in risposta al razzo caduto entro i propri confini. Appellandosi all'articolo numero cinque del Trattato Nord Atlantico, che prevede la difesa collettiva contro un attacco a uno dei suoi membri, la Turchia costringe la NATO, finora in una posizione di secondo piano nella vicenda siriana, ad esporsi in maniera definita. Per gli USA questo fatto potrebbe essere l'opportunità per intervenire per porre fine ai massacri, azione che sarebbe da tempo nelle intenzioni di Washington, da percorrere però, non come una iniziativa singola degli Stati Uniti, ma di concerto con altre potenze e meglio se con l'approvazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, stante il perdurare dei veti di Mosca e Pechino nella sede del Consiglio di sicurezza, anche un copertura di ripiego, ma sempre importante e sopratutto sovranazionale, come quella della NATO potrebbe giustificare l'intervento militare. Occorre però considerare come si vorrà intendere, sempre nel caso si decida per una azione armata, l'applicazione dell'articolo cinque del patto atlantico. Se verrà optato per una azione limitata alla difesa del suolo turco senza l'invasione di quello siriano, questa si concretizzerà con azioni di contenimento delle forze fedeli ad Assad, l'intervento, cioè, non sarà di una portata tale da alterare l'equilibrio delle forze, lasciando al governo in carica a Damasco notevoli opportunità di potere continuare la sua lotta da un punto di forza maggiore delle forze ribelli. Se si sceglierà questa strada sarà ritenuto politicamente più conveniente non complicare le relazioni con Cina e Russia, per non alterare situazioni diplomatiche già difficili, che potrebbero creare complicazioni di politica internazionale ad Obama nella occasione delle imminenti elezioni presidenziali USA. Viceversa, se si vorrà applicare una lettura ed una applicazione estensiva del già citato articolo cinque, si dovrà fornire una lettura della situazione che ritenga la permanenza al potere di Assad come un pericolo per lo stato turco in modo da giustificare un più massiccio impiego della forza. Questo avrebbe come obiettivo, oltre alla fine della guerra civile, il favorire l'insediamento al potere di quei gruppi con una maggiore inclinazione di simpatia verso il mondo occidentale, anche tenendo conto delle evoluzioni politiche con derive verso forze confessionali islamiche, che si sono verificate nelle precedenti primavere arabe. Questo aspetto è uno dei motivi di maggiore analisi e titubanza da parte degli Stati Uniti, che se da un lato devono impedire la vittoria di Assad, per scongiurare un paese al confine con Israele praticamente sotto il controllo iraniano, non hanno ancora chiaro come sia l'assetto delle forze ribelli, che costituiscono un coacervo di tendenze, che in caso di vittoria, si ritiene difficile mettere d'accordo, con potenziali ulteriori sviluppi di conflitto. Tuttavia pare poco credibile che la Turchia voglia avere ancora al proprio confine una tale situazione di instabilità; l'esercito turco è sufficientemente forte da battere quello siriano, che seppure bene armato, si trova a fronteggiare una guerra civile. Se Ankara dovesse decidere anche in modo unilaterale di dare il via alle operazioni, per la NATO sarebbe impossibile chiamarsi fuori, ma per gli USA ed in generale per l'occidente si potrebbero aprire una serie di difficoltà diplomatiche di non poco conto.
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