Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 8 marzo 2013
Israele teme il coinvolgimento nella guerra di Siria
Il rapimento di ventuno soldati, di nazionalità filippina, delle Nazioni Unite, impegnati come osservatori nella zona neutrale posta sulle alture del Golan, da parte di ribelli siriani, probabilmente appartenenti a formazioni jihadiste, non vedrà l'intervento di Israele. A Tel Aviv vi è la concreta paura di essere trascinati nel conflitto siriano e che ogni occasione possa essere propizia per questo obiettivo, perseguito dalle milizie islamiche, facenti parte dell'eterogenea formazione che compone i ribelli di Assad. In realtà, dietro questa volonta di coinvolgimento del paese israeliano vi sarebbero Hezbollah, parti del governo di Damasco ed in ultima analisi l'Iran. I primi sono interessati ad impossessarsi dell'arsenale di Assad ed avrebbero maggiore vantaggio nello spostamento degli ordigni, in una situazione di confusione, dove l'esercito israeliano dovrebbe concentrarsi maggiormente sulla difesa della propria zona di confine. Assad, che ha potuto resistere fino ad ora solo grazie alle profonde divisioni tra i suoi oppositori, con un entrata in scena di Israele, potrebbe guadagnare tempo e sopratutto la minore pressione mediatica destinata alle forze armate con la stella di David. A Damasco non credono, nel caso si verifichi questa eventualità, che Tel Aviv abbia interesse a penetrare in territorio siriano, ma l'azione per difendere il proprio territorio, anche a danno della parte ribelle facente capo all'estremismo islamico, potrebbe, invece fare guadagnare terreno alle forze regolari. Infine per l'Iran ogni occasione è considerata positiva per portare scompiglio e destabilizzazione nel campo del nemico principale. Nell'ottica di queste considerazioni si può ipotizzare che il rapimento dei soldati ONU, possa rientrare in una precisa strategia per provocare Israele; infatti, se si guarda lo svolgimento dei combattimenti, la mossa sarebbe stata più funzionale all'esercito regolare come arma di ricatto verso le Nazioni Unite, i ribelli, viceversa, non pare possano trarre vantaggio alcuno da questo sequestro. Il fatto che l'episodio, poi , sia avvenuto proprio verso il confine israeliano, poteva fare ipotizzare una azione dell'esercito di Tel Aviv, già abbondantemente schierato sulle alture del Golan, per evitare ulteriori episodi di violenza così vicino al territorio nazionale. Tuttavia la dichiarazione del ministro degli esteri, che ha descritto l'episodio come una questione tra governo siriano e Nazioni Unite, pare troncare ogni speranza di collaborazione. Tuttavia la realtà è che i combattimenti si stanno avvicinando sempre più alla linea di confine, Tel Aviv è già dovuta intervenire in precedenza per scoraggiare pericolosi sconfinamenti delle azioni belliche, ma sopratutto teme intrusioni mascherate, ma in realtà dirette proprio contro Israele. Per lo stato israeliano la guerra siriana è stata da subito fonte di preoccupazione proprio in ragione del timore dell'azione di gruppi islamici radicali. Non è, cioè, la situazione della Turchia che si trova altrettanto sul confine siriano e che è preoccupata sia per i profughi che per i colpi arrivati accidentalmente sul proprio territorio. Per lo stato israeliano il pericolo è non riuscire a controllare i traffici di armi e scivolare dentro un conflitto tenuto sempre alla larga. L'ingresso in campo di forze armate israeliane in territorio siriano avrebbe, infatti, una eco enorme nei paesi musulmani in un momento delicato per il paese a causa del perdurare della questione dell'atomica iraniana. In questo momento per Israele è importante mantenere un basso profilo nei problemi regionali, avendo in sospeso, sopratutto con gli USA il dilemma dell'attacco preventivo contro Teheran. Washington una volta tanto, pare in accordo sulla posizione israeliana, tuttavia se i combattimenti dovessero arrivare troppo vicino al territorio del paese, le forze armate sarebbero costrette a preservare la sicurezza nazionale, in quel caso dovrà muoversi con la massima cautela.
La Corea del Nord tra sanzioni e minacce
Il regime nordcoreano ha imboccato una china da cui non sembra trovare una via d'uscita. Dopo l'esperimento nucleare, che ha provocato anche il peggioramento dei rapporti con la Cina, gli USA si sono fatti promotori di una nuova tornata di sanzioni, che getteranno il paese asiatico in uno situazione molto difficile da gestire. Pyongyang ritiene Washington e Seul i veri responsabili del giro di vite a cui è sottoposta ed anzichè mitigare la propria posizione sugli armamenti nucleari, ad esempio con la firma di una moratoria, passa alla fase estrema delle minacce. Il pericolo di un bombardamento nucleare sul territorio americano, pur da non sottovalutare, rappresenta una minaccia veramente remota per l'apparato statunitense, capace senz'altro di neutralizzare un missile, forse neppure in grado di raggiungere il bersaglio. Più allarmante, invece, è l'atteggiamento tenuto verso la Corea del Sud, in ragione dello stato giuridico vigente tra i due paesi, che è soltanto quello di un armistizio, seguito alla guerra di sessanta anni fa, a cui non è mai seguito un trattato di pace formale. La chiusura delle frontiere comuni da parte di Pyongyang, rappresenta un primo irrigidimento, che precede con allarme le manovre militari, previste per la prossima settimana, da parte di tutto l'apparato militare, in forma congiunta. Parlare di pericolo nella regione è quindi riduttivo, nonostante alcuni analisti ritengano la situazione attuale meno grave, rispetto a quella del 2010, quando la Corea del Nord, in risposta ad una supposta provocazione della marina militare di Seul, bombardò l'isola di Yeongpyeong, provocando quattro morti, la tensione tra i due paesi è palpabile ed un possibile gesto sconsiderato sfuggito al controllo di rispettivi schieramenti, potrebbe innescare incidenti molto gravi. Da verificare, poi, il possibile riposizionamento di Pyongyang nello scacchiere internazionale. Con la Cina particolarmente irrigidita nei suoi confronti, non è escluso che la Corea del Nord cerchi sponde verso paesi tradizionalmente nemici degli Stati Uniti. In questo momento è impossibile non pensare che Pyongyang ha molti punti in comune con Teheran, proprio a causa delle rispettive politiche sugli armamenti nucleari. In questo momento la Corea del Nord sarebbe più avanti nella tecnologia militare atomica e ciò potrebbe rappresentare fonte di grande interesse per l'Iran, che ha come merce di scambio la sua produzione petrolifera. Il pericolo della creazione di un mercato della tecnologia nucleare, in realtà è preso in grande considerazione da Washington, che ha introdotto tra le varie misure sanzionatorie l'ispezione delle navi nordcoreane in uscita dal paese. Questa misura ha fortemente irritato Pyongyang, che, oltre a vedere lesa la propria sovranità, potrebbe vedere stroncato qualche traffico con cui rompere l'embargo di cui è vittima. Proprio la tecnologia nucleare sarebbe la merce più preziosa che la Corea del Nord potrebbe immettere sul mercato e, che, se trovata in uscita dai confini nazionali, andrebbe a rappresentare una prova ulteriore del suo avanzato stato di conoscenza nel campo della costruzione della bomba atomica, peraltro mai smentita.
mercoledì 6 marzo 2013
Per gli USA appoggio condizionato ad Israele
Le dichiarazioni del vicepresidente americano, Joe Biden, che ha ribadito il profondo impegno statunitense verso Israele, pur essendo vere in assoluto devono essere lette, in linguaggio diplomatico, come un avvertimento ad Israele, affinchè Tel Aviv non si produca in atti che possono minare il rapporto con Washington. Biden ha messo in guardia l'opinione pubblica contro i tentativi di screditare Israele da parte degli USA ed ha sottolineato come Obama sia il stato il presidente che abbia fatto di più per assicurare una sicurezza fisica allo stato israeliano. Questa frase si può leggere con una doppia interpretazione: Obama ha protetto Israele dai nemici ma anche da se stesso. In effetti l'avere insistito fino ad ora in una politica diplomatica, perseguita attraverso le sanzioni, nei confronti della minaccia iraniana, ha scongiurato una guerra pericolosa, che, peraltro, il governo di Tel Aviv, voleva e vuole ancora intraprendere. Le parole di Biden servono ad avvertire Netanyahu a non scegliere l'opzione militare in maniera singola, obbligando gli Stati Uniti ad un intervento in un secondo tempo. Il nervosismo crescente che sta montando nel paese israeliano, tra l'altro alle prese con serie difficoltà nella formazione del governo, non lascia il governo di Washington tranquillo; Netanyahu, anche dopo la campagna elettorale, ha chiesto agli USA di lasciare la strategia diplomatica, che non ha dato frutti apprezzabili, per sostenere Israele in caso di attacco. I segnali che provengono da Tel Aviv, lasciano intendere, che l'opzione militare contro Teheran possa essere relativamente vicina, nonostante la contrarietà americana e quella in corso, tra USA ed Israele, sia una trattativa molto tesa, dove gli interessi dei due paesi non sono affatto coincidenti. Per Tel Aviv, sostenuto in questo dalla maggioranza della popolazione israeliana, l'Iran non è ancora giunto alla costruzione finale della bomba atomico, ma proprio per questo deve essere attaccato prima che riesca a diventare una potenza nucleare. La sensazione è che Israele sia letteralmente in preda al panico e possa compiere un atto, che potrebbe rivelarsi sconsiderato, per troppa precipitazione; quello che non sembra vengano considerate a Tel Aviv sono le conseguenze irreparabili di un eventuale attacco al paese iraniano, con una, inevitabile sollevazione delle popolazioni musulmane, probabilmente anche quelle sunnite, in un susseguirsi di crisi diplomatiche continue, oltre alle inevitabili ritorsioni militari, che potrebbero aprire un periodo, anche lungo, di guerra, in una regione cruciale per la stabilità mondiale. Viceversa gli USA, più che l'attacco agli impianti iraniani, temono proprio le conseguenze, che almeno in parte, sarebbero chiamati a gestire. Un impegno gravoso non certo gradito ad Obama, alle prese con difficili problemi di natura interna e con altre questioni internazionali impellenti. Vi è anche l'ipotesi che gli Stati Uniti ritengano gestibile anche uno scenario che preveda Teheran dotato dell'arma nucleare. I mezzi di controllo satellitari e la difesa elettronica ed antimissilistica, supportata dalla tecnologia dei droni, potrebbe assicurare ad Israele un assetto difensivo sufficientemente sicuro, stimato meno costoso di una guerra diretta. Proprio questa possibilità è quella che più inquieta Netanyahu, costretto a vedere Israele sotto la costante minaccia dell'atomica iraniana. Questa è, dunque, la panoramica in cui vanno inquadrate le parole di Biden, un avvertimento chiaro a Tel Aviv per quanto riguarda la fedeltà verso lo stato di Israele, ma allo stesso tempo la contrarietà ad azioni non ponderate e sopratutto non concordate.
martedì 5 marzo 2013
In Africa sei milioni di persone sono colpite dalla carestia
Un rapporto del Comitato della Croce Rossa Internazionale segnala che più di sei milioni di persone sono investite da una carestia, che ha comportato una carenza di cibo notevole, dovuta ad un insieme di fattori metereologici combinati assieme, come cicli di intesa siccità ed inondazioni. I paesi colpiti sono Angola, Lesotho, Malawi e lo Zimbabwe. Le avverse condizioni metereologiche, distribuite su periodi differenti, hanno pregiudicato i raccolti, creando gravi danni ai terreni agricoli, danneggiato l'allevamento e creando condizioni igieniche precarie per la scarsità di acqua potabile e per la pulizia delle popolazioni colpite. Nel Lesotho la crisi riguarda il 40% della popolazione, circa 725.000 persone, ma valori assoluti ancora maggiori riguardano lo Zimbabwe con 1,6 milioni di persone, l'Angola con 1,8 milioni ed il Malawi addirittura con 2 milioni di persone alle prese con il problema della fame. Ancora più problematico il dato che riguarda la denutrizione dei bambini, che in tutti e quattro i paesi ha superato, grazie allo stato di crisi, il 50% dell'intera popolazione infantile, rispetto ai dati dello scorso anno, parallelamente al peggioramento della situazione alimentare risulta aumentato, come logico, il tasso delle malattie, sia nella popolazione sotto i dieci anni, che, più in generale, in tutte le fasce d'età. La diffusione di malattie contagiose, come colera, malaria e quelle relative ai disturbi intestinali, sta diventando un dato comune nel tessuto sociale di questi paesi, andando a pregiudicare una situazione già compromessa dall'abbassamento delle difese immunitarie dovuto all'alimentazione incompleta. Anche nel quadro della lotta all'AIDS, malattia molto diffusa nel continente africano, la situazione di carenza alimentare non fa che regredire i piccoli progressi raggiunti; nel Lesotho vi è la situazione più grave con il 23,2% dell'intera popolazione colpita dal virus dell'HIV. Ancora una volta le organizzazioni internazionali ed i governi dei maggiori paesi del mondo, non affrontano in maniera adeguata una situazione, che, a parte i puri risvolti umanitari, rappresenta una bomba ad orologeria per l'equilibrio continentale con riflessi anche su quello mondiale. Non viene, infatti considerato, che il germe del fondamentalismo islamico, riesce ad attecchire meglio in una situazione degradata e che le tragiche migrazioni a cui i popoli africani si sottopongono, sono causate da condizioni di vita insopportabili. La Croce Rossa Internazionale, spesso isolata insieme ad altre associazioni di volontari nel combattere questo scenario apocalittico, ha denunciato come il flusso dei finanziamenti, per fare fronte all'emergenza, venga rilasciato con lentezza esasperante e frazionato in maniera eccessiva e comunque tale da impedire a fare fronte alle emergenze più immediate. Senza uno sforzo concreto e coordinato proveniente dalla parte più ricca del pianeta sarà impossibile mettere fine a questa stato di cose. Inoltre manca anche una visione più ampia che sappia programmare il dopo emergenza, se mai ci sarà, con un aiuto che fornisca un futuro concreto alle popolazioni nei loro territori. Si tratta di pensare e costruire infrastrutture capaci di prevenire le catastrofi naturali e, nel contempo, ovviare alla cronica carenza di acqua tramite dissalatori ed impianti che possano permettere la costituzione di adeguate riserve idriche, in grado di assicurare la necessaria irrigazione dei terreni coltivati e del fabbisogno di acqua potabile. Non si comprende perchè le conferenze internazionali e gli incontri al vertice delle potenze mondiali si preoccupino soltanto per i morti a causa dei conflitti in corso e non diano altrettanta importanza a chi perde la vita per carestie alimentari. Se la preoccupazione è la stabilità regionale che un conflitto può alterare, altrettante conseguenze possono causare la carenza di cibo e di acqua. Forse la realtà è che risolvere una crisi derivante da una guerra da ancora maggiore prestigio e maggiore ritorno economico, che la risoluzione di una carestia; ma questa visione deve essere superata in favore di un approccio più globale e complessivo che sappia mettere sullo stesso piano tutte le emergenze del pianeta; tra l'altro intervenire per risolvere una carestia, spesso, non comporta alcun intervento armato e, quindi, ha un costo economicamente minore.
lunedì 4 marzo 2013
La Cina di fronte al cambio di potere
Quest'anno la sessione annuale del parlamento cinese vedrà la quinta generazione dei leader assumere il potere: dopo Mao Zedong, Deng Xiaoping, Jiang Zemin e Hu Jintao, sarà,infatti, Xi Jinping ad assumere la carica di Presidente, come sancito dal diciottesimo congresso del partito Comunista Cinese del novembre 2012. Il nuovo assetto del potere cinese prende in mano un paese che è fortemente cresciuto sul piano economico, diventando la seconda economia del pianeta, dopo gli USA, ha assunto una maggiore rilevanza nella politica internazionale ed ha rinforzato in maniera sostanziale il proprio apparato militare. Questa crescita però è stata costruita su profonde ineguaglianze sociali, una corruzione sempre più estesa ed un forte inquinamento; inoltre, sul piano internazionale, la Cina si trova ad affrontare questioni legate al suo espansionismo, seppure di tipo prevalentemente economico, che sono relativamente nuove per il paese. Le emergenze più immediate da affrontare sono, però, sul fronte interno: le crescenti tensioni sociali denunciano che il modello economico e sociale, sul quale è stata costruita la crescita economica a doppia cifra, è in via di esaurimento ed una fase recessiva, seppure con percentuali di crescita ragguardevoli se confrontate gli indici asfittici delle economie occidentali, non può garantire le necessarie riforme che possono salvare la Cina da una implosione. L'ultimo dato della crescita dal PIL si è attestato al 7,8%, il dato più basso degli ultimi tredici anni e senza adeguati correttivi pare destinato ad attestarsi, secondo le stime più pessimistiche, intorno al 5%. In presenza di questi valori pare impossibile operare le riforme tese a ridurre le grandi ineguaglianze presenti nel territorio cinese, fonti di forti tensioni sociali e pericolosa instabilità interna. Secondo gli analisti il nuovo esecutivo dovrà produrre dei provvedimenti in grado di effettuare una decisa redistribuzione della ricchezza nazionale attraverso la lotta alla corruzione, sopratutto nelle periferie dello stato, la ristrutturazione radicale dell'apparato statale, rendendo più snella e meno invasiva una burocrazia elefantiaca ed, al contempo, regolare il selvaggio processo di urbanizzazione del paese combinandolo con la prevenzione dell'eccessiva migrazione interna, praticata da una massa ingente di lavoratori, in cerca di migliori condizioni di vita, inesistente nelle regioni di provenienza. Si tratta di un programma ambizioso, che gode del supporto della disponibilità di una grande liquidità finanziaria, ma che si scontra con le resistenze degli apparati di partito e di tutto quel tessuto sociale che ha prosperato, accumulando ricchezze ingentissime, proprio sulle storture che si vuole correggere. I primi provvedimenti dovrebbero riguardare l'aumento del salario minimo per raggiungere l'obiettivo di raddoppiare, entro il 2020, il reddito pro capite sia nelle zone urbane che in quelle rurali. A tal fine è previsto un innalzamento della tassazione sia per le imprese dello stato, che per quelle private. Ma sono necessari anche correttivi di natura legislativa che limitino i privilegi delle imprese di stato, per facilitare l'estensione dell'impresa privata. La direzione è quella di stimolare il mercato interno, che ha potenzialità enormi, per compensare l'atteso arretramento delle esportazioni e, nello stesso tempo, limitare le importazioni. Sarà però impossibile attuare queste riforme senza dare una regolazione meno restrittiva sul tema dei diritti civili e su quelli relativi al lavoro. Pur non nominandoli mai ufficialmente, i vertici politici cinesi sono consci che il tema non è più rimandabile, l'accesso ai media unito con una nuova consapevolezza della gran parte tessuto sociale cinese impone nuove aperture e nuove visioni su questi aspetti, che hanno creato più di un problema allo stato cinese. Appare impensabile che sia sufficiente una azione di diffusione della ricchezza in cambio di una anestesia sulla richiesta dei diritti. Senza una apertura, anche lenta e graduale, la missione che si è dato il nuovo vertice cinese è destinata a fallire sul lungo periodo.
La Cina in difficoltà nelle relazioni con la Corea del Nord
Pechino è sempre più in difficoltà per l'atteggiamento di Pyongyang, che non ha tenuto conto degli avvertimenti cinesi sullo scoppio dell'ordigno nucleare. Per la Cina, praticamente l'unico alleato della Corea del Nord, è venuto il tempo di compiere un esame approfondito che analizzi i pro ed i contro dell'alleanza. Pechino ha sempre ritenuto strategica l'alleanza con la Corea del Nord, per evitare la riunificazione della Corea in un unico stato, che diventerebbe sicuramente un alleato americano direttamente posto sul confine nazionale. L'impressione è che a Pyongyang, consci di questo timore, sfruttino la situazione alzando oltremodo la posta per ottenere dalla Cina maggiori aiuti. Tuttavia l'irritazione di Pechino, che ha aderito alle sanzioni ONU, non deriva tanto dallo sgarbo subito, sopratutto sul piano internazionale, quanto dal timore, che l'esperimento nordcoreano, possa provocare una rincorsa agli armamenti nucleari, per reazione, dei paesi vicini, come Corea del Sud e Giappone. La paura non è del tutto ingiustificata, se Washington non riuscisse a tenere a bada i suoi alleati, la regione diventerebbe una polveriera nucleare, costantemente sull'orlo di un conflitto atomico. Questo scenario sarebbe il peggiore per Pechino, che non cerca altro che la massima stabilità possibile per favorire i suoi traffici economici, punto cruciale della politica cinese. Per il futuro presidente Xi Jinping, che sta per assumere la carica a breve, la questione nordcoreana si presenta subito come un urgente problema da risolvere. La linea cinese, peraltro, è già chiara: all'ambasciatore nordcoreano, convocato d'urgenza a Pechino dopo il test nucleare, è stato espresso il più profondo disappunto e l'invito al ritorno al dialogo. Questa presa di posizione ha fatto pensare, a parte degli analisti, ad una maggiore durezza nei provvedimenti contro Pyongyang, sebbene sganciata dalle proposte americane, ma inquadrata in una logica unilaterale da concretizzarsi in un robusto taglio degli aiuti. Ma questa possibilità non è condivisa da tutti gli esperti: la paura di una reazione imprevista e sconsiderata di un regime messo con le spalle al muro, potrebbe provocare reazioni di segno opposto a quelle volute, mettendo da subito in crisi il modello di stabilità regionale costruito da Pechino. Pyongyang non ha solo lo spauracchio nucleare o le provocazioni militari verso la Corea del Sud, capaci di attirare subito le forze armate USA nella zona, come frecce nel proprio arco, ma possiede anche l'arma dei propri cittadini, costantemente sull'orlo dello stremo per la carenza alimentare, da usare come profughi da indirizzare oltre i confini con la Cina. In ogni caso, rispetto al passato, la Cina ha chiaramente minore influenza sulla Corea del Nord, ed è proprio questo fatto la novità più rilevante portata dall'insediamento del nuovo capo dello stato di Pyongyang, Kim Jong-un, che persegue una politica decisamente ardita nei confronti di Pechino, sfiorando in modo calcolato l'incidente diplomatico, per ottenere di più dalla Repubblica Popolare Cinese. Queste pressioni non sono bene accolte dall'opinione pubblica cinese, che a differenza del paludato mondo delle istituzioni, caratterizzato da un silenzio di prammatica, sono espresse dai quotidiani del partito ed, in generale, dalla stampa ufficiale cinese. Quello che viene evidenziato è che il rapporto privilegiato tra i due stati può continuare soltanto se entrambe le parti lo vogliono, ed in questo momento l'atteggiamento della Corea del Nord non sembra andare in quella direzione. Si tratta di posizioni praticamente ufficiali che manifestano un disagio profondo per una situazione vissuta come se la Cina fosse ostaggio della Corea del Nord, sia dal punto di vista politico che della sicurezza nazionale. A ciò vanno aggiunti lo stato d'animo di Washington, che teme lo sviluppo di un mercato pericoloso del materiale e della tecnologia atomica nel mondo, proprio da parte di Pyongyang e l'aumento delle posizioni nel parlamento sudcoreano in favore dell'abbandono del trattato di no proliferazione nucleare per avviare un programma militare atomico che consenta il contrasto della potenza atomica nordcoreana. Questo è il quadro della situazione al momento, l'effettivo insediamento del nuovo presidente cinese dirà quali saranno i prossimi sviluppi.
giovedì 28 febbraio 2013
Italia: il risultato elettorale indica all'Europa la fine della politica del rigore
Al non equivocabile segnale proveniente dalle elezioni italiane, si è aggiunta la relazione dei servizi segreti di Roma, che intravedono nell'attuale situazione economica, forti potenziali pericoli derivanti da una instabilità sociale sempre più evidente. Sono principalmente questi gli effetti della recessione imposta dal metodo tedesco: una austerità ed un rigore portato ad un grado di estremizzazione ormai insostenibile, sia dalle famiglie, che dalle imprese. Mentre in Europa si faceva finta di niente, grazie all'opera del governo tecnico italiano, che forniva risultati macro economici positivi, grazie alla compressione dei valori micro economici relativi alle parti più deboli del tessuto sociale italiano mentre la condizione della Grecia continuava ad essere snobbata in ragione della sua minore importanza, Bruxelles continuava a subire il dettato tedesco sull'economia continentale. Anche il malessere spagnolo e perfino quello francese venivano sottovalutati ampiamente in ragione dei buoni risultati del socio forte dell'Unione Europea. Tuttavia, se le elezioni di Parigi hanno portato una composizione di governo non molto gradita, ma comunque in grado di assicurare una stabilità adeguata, quello uscito dalle urne italiane è un risultato che rischia di contagiare tutto il continente, sia per la stabilità dei mercati, che per quella sociale. Nella Commissione europea inizia così ad incrinarsi la convinzione che l'impostazione così fortemente incentrata sul rigore abbia bisogno di qualche correttivo. Parigi, che con Hollande al governo non è più in sintonia con la Merkel come con Sarkozy presidente della repubblica, intende chiedere alla UE l'elaborazione di un nuovo modello economico, fondato su minor rigore e maggiore crescita, ma deve scontrarsi con una Germania, che, per la verità, pare sempre più isolata, convinta che l'area euro non è affatto uscita dall'emergenza. Questo è vero però solo in parte, nel senso che l'emergenza della moneta unica pare un ottimo pretesto da asservire alla commercializzazione dei prodotti tedeschi e non al reale interesse dell'Europa nel suo complesso, che, anzi, soffre proprio la stretta creditizia per sviluppare le economie degli altri stati membri, esclusa la Germania. La sensazione dominante nel vecchio continente è che dopo l'unificazione dei due stati tedeschi a seguito della caduta del muro di Berlino, pagata dall'unione europea, ora la Germania scarichi sugli altri stati, da un punto di forza particolare, i costi della propria inefficienza produttiva. La figura peggiore è però quella di Bruxelles, che risulta appiattita in maniera quasi servile alla politica tedesca ed ora, di fronte all'evidenza del fallimento della politica improntata all'eccessivo rigore, non sappia come cambiare rotta. Le previsioni economiche continuano ad evidenziare per la zona euro una piena recessione, chiaro segnale che la politica attuata fino ad ora è stata errata e può essere corretta soltanto con robusti provvedimenti destinati a stimolare la crescita, soluzioni non gradite a Berlino. Sulla sincerità europeista di Angela Merkel i dubbi sono ora più di uno: schiacciata dall'urgenza della prossima consultazione elettorale e dal soddisfare un tessuto produttivo che ha il suo maggiore sviluppo proprio in Europa e che quindi non è interessato a vedere crescere i concorrenti all'interno del suo mercato di riferimento, la cancelliera si arrocca sulle solite posizioni di estrema austerità che impongono soltanto sacrifici ai cittadini degli altri stati, senza però dare in cambio nulla, questo atteggiamento tedesco è stato individuato come un freno ad un maggiore contributo che Berlino potrebbe e dovrebbe fornire alla causa europea. La speranza di molti analisti era che arrivasse al potere in Italia un partito europeista ma capace di creare una alleanza, con Parigi e Madrid, in grado di controbilanciare il potere di Berlino. Il risultato di Roma, ancorchè negativo, risulta funzionale alla strategia di Hollande della necessità della crescita nel continente ed avvera per la Germania i suoi peggiori timori. Il governo tedesco sperava in una riconferma di Monti, che ha attuato come un soldato i dettami di Berlino, diventando il migliore alleato delle politiche economiche tedesche, tuttavia anche una vittoria di Bersani sarebbe stata preferita alla più completa incertezza attuale, che da forza alle posizioni di Parigi contro l'austerità totale, che possa permettere la maggiore occupazione, elemento necessario all'effetiva integrazione europea.
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