Politica Internazionale

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martedì 6 marzo 2012

Sull'economia la Cina è ad un bivio

La globalizzazione. che costituiva il punto di forza dell'economia cinese, riverbera i propri effetti negativi anche su Pechino. L'andamento negativo delle economie occidentali, che costituiscono il principale mercato di sbocco delle merci cinesi, costringe a rivedere le stime di crescita ribassando di mezzo punto, dall'8% al 7,5%, la crescita prevista. Viene così abbattuta la barriera psicologica del fatidico 8% di crescita, valore mantenuto fermo per tutto il decennio scorso. Mezzo punto in meno per un gigante come la Cina significa molto, Pechino dovrà rinunciare a progetti in vari campi e sopratutto potrebbe avere a che fare con una crescente protesta, fattore sociale che già preoccupa molto i dirigenti cinesi, tanto da avere stanziato ben 85 miliardi di euro, con un incremento dell'11,5% rispetto all'anno precedente, la somma da destinare alle forze di polizia per prevenire e contenere i disordini interni. Si stima che ogni giorno in Cina vi siano circa 246 rivolte, dovute, in maggior parte, sia alla corruzione dei funzionari sia alla grande diseguaglianza che la grande crescita economica ha generato. Una causa individuata dai vertici del Partito è di natura squisitamente economica ed è l'elevato tasso di inflazione, sintomo negativo comune alle economie di mercato occidentali, proprio per questo le intenzioni dei governanti cinesi sono di contenere entro il 4% l'inflazione cinese, grazie ad una scrupolosa politica che controlli rigidamente il livello dei prezzi giunta ad una offerta creditizia mirata. Ciò dovrebbe scongiurare crisi di tipo finanziario, anche grazie alla volontà di mantenere stabile il tasso di cambio ed il contenimento del costo degli immobili. Questa ultima azione è necessaria per coprire due fronti: evitare le bolle speculative di tipo immobiliare e soddisfare la richiesta della popolazione, tema che è stato spesso fonte di proteste e manifestazioni. Il governo centrale ha finalmente riconosciuto anche il problema delle amministrazioni locali, che spesso con la loro cattiva gestione sono fonte di instabilità sociale, che può creare pericolosi e potenziali contagi dalla periferia al centro dell'impero, anche perchè il fenomeno della corruzione degli organismi locali è strettamente connesso con l'elevato debito pubblico relativo proprio alle amministrazioni locali. Su questo tema si innescano a loro volta tematiche che riguardano i dati finanziari cinesi nel loro complesso, in quanto il centro scarica sulle realtà locali il debito pubblico relativo alla massiccia costruzione di infrastrutture, che ha caratterizzato pesantemente il PIL generale. Le commesse della gestione delle infrastrutture generano corruzione a cascata andando a chiudere il cerchio del problema generale che affligge sia lo stato nel suo complesso, sia la preoccupazione per le rivolte e la stabilità sociale degli organismi centrali. Proprio per questi motivi Pechino ha dichiarato di aumentare l'attività ispettiva presso le amministrazioni locali per combattere e prevenire la dilagante corruzione. In ogni caso il problema del debito è stimato a circa 1.300 miliardi di euro frazionati nelle varie amministrazioni che gestiscono l'immenso territorio cinese, è un problema che prima o poi Pechino dovrà affrontare perchè altera i valori fondamentali dell'economia cinese, sui quali rischia di avere un impatto devastante. Tutti questi fattori nel loro complesso segnalano che per l'economia cinese è forse arrivato un momento cruciale, quello di ridurre la partecipazione dello stato nelle imprese. Secondo diversi economisti soltanto immettendo dentro al sistema forti dosi di economia di mercato, con l'aumento della concorrenza e del mercato interno, la Cina potrà riprendere la crescita a due zeri. Tuttavia tali scelte non potranno essere compiute se non in un quadro di maggiore libertà politica, necessaria a fornire gli spazi di manovra necessari per questo indirizzo. Al riguardo l'apparato cinese non appare ancora pronto a lasciare quote di potere e ad allentare il controllo ferreo sulla società, per questo motivo la Cina rischia una sorta di una transizione incompiuta a grande paese industriale, senza il riconoscimento dei diritti civili e sindacali prevedere una maggiore liberalizzazione dell'economia è soltanto un'ipotesi di scuola che non arriverà mai a compimento.

lunedì 5 marzo 2012

In Africa la prossima primavera araba?

E' possibile immaginare un movimento simile alla primavera araba in altre parti del mondo, dove, cioè rivolte, nate spesso da episodi scatenanti, ma con una grave situazione stratificata precedente, possano rovesciare i governi in carica? Per qualche tempo si è pensato che la Cina potesse essere protagonista di fatti analoghi, ma la grande forza dell'apparato di repressione giunta alla diffusione di un consumismo capace di anestetizzare le coscienze hanno bloccato quelle che sembravano le prime avvisaglie di ribellione. Certo restano presenti focolai pericolosi per Pechino, come il Tibet, dove vi è però l'elemento della patria negata a funzionare come propellente per rivolte che vengono soffocate con la violenza. Il caso siriano rappresenta una continuazione ideale, sia per l'elemento geografico che politico, della primavera araba, anche se l'affermazione dei gruppi contrari alla dittatura incontra maggiori difficoltà, per la presenza di un regime ancora più sanguinario di quelli della sponda sud del Mediterrano, ed in effetti è difficile ipotizzare una sconfitta di Assad senza un aiuto straniero, ipotesi che per ora, grazie alla presenza di ragioni politico diplomatiche contrastanti, pare ancora lontana. Pur in tutta la sua gravità il caso siriano è comunque circoscritto ad una popolazione ed un territorio limitati e la sua conclusione avrà un impatto senz'altro minore di quanto temuto da Kandeh Yumkella, direttore generale dell'UNIDO, l'agenzia dell'ONU per lo sviluppo industriale. Quello temuto da Yumkella è una primavera araba in versione africana, che prendendo spunto dai recenti disordini avvenuti a Dakar, individua nel territorio subsahariano, una zona ad alto potenziale di rivolta. Come negli stati arabi la mancanza cronica di lavoro e prospettive, qui aggravata da oggettive situazioni di carenza alimentare, potrebbe innescare ribellioni capaci di sovvertire l'ordine costituito. La facilità di accesso ai moderni mezzi di comunicazione, dato il loro basso costo è l'altro dato comune con i giovani arabi, ed è già stato sperimentato con successo in Senegal. Il problema è che una situazione analoga alla primavera araba nei paesi africani potrebbe avere sviluppi ancora più devastanti perchè in territori formati da stati artificiali, composti da etnie spesso nemiche, un po come in Libia, ma moltiplicato almeno per dieci. Un'Africa instabile non è nell'interesse di nessuno, le conseguenze anche per l'occidente possono essere incalcolabili: si andrebbe dall'incremento dei profughi al blocco di interi settori economici che si basano sulle materie prime provenienti dal continente africano. L'allarme del direttore dell'UNIDO non è da sottovalutare, anche perchè le contromisure potrebbero convenire sia ai paesi africani che a potenziali soggetti capaci di prestare le proprie conoscenze per favorire lo sviluppo economico dell'Africa e sopratutto la diffusione di un benessere tale da placare le istanze di rivolta. Un ruolo che potrebbe essere ricoperto dall'Unione Europea, in maniera da placare possibili esplosioni di violenza ma, nel contempo, generare occasioni di sviluppo tali da sviluppare collaborazioni comuni in un'ottica che sappia cancellare il ricordo colonialista, ancora ben presente.

USA, Israele ed Iran e le presidenziali americane

Per Obama la questione iraniana rappresenta l'ostacolo maggiore, per i temi di politica estera, nella campagna elettorale. Il problema coinvolge diversi aspetti: dal rapporto con Israele e con la potente lobby ebraica americana, all'uso delle forze armate a stelle e strisce, che per una parte consistente dell'opinione pubblica USA è stato abusato negli ultimi anni in scenari che alla fine sono stati visti lontani dall'interesse americano, al fattore del conflitto in senso stretto con l'Iran, su cui si hanno ancora meno certezze della conclusione e dei risultati rispetto a situazioni che parevano più sicure come Iraq ed Afghanistan, che si sono poi rivelate molto problematiche. Il Presidente uscente deve usare una tattica che non lo comprometta su posizioni che possano sembrare o troppo morbide o troppo rigide. Probabilmente Obama è sinceramente contrario all'intervento militare e la sua linea è quella di insistere sulla pressione diplomatica, inoltre il risultato elettorale iraniano che ha penalizzato Ahmadinejad, gioca in suo favore; ma la volontà di Netanyahu va nella direzione opposta, perchè non condivide la possibilità che i risultati diplomatici blocchino i progressi sull'ordigno atomico iraniano e propende per un attacco che alcuni analisti danno per sicuro nel giro di pochi mesi. Questo atteggiamento intransigente del governo di Tel Aviv ha obbligato Obama ad una apertura, per la verità piuttosto esplicita, ad una possibile soluzione militare ed al riconoscimento della sovranità israeliana di prendere in modo autonomo la decisione dell'attacco preventivo. E' una concessione logicamente dovuta sopratutto alla potentissima lobby ebraica che più volte ha accusato il Presidente USA di appoggiare le istanze palestinesi a discapito di Israele. In realtà non è mai stato così, l'amministrazione americana, ha sempre appoggiato, per lo meno per quanto riguarda i passi ufficiali, un governo israeliano con il quale però ha avuto spesso profonde differenze di vedute. Nel processo di pace israelo-palestinese non si può non imputare ad Obama una posizione chiara, aldilà delle dichiarazioni di prammatica, che abbia saputo condurre ad una conclusione la pur difficile trattativa. L'impressione è che la massima carica statunitense non abbia mai voluto urtare la lobby ebraica in USA, per non compromettere un giudizio già non positivo. Riconoscere la possibilità di un impiego militare a fianco di Israele o anche consentirne un piano di attacco autonomo può significare l'apertura di una linea di credito notevole, che fino ad ora non vi è stata. Tuttavia non esiste solo la lobby ebraica, Obama deve continuare a rimarcare la sua differenza con le amministrazioni repubblicane per una ricerca spasmodica di un'alternativa pacifica per la risoluzione di ogni controversia. Un candidato democratico che presentasse un attacco militare come unica risoluzione del caso iraniano perderebbe una mole ingente di voti. In quest'ottica Obama cerca di guadagnare tempo, come peraltro fanno gli iraniani, sperando negli effetti delle sanzioni ed ora anche delle divisioni interne all'elitè conservatrice al potere. Ma per le elezioni presidenziali USA mancano ancora otto mesi, difficile, senza risultati importanti, fare desistere israele dai propositi bellici contro Teheran: in caso di guerra tutta la campagna elettorale sarebbe stravolta ed è obiettivamente difficile fare un bilancio preventivo tra i costi ed i benefici di una decisione rispetto ad un'altra. Una via di mezzo sarebbe dare l'appoggio di forze e basi USA senza un coinvolgimento ufficiale diretto, che sarebbe comunque difficile da smentire e che sarebbe interpretato come una decisione pilatesca. Se gli USA dovessero trovarsi in guerra, contro un nemico del calibro dell'Iran, durante la campagna elettorale, a meno di una vittoria istantanea tale da garantire un successo chiaro e veloce, potrebbe prefigurarsi un calo di consensi per Obama, non altrettanto riscontrabile per altri temi, capace di alterare le previsioni fin qui positive per la sua rielezione. Il Partito Repubblicano potrebbe sfruttare questa occasione, grazie ai suoi maggiori contatti con la lobby ebraica, ma soltanto a patto di avere un candidato di una certa forza, cosa che fin qui pare lontana dal verificarsi, tuttavia, sull'onda emozionale di un'eventuale insuccesso, potrebbero aprirsi spiragli insperati per quello che sarà il contendente di Obama.

venerdì 2 marzo 2012

Lo strano comportamento della Corea del Nord

Appena dopo avere congelato il proprio programma di armamento nucleare, in un clima che pareva essersi ormai disteso, la Corea del Nord torna a minacciare la Corea del Sud, rea di avere infangato la dignità del proprio leader. La causa scatenante della reazione nord coreana sarebbero alcune installazioni poste dall'esercito sudcoreano in prossimità di Seoul, che ritraggono Kim Jong-il insieme a frasi diffamatorie. Aldilà del pretesto, le minacce alla Corea del Sud, hanno sorpreso chi aveva entusiasticamente accolto gli accordi sottoscritti con gli USA dal regime di Pyongyang, ma, al contrario, sono state una conferma per chi nutriva dei dubbi sulle reali intenzioni nordcoreane. Va detto che, nonostante il raffreddamento del clima tra le due Coree, Pyongyang non ha effettuato alcuna dichiarazione circa una possibile variazione degli accordi già presi in tema di armamenti atomici. Tuttavia è impossibile non leggere nella vicenda un segnale di grande instabilità ed incertezza circa chi detiene realmente il potere nella capitale nordcoreana, da cui non trapelano notizie certe e occorre affidarsi ai segnali che arrivano e tentare di dare una interpretazione corretta. La questione si riduce all'effettivo potere nelle mani di Kim Jong un, il nuovo leader catapultato improvvisamente alla guida del paese per l'improvvisa morte del padre, si è parlato più volte delle sue reali capacità e di chi esercita effettivamente il potere. I maggiori indiziati sono i militari, ma la definizione riguarda un gruppo eterogeneo che probabilmente comprende fazioni diverse in lotta tra di loro. Che almeno nelle alte sfere vi sia, al contrario della popolazione fiaccata sia nel fisico che nel morale, profonda preoccupazione per lo stato del paese è cosa praticamente scontata. Quello che si crede più probabile è che il nuovo leader sia un capo di facciata dietro cui si muovono trame di potere tendenti a riempire il vuoto di potere venutosi a creare e senza che per il momento risulti un vincitore. Questo spiegherebbe l'atteggiamento ondivago della Corea del Nord in un lasso di tempo tanto breve. Anche perchè non si spiegano, dopo gli accordi appena sottoscritti, le accuse ad USA e Corea del Sud di manovre militari congiunte, lette da Pyongyang come offesa al periodo di lutto ancora in corso nella Cora del Nord. Parrebbe quasi che un soggetto diverso da quello che ha proclamato il congelamento del programma nucleare abbia scritto questo comunicato che va in tutt'altra direzione. Sono tutti indizi che la situazione tanto auspicata di stabilità nella regione è tutt'altro che acquisita e che soltanto altri sviluppi possano chiarire la situazione, a meno che il tutto non faccia parte di una strategia volta ad ottenere aiuti in quantità ancora maggiore di quelli già concordati.

L'Iran alle elezioni: un paese rassegnato

L'Iran che si avvia alle elezioni parlamentari è un paese frustrato e rassegnato, dove il sentimento generale di sfiducia nella politica è il fattore dominante. Dopo la repressione seguita alle elezioni presidenziali che hanno visto la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad, probabilmente ottenuta con dei brogli elettorali, l'opposizione nel paese è stata praticamente cancellata e questo ha portato come conseguenza l'assenza del dibattito elettorale, punto centrale della democrazia. Quello che si prevede è un calo notevole dell'affluenza al voto, con dati che potrebbero aggirarsi intorno al 40% o al 50%, nelle ipotesi più positive, come valore nazionale, mentre nella capitale si prevede addirittura una partecipazione intorno al 25%; soltanto nelle campagne è sono previsti valori maggiori, con punte fino al 60%. E' chiaro che quella che si presenta è una situazione che vanifica i tentativi del regime di presentare il paese come una democrazia compiuta. Chi è al governo esercita le sue prerogative grazie ad una combinazione di repressione e di frustrazione, che risulta efficace e funzionale ai suoi intenti; infatti mantiene il potere avendo fiaccato i potenziali oppositori inoculando nel sistema politico l'apatia come garanzia della propria permanenza al potere. In questo stato di cose nemmeno l'abbassamento della qualità della vita della popolazione riesce a scuotere le persone dal torpore politico in cui sono cadute. Le sanzioni economiche hanno abbassato il potere d'acquisto e provocato un innalzamento del fenomeno inflattivo giunto ad un calo dei redditi medi del paese, la svalutazione continua della moneta locale costituisce una pericolosa aggravante alla già difficile situazione economica. Tuttavia l'assenza di una alternativa riformista blocca il sistema, che vede vertere la sfida tra correnti conservatrici, simili per ideologia ed anche programmi, ma che si confrontano con il solo scopo di conquistare il potere per la loro fazione, anche in vista delle presidenziali del 2013. Per il regime la bassa affluenza non è vissuta come una protesta, le elezioni parlamentari vengono presentate come meno importanti e quindi meno sentite ed anche il sistema elettorale, che prevede all'elettore attivo di indicare a mano nella scheda i trenta nomi da votare, non facilitano certo la partecipazione. In fondo un risultato elettorale omogeneo può essere presentato al mondo come uno scudo valido contro eventuali pulsioni della piazza tipo primavera araba, rischio, comunque, molto lontano, al momento, per un paese privo di leader e rassegnato al proprio destino. Quello che emerge è un paese dove la frattura tra classe dirigente e popolazione è ormai un solco ampio, ma anche che ciò, per ora, non costituisce pericolo per il regime, che anzichè avere a che fare con una opposizione presente, sfrutta il ripiegamento del paese su stesso come agevole forma di dominio.

giovedì 1 marzo 2012

Riflessioni sullo stop del programma nucleare della Corea del Nord

Pyongyang fornisce un aiuto insperato per la campagna elettorale di Obama; infatti la promessa di congelare la sua attività di ricerca nel campo degli armamenti nucleari in cambio di aiuti alimentari e di energia
da alla regione una stabilità che, dopo il cambio di regime, pareva in bilico. Per il Presidente uscente un'ottima carta da giocare per i dibattiti di politica internazionale e sul piano diplomatico l'opportunità di dedicare maggiori energie al caso iraniano. Contrariamente alle prime notizie diffuse la Corea del Nord non rinuncia definitivamente al suo programma nucleare, ma lo sospende dando anche l'opportunità agli ispettori dell'AIEA di controllare i siti dove si lavora all'arricchimento dell'uranio e di verificare così i progressi nord coreani nella corsa all'atomica. Gli esperti di affari nord coreani ritengono che questa concessione è il massimo che al momento si possa ottenere, ma il risvolto positivo è che tale mossa costituisce comunque una apertura al dialogo del paese che più si è isolato ai rapporti internazionali. Dietro a questa decisione è difficile dare una lettura sicura di come la Corea del Nord è arrivata a tale determinazione, il fattore più determinante è stato senz'altro il cambio al vertice del governo di Pyongyang a causa della morte del vecchio dittatore. Ma non è chiaro se questa nuova via che segna l'apertura del paese sia dovuta al successore o se viceversa, il potere sia ora in mano ai militari , i quali possono finalmente imprimere una nuovo indirizzo alla politica estera della nazione, che possa mettere fine ad un isolamento che ha portato fame e carestia per la popolazione. Secondo l'ONU, infatti, almeno un quarto della popolazione sarebbe allo stremo per la cronica mancanza di generi alimentari e l'accordo con gli USA, che prevede la fornitura di 240.000 tonnellate di derrate, permetterebbe di alleviare almeno la situazione più urgente. Le trattative tra le due parti prevedono la ripresa dei colloqui sulla base di quanto stilato nel 2005, quando la Corea del Nord aveva accettato di rinunciare all'arma atomica in cambio di aiuti alimentari. Non è la prima volta quindi che i nord coreani promettono di andare verso il disarmo atomico ma poi non mantengono tali promesse. Per questa ragione parte dell'opinione pubblica americana resta scettica sulle reali intenzioni del paese asiatico, tuttavia attualmente si è in presenza di nuove condizioni, come il mutato assetto del potere e la particolare gravità della situazione alimentare del paese, che fanno ben sperare l'amministrazione americana. In ogni caso dal punto di vista diplomatico era impossibile per Washington lasciarsi sfuggire una occasione del genere, che potrebbe portare ad una situazione contraddistinta da stabilità la regione del sud est asiatico. La presenza di Giappone e Corea del Sud, tradizionali alleati americani e l'importanza dei transiti commerciali nei mari limitrofi, pone sul ruolo della Corea del Nord più di un motivo di attenzione. Anche se occorre riconoscere legittimi i dubbi di chi sostiene che l'unico mezzo di pressione di Pyongyang è soltanto la minaccia atomica, quindi una volta finiti i vantaggi di questi ultimi accordi potrebbe ricominciare il teatrino dei test nucleari per sensibilizzare un'altra volta gli americani. Per questo motivo Washington tenta di coinvolgere nei negoziati anche Cina, Russia, Giappone e Corea del Nord, in modo di organizzare una trattativa con sei soggetti, tutti interessati alla stabilità regionale. Se le intenzioni nord coreane sono sincere occorrerà offrire aiuti concreti per permettere lo sviluppo dell'economia di Pyongyang, che al momento versa in situazioni disastrose, in modo da risollevare il paese per consentire alla sua popolazione standard di vita sufficienti. Tutto sta nelle reali intenzioni di chi è effettivamente al potere, ma sia Cina che Corea del Sud temono concretamente esodi massicci di persone in fuga dalla fame ed è quindi loro primario interesse che la Corea del Nord riesca ad uscire dalla crisi. Negli USA si è sviluppata, immediatemente dopo la diffusione della notizia del congelamento del programma nucleare nord coreano, una corrente che vedeva possibili ricadute positive anche su situazioni dove la presenza di possibili ordigni nucleari crea motivi di attrito con l'amministrazione americana; ma la situazione di India, Pakistan ed Iran è totalmente differente dal paese della penisola coreana. Pur caratterizzati da situazioni di povertà le condizioni di questi paesi non sono allo stremo come la Corea del Nord e godono di organizzazioni sia statali che militari di tutt'altro livello. Pare impossibile che la trattativa nord coreana inneschi un effetto analogo in nazioni che hanno un determinato ruolo internazionale e dove il possesso, effettivo o potenziale, dell'atomica ha ben altre valenze che quelle di Pyongyang.

mercoledì 29 febbraio 2012

Comincia ad aumentare il partito della crescita contro la ricetta tedesca

Dopo la sistemazione, avvenuta con lacrime e sangue, che probabilmente non sarà definitiva della Grecia, l'asse Berlino-Parigi, incomincia a scricchiolare dall'interno e, sopratutto, trova finalmente un fronte compatto di ben dodici paesi, che chiedono una sterzata della politica economico finanziaria europea, troppo orientata all'austerità dei bilanci a discapito della crescita, giudicata indispensabile per ridare fiato all'economia e non pregiudicare la stabilità sociale. In vista delle elezioni presidenziali francesi il candidato socialista Hollande ha messo al centro del proprio programma elettorale una nuova negoziazione degli accordi sottoscritti da Sarkozy con la Merkel. Questo fatto, che peraltro era già noto tanto da fare scendere la cancelliera tedesca dichiaratamente a fianco del presidente francese uscente in campagna elettorale, rischia di intaccare la politica economica elaborata da Berlino per l'Europa. Si è detto e rilevato più volte che tale politica tende a favorire più che la parte produttiva, dove vi sono diversi antagonismi, la parte finanziaria tedesca, con in prima fila le banche della Germania ed in generale il mondo finanziario, che non vuole correre il pericolo di effettuare investimenti in paesi dell'area euro con gestioni definite allegre. Pur partendo da ragioni condivisibili nate dall'esigenza di scongiurare situazioni come quella greca ed in generale emergenze debitorie troppo elevate, capaci di creare un effetto a catena nell'area dell'euro, quelle elaborate sono politiche troppo stringenti, che non permettono una diffusione del credito necessaria a risollevare, come dovuto, economie ormai asfittiche. Uno dei maggiori timori dei governi che hanno chiesto una maggiore propensione alla crescita è la pericolosità di minare la stabilità sociale, le violenti reazioni greche ai tagli sociali imposti dalla Germania rappresentano un incubo da evitare assolutamente. Ma quello che sta venendo fuori è una insofferenza generalizzata alla condotta tedesca, anche da parte di governi, come quello italiano, che non sono propriamente espressione delle parti sociali più deboli. L'impressione è che Berlino abbia esagerato ed abbia avuto gioco facile perchè gli altri paesi o sono stati presi alla sprovvista o non sono riusciti ad elaborare una strategia comune immediata alle pretese tedesche. Ora è difficile prevedere se questa presa di posizione possa creare una spaccatura, che non è nell'interesse di nessuno, nella zona euro, tuttavia è chiaro che la leadership tedesca è chiaramente messa in discussione. La troppa austerità sta diventando ad essere vista come l'anticamera di una maggiore recessione, ma questo non era negli intenti della Merkel, che faceva partire la sua analisi dalla situazione tedesca. L'impressione, suffragata da dati concreti, è che la ricetta per risanare l'Europa sia stata elaborata come funzionale all'economia della Germania, che poteva fare la voce grossa sia per le condizioni economiche migliori, sia per l'assenza di un contradittorio, che ora inizia a formarsi. Con queste condizioni appare palese che, pur restando negli steccati imposti dalla necessità della riduzione del debito, gli accordi e la strategia vanno rivisti, per permettere una crescita più armonica ai paesi dell'euro. Il rischio concreto di diventare colonie tedesche non deve essere corso. Del resto i casi greco ed italiano, seppure con soluzioni differenti, devono fare squillare un campanello d'allarme. Se per Atene la perdita della propria sovranità a favore di entità straniere è ormai un dato di fatto, per l'Italia si è trattato di sospendere la democrazia del popolo, affidando ad un governo non eletto, ma formalmente sostenuto dalla maggioranza parlamentare, la gestione della cosa pubblica. Se dietro a questo governo vi siano le banche o i tanto nominati poteri forti non si saprà mai, certo è che l'interruzione democratica non formale ma reale è un dato di fatto. Se a questa situazione di cose dovesse, come sembra probabile accadere, un periodo di recessione ancora più grave le conseguenze sociali potrebbero essere non prevedibili. Ma questo vale anche per i paesi dove il governo in carica è regolarmente e direttamente eletto; del resto la necessità della crescita economica è stata ribadita dal Presidente Obama ed anche dalla Cina, che si è più volte detta disponibile a stimolare, attraverso propri investimenti, l'aumento del PIL dei singoli paesi dell'euro. Quindi è necessaria l'elaborazione di un piano alternativo che punti alle infrastrutture, volano per sviluppi successivi, alla formazione ed alla individuazione di strumenti capaci di riportare nel vecchio continente la produzione industriale materiale, la cui presenza è andata assottigliandosi troppo, impoverendo il tessuto produttivo delle nazioni a favore di una terziarizzazione con poco contenuto e sopratutto incapace di sostenere la necessaria crescita mediante la presenza dei dovuti posti di lavoro essenziali per assicurare uno sviluppo certo e duraturo.