Politica Internazionale

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martedì 25 ottobre 2011

Per la Turchia si aprono possibilità enormi con l'islamismo moderato

Quello che si sta delineando nella sponda sud del Mediterraneo, con la primavera araba ancora in corso, è l'affermazione dei partiti islamici di stampo moderato. Pressochè sicura l'affermazione in Tunisia e molto probabile in Libia ed anche in Egitto, il risultato sarà comunque l'instaurazione della sharia a regolare la vita civile e penale dei cittadini. Il risultato democratico va così a rovesciare l'impostazione data dai tiranni, che, seppure con modalità diverse, privilegiava l'impostazione laica degli stati. Quello che è uscito dalle urne tunisine, cui dovrebbero seguire responsi analoghi anche dagli altri paesi arabi, è una ulteriore riprova della avversione della popolazione ai regimi precedenti. L'interrogativo è come si instaurerà e svilupperà il rapporto, sia su base globale che regionale, con gli altri stati, in special modo quelli occidentali della sponda opposta del Mediterraneo. Avere di fronte diplomazie provenienti da formazioni islamiche dovrà richiedere una nuova impostazione dei rapporti con questi nuovi governi, che dovranno, giocoforza comprendere una variazione dei rapporti bilaterali. Ma l'aspetto più temuto è una sorta di "iranizzazione" della sponda sud del Mediterraneo, la paura di un insediamento al governo non moderata, come effettivamente si presentano i partiti di ispirazione islamica che hanno tenuto a battesimo la primavera araba, è il vero spauracchio per i governi occidentali. A mitigare queste paure potrebbe esserci l'esempio turco, dove una formazione islamica moderata guida il paese anche con risultati eccellenti. Peraltro proprio la Turchia, cerca di ritagliarsi un ruolo guida, grazie ad una politica accorta e mirata allo scopo, per gli stati usciti dalla primavera araba. Questo fatto può essere una leva per l'occidente per scardinare la possibile diffidenza giustificata dei nuovi governi, dati i rapporti che le democrazie occidentali intrattenevano con i regimi caduti. Gli ottimi rapporti che Ankara intrattiene con entrambe le parti possono favorire dialoghi fruttuosi. Tuttavia questa strada può determinare una crescente importanza per la Turchia in una zona lontana dalla sua sfera d'azione, decretandone la crescente importanza non più come potenza regionale ma di vera e propria media potenza mondiale. L'ipotesi non è peregrina, non è detto che le diplomazie occidentali trovino le porte aperte come sperano, il ruolo turco è destinato a crescere nell'area mediterranea per la grande affinità che si svilupperà con le nuove formazioni al governo sul piano religioso e politico.

Benedetto XVI: un magistero attento ai problemi economici

La particolare attenzione che viene prestata dagli ambienti vaticani per l'economia e la finanza registra un netto cambiamento di rotta rispetto al papato precedente. Benedetto XVI ha avviato in sordina un magistero più attento ai problemi sociali che vanno inevitabilmente a connettersi con quelli dell'economia. Rispetto a Giovanni Paolo II, di cui non possiede la presenza quasi scenica, l'attuale pontefice ha avviato una attenta analisi sui problemi generati da una finanza sregolata, spesso condannandone gli eccessi, portatori di diseguaglianza profonda che mina le fondamenta della società. L'attenzione mostrata ai problemi del lavoro ed all'analisi spesso incentrata sull'inadeguatezza degli stipendi dei lavoratori, ha mostrato un lato di Ratzinger sconosciuto, anche nei modi e nelle parole con cui ha condannato questi comportamenti, uscendo anche dalle consuete espressioni misurate, per dare maggiore enfasi al rilievo effettuato. Con il documento uscito ieri sulle storture della finanza e la rimarcata necessità di una riforma in senso maggiormente garantista per per le parti più povere del sistema, la Chiesa cattolica si pone in prima linea, gettando sul piatto tutta la sua autorità, ed espressamente, contro i guasti del neoliberismo, andando contro la politica economica portata in auge fin dagli anni '80 dalla Tatcher e Reagan e continuata fino agli attuali eccessi dai loro successori, anche di segno politico opposto. Tale documento, molto duro, seppure espresso con le consuete sfumature curiali, non può non essere stato avvallato dal Pontefice, confermando così la linea intrapresa sull'argomento. Si individua così che la Chiesa cattolica intende governare in modo fattivo questa emergenza ponendosi come protagonista contro la dottrina economica neoliberista che sta condizionando i tempi attuali. Questa direzione dice chiaramente che i tempi devono cambiare inaugurando una stagione dove il solidarismo e la mutualità devono rimpiazzare la concorrenza sfrenata e l'assenza di regole. Ratzinger, che sembrava il campione della conservazione, dimostra invece sull'argomento, una conoscenza ed una visione più aperta e lungimirante di tanti governanti in carica, che abbozzano soluzioni temporanee prive di progettualità. L'idea di un organismo mondiale che governi la finanza in senso globale, nella sua semplicità rappresenta la soluzione più appropriata per rimettere il fenomeno sotto controllo e si concilia con l'ecumenismo come fondamento della misura. Se la Chiesa continuerà a mantenere l'attenzione su queste materie sarà un avversario in più per chi si oppone alle necessarie riforme per ridare fiato all'economia del mondo.

lunedì 24 ottobre 2011

Il Vaticano per un governo mondiale della finanza

Sul tema del governo dell'economia e della finanza mondiale il Vaticano presenta la propria proposta centrando il bersaglio e dicendo quello che in pochi ammettono: la necessità della creazione di una nuova autorità mondiale che coinvolga, non solo le grandi potenze economiche mondiali, ma anche i paesi in via di sviluppo e le nazioni in fondo alla classifica del reddito e che sia destinata a governare i processi finanziari e monetari a livello globale, con la riscrittura delle regole degli scambi e con l'esercizio del controllo dell'osservanza dei nuovi regolamenti. Questa è la sostanza del documento presentato dal Pontificio consiglio per la giustizia e la pace. La soluzione rappresenta insieme una conclusione naturale di una riflessione attenta allo svolgimento della cronaca economica e la logica definizione di un problema che saprà suscitare diverse contrarietà negli ambienti finanziari e politici, gelosi della propria autonomia di gestione. Il documento verte essenzialmente su due cardini principali, che costituiscono le indicazioni su cui deve svilupparsi il nuovo governo mondiale della finanza: la prima è, appunto la creazione di un organismo che regoli e controlli l'andamento economico finanziario, che non deve essere, per forza, creato ex novo, ma ne può essere utilizzato uno già esistente ampliandone ed integrandone poteri e funzioni. Un esempio concreto può essere la Banca Mondiale, che potrebbe essere individuato come istituto sul quale impiantare le nuove funzioni. Il secondo cardine è la riforma del sistema monetario, che deve essere ripensato in modo da favorire in senso maggiormente egualitario gli scambi finanziari, in maniera tale da favorire non il bene di una parte pa il bene comune dell'intero sistema. Anche se la visione pare utopica, rappresenta un chiaro segnale del bisogno della chiesa di affermare della necessità di un cambiamento dell'andamento attuale. Ma oltre le indicazioni che si potrebbero definire tecniche, nel documento sono presenti valutazioni politiche e morali che vanno in senso contraio ai canoni ed ai principi che hanno governato l'economia fino ad ora. Quello che la situazione impone è una riflessione radicale sulla ricaduta sociale che hanno avuto le teorie neoliberiste in campo economico, con un giudizio finale completamente negativo. La Chiesa si dimostra contraria alla totale assenza di regole che dagli anni '80 del secolo scorso hanno travolto le forme di salvaguardia delle famiglie e delle persone, individuando queste cause come possibili motivi di sovvertimento dell'ordine democratico e della stabilità sociale. Il documento arriva ad individuare la necessità della tassazione delle transazioni finanziarie come elemento di riequilibrio sia macro che microeconomico; nel primo caso andando ad alimentare la costituzione di un fondo mondiale per di riserva per le economie in crisi ed il loro conseguente risanamento, mentre nel secondo caso potrebbero andare a finanziare strumenti su base statale in grado di assicurare forme di welfare avanzato. Il documento è in ultima analisi la condanna della globalizzazione affermatasi senza alcuna forma di controllo, tanto decantata dai governi di stampo liberista ed ora finalmente individuata come fattore di disturbo sociale.

L'influsso della morte di Gheddafi

Come hanno agito sulla psiche dei dittatori, in carica e no, le immagini drammaticamente crudeli della morte di Gheddafi? Sono state un monito, un vaticinio spaventoso, che ha avuto un qualche effetto o sono state catalogate come evento inevitabile per chi non ha avuto la mano sufficientemente salda nella repressione, per chi non ha avuto il polso della situazione ed ha sottovalutato la ribellione, fidandosi delle prerogative fin li acquisite e quindi sopravvalutandosi di fronte ad un pericolo imminente? Lo svolgimento della crisi libica sfociata in guerra civile rappresenta un ottimo insegnamento per chi è ancora in sella e sicuramente si è visto nei logori panni di Gheddafi. La morte violenta del colonnello può costituire una svolta, in un senso o in un altro delle rivolte in atto? Se un fattore psicologico esiste non pare influire troppo su chi è al governo, la fine pur tragica di un "collega" non cambierà i piani di chi vuole mantenere il potere, semmai potrebbe esserci un inasprimento sulla scia dell'emotività; il grosso effetto psicologico potrebbe, al contrario essere, sui dimostranti, una spinta emotiva sulla base della concreta possibilità di rovesciare un regime. Un effetto psicologico del genere non è da sottovalutare per un regime non più saldo, costretto ad incrementare le forme e la violenza della repressioni. La via imboccata da Siria, Arabia Saudita, Yemen è caratterizzata da ripetute violenze tese a soffocare il dissenso ormai pubblico, è vero che questi paesi non possono contare sull'aiuto della NATO, e ciò è da considerare assolutamente certo per l'Arabia che è funzionale agli USA, ma per la Siria e lo Yemen la situazione potrebbe cambiare. L'errore di queste dittature è stato non interpretare all'inizio lo spirito delle proteste, non si sono operate concessioni ed aperture, se non in modo blando in Arabia Saudita, inoltre la mancanza di un ruolo cuscinetto svolto dall'esercito egiziano nel paese dei faraoni, ha determinato una spaccatura sociale con le forze armate che potevano essere un fattore calmierante. La vicenda libica dimostra che la fine del tiranno è possibile ed è tanto più possibile perchè il tiranno muore, non come in Tunisia o in Egitto, e questo fatto assume un valore simbolico enorme, che rimarrà a lungo impresso in quei popoli che patiscono sotto il giogo delle dittature. Se le repressioni continueranno ad essere violente la resa dei conti non potrà che essere violenta.

domenica 23 ottobre 2011

Sulle presidenziali USA spunta la variabile Iraq

Nelle elezioni americane ritorna centrale il tema degli esteri e della perdita di centralità e del ruolo di potenza mondiale degli USA. Il problema è connesso con il tutti a casa decretato da Obama per le forze americane presenti in Iraq. Fino a poco tempo fa non era prevedibile che una mossa del genere potesse rivelarsi un boomerang per il presidente in carica, con gli USA focalizzati sul fronte interno della crisi economica ed il gran sforzo economico e di vite umane avviato a finire, il ritiro dall'Iraq sembrava il più grosso spot elettorale per la competizione del 2012. Ma i repubblicani stanno trovando un punto debole nella strategia democratica di Obama: un Iraq sguarnito dalla potenza militare americana rischia di finire sotto la nefasta influenza iraniana, lo stato sempre più inquadrato come il nemico numero uno per la bandiera a stelle e strisce. L'eliminazione fisica di Saddam Hussein, Bin Laden e Gheddafi non garantisce a Barack Obama di avere la certezza di non fare trovare più sulla strada degli Stati Uniti un nemico forse ancora più pericoloso ed insidioso come Ahmadinejad. L'evoluzione militare iraniana, che punta ad inserire l'arma atomica nel proprio arsenale, mette in allarme gli analisti americani più vicini al Partito Repubblicano. Una espansione dell'influenza iraniana sul travagliato Iraq metterebbe in discussione delicati equilibri sia dal punto di vista interno tra sciti e sunniti, che da quello diplomatico, contribuendo a riscaldare la tensione già presente tra Arabia Saudita ed Iran. Con un quadro del genere il dispiegamento americano degli anni passati potrebbe risultare inutile ed un lavoro incompiuto. In effetti, anche tralasciando il tema della supremazia USA in campo mondiale, argomento caro ai Repubblicani, gli argomenti sollevati per l'abbandono dell'armata americana in Iraq non possono che sollevare qualche legittimità sulle questioni poste. In questa ottica un abbandono completo dell'Iraq sembrerebbe vanificare anni di sforzi per raggiungere obiettivi ritenuti il caposaldo dell'intera politica estera americana. La brusca marcia indietro potrebbe generare confusione anche in un elettorato concentrato su argomenti diversi e lontani, aprendo un vero e proprio squarcio nella tattica elettorale di Obama. In effetti si tratta di due diverse visioni contrapposte, se il Presidente in carica ha sempre reso pubblico, fin dalla campagna elettorale di cinque anni prima, l'intenzione di sganciare gli USA dai vari conflitti ereditati dall'amministrazione precedente ed ha proseguito nelle emergenze successive mantenendo un basso profilo per gli Stati Uniti, per i repubblicani storici la tendenza è sempre stata del tutto opposta. Semmai una convergenza con Obama su questo tema poteva esserci dal movimento del tea party, che ha sempre prediletto i temi di economia interna a discapito dei grandi problemi di politica internazionale. Ma la questione cardine rimane sul tappeto, quale sarà il destino degli equilibri regionali se l'Iraq verrà abbandonato al suo destino? La questione è da valutare attentamente poichè se si verificasse la necessità di un ritorno da zero per sopraggiunte necessità sarebbe una sconfitta storica per Obama ed anche su queste previsioni a lungo termine si giocherà l'esito delle presidenziali del prossimo anno.

Svizzera alle urne con la paura dell'immigrazione

La Svizzera va alle elezioni con la paura dell'immigrazione. Nonostante la crisi che colpisce il mondo intero un altro paese europeo si rinserra al suo interno alimentando il fuoco di xenofobia che attraversa il continente. La tragedia norvegese provocata da Breivik rimane un monito inascoltato, le formazioni di estrema destra si fanno forza sulla paura del diverso e sulla conseguente possibilità che vada ad intaccare il proprio patrimonio. La visione è miope e talmente limitata, che il razzismo elvetico del partito dato per favorito, il Centro democratico dell'Unione, raggiunge vette molto elevate, tanto da temere l'immigrazione dalla UE e in special modo dai lavoratori provenienti dalla Germania. Non che vi siano gradi e livelli di razzismo in base alla nazione di provenienza dell'immigrato, ma la chiusura di un paese che si trova all'interno del continente e che è esso stesso una aggregazione di etnie, provoca ancora più sconcerto in una qualsiasi analisi del fenomeno. E' troppo facile affermare che su i capitali che la Confederazione accoglie, spesso in maniera poco chiara, non viene fatta alcuna analisi di provenienza, che al contrario sarebbe opportuna, tuttavia, pur nel rispetto della volontà dei cittadini elvetici, un organismo come la UE, colpita direttamente dalla propaganda elettorale del partito di maggioranza, dovrebbe trovare forme sia di pressione che di ritorsione contro un governo formato da esponenti di una formazione che ne fa oggetto di pura xenofobia. Inoltre l'Unione Democratica di Centro afferma di avere già raccolto più di 100.000 firme per un referendum che possa revocare gli accordi di libera circolazione con la UE.
La tendenza all'isolazionismo svizzero pare così accentuarsi e forse sarebbe il caso che Bruxelles accontentasse gli elvetici con una revisione degli accordi in essere con la UE.

La Libia verso una Repubblica islamica moderata

Archiviata in modo tragico la pratica Gheddafi, per la Libia si apre ora concretamente la transizione alla democrazia. Si tratta di una novità per il popolo libico, che non ha mai esercitato il diritto di voto, tuttavia la grande quantità di emigrati, di cui molti hanno fatto ritorno per combattere il regime del colonnello, ha preso dimestichezza, seppure in modo indiretto, con le regole del sistema democratico. Ma quello che più preoccupa l'occidente non è la scarsa pratica al pluralismo, bensì il timore di una deriva verso una forma di governo pesantemente influenzata dalla religione islamica. Va detto che i quaranta anni di governo di Gheddafi sono stati caratterizzati da una forma di religiosità addomesticata in funzione dell'amministrazione del rais, dove la fede islamica originale è rimasta confinata nelle aree più riservate dei clan tribali, mentre nelle zone metropolitane si è trattato si una forma religiosa annacquata dalle tendenze funzionali al regime. Questo è stato uno dei fattori che ha determinato un islamismo di tipo moderato che è quello fondamentalmente presente in Libia. Un altro fattore è la ferrea repressione operata dal regime sui movimenti fondamentalisti islamici, che infatti, non sono mai riusciti a costruire una propria organizzazione efficiente sul territorio. Le premesse, quindi, per evitare una deriva fondamentalista del paese vi sono tutte, anche se la tendenza che pare più favorita sia quella di una repubblica islamica, il genere dovrebbe essere di tipo moderato. L'affermazione di tale tendenza, a ben vedere, è una naturale conseguenza dell'assenza di partiti e movimenti negli ultimi quaranta anni di storia libica, dove il culto della personalità di Gheddafi doveva andare a riempire ogni forma di possibile associazionismo; soltanto i clan tribali hanno rappresentato l'unica forma di socialità e con tutti i loro difetti di chiusura ed isolamento sono stati l'unica forma di alternativa all'onnipresente stato centrale. Con questo stato di fatto la religione rappresenta l'unica bussola cui fare riferimento, ma questo non vuole dire necessariamente che ci sia una affermazione possibile dell'integralismo, l'attività del CNT è stata contraddistinta da assenza di proclami religiosi ed il lavoro sia militare, che diplomatico svolto con i paesi e le organizzazioni occidentali ha dimostrato la presenza di un dialogo fattivo. Il possibile sviluppo in senso islamico moderato non deve essere quindi temuto, la Libia non pare dirigersi verso una repubblica islamica di tipo iraniano in versione mediterranea, ma ha concreto bisogno di qualcosa di solido cui ancorarsi dopo un lungo periodo di vuota oppressione.