Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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lunedì 12 novembre 2012
Per Israele può aprirsi un fronte siriano?
L'esercito israeliano è pronto ad attivare tutti i propri dispositivi di difesa e di offesa contro la Siria, se le truppe di Assad tenteranno ancora di colpire gli avamposti di Tel Aviv presenti nel Golan. Questo è quanto sostanzialmente dichiarato da fonti ufficiali israeliane, dopo il colpo di mortaio sparato dal territorio siriano a cui sono seguiti colpi di avvertimento dai militari della stella di David. Dopo la Turchia, tra l'altro di nuovo colpita, la Siria prova ad allargare i confini del proprio conflitto coinvolgendo il vicino più pericoloso. La speranza di Assad di trascinare tutta la regione in un gigantesco tutti contro tutti, gioca la carta più pesante: il coinvolgimento israeliano. Ma da qui potrebbe aprirsi una porta di servizio per il confronto, ancora più pesante, tra Israele ed Iran. Non è un mistero che truppe iraniane, insieme ad Hezbollah, sono impegnate a fianco di quelle fedeli ad Assad contro le forze ribelli e che, quindi, sono pericolosamente vicine alle forze armate israeliane. Assad sta conducendo una tattica spregiudicata e pericolosa, ma anche da ultima spiaggia, per sperare di sopravvivere come capo della Siria. L'allargamento del conflitto, fin qui scongiurato, da un comportamento irreprensibile, nonostante le provocazioni di cui sono state fatte oggetto la Turchia e lo stesso Israele, potrebbe verificarsi proprio per la necessità di sopravvivere di Assad, sempre più compromesso sul piano internazionale. Occorre però analizzare se questa volontà proviene dallo stesso presidente siriano o, specialmente nel caso delle provocazioni verso Israele, non sia attuata da altri. In questo caso non sarebbe difficile individuare chi sta dietro questa strategia se non l'Iran, che avrebbe tutto l'interesse a deconcentrare Tel Aviv dalla questione nucleare e dal possibile attacco contro Teheran, sempre nei pensieri dell'amministrazione israeliana. Questo diversivo permetterebbe a Teheran di guadagnare ulteriore tempo, il bene più prezioso nella contesa, per avanzare nei progressi della ricerca atomica. Difficilmente, dal punto logistico, ma anche politico, Tel Aviv potrebbe reggere due conflitti contemporaneamente, per cui l'Iran potrebbe sacrificare, in questa fase, l'alleato siriano, oramai difficilmente controllabile e, sopratutto, sul lungo periodo poco probabilmente ancora in mano ad Assad. Ma anche senza scatenare un confronto aperto con la Siria, Israele dovrà concentrare maggiore attenzione su quel versante della propria frontiera, anche se da più parti si tende a minimizzare sull'accaduto, attribuendo ad un errore il colpo di mortaio diretto in territorio israeliano. Tuttavia, già in precedenza erano caduti colpi di arma da fuoco nella zona controllata da Tel Aviv, ma nel governo israeliano, questi fatti, non avevano scatenato le minacce di questi giorni. L'avvertimento di Israele, teso ad evitare fatti analoghi, denota quindi, un certo nervosismo, che giustifica il timore dell'apertura di un fronte non certo gradito, sopratutto in forza di una stabilità, su quel lato della frontiera, che dura ormai da quasi quaranta anni.
venerdì 9 novembre 2012
Le prossime sfide internazionali di Obama
I prossimi quattro anni che attendono Obama saranno densi di problematiche internazionali, nelle quali gli USA saranno chiamati al ruolo da protagonista, volenti o nolenti. Mentre l'euforia per la rielezione del presidente degli Stati Uniti non è ancora smaltita, gli impegni dell'agenda internazionale già premono in un contesto che si annuncia da subito ancora più complicato da quando l'inquilino della Casa Bianca ha lasciato i suoi impegni internazionali in secondo piano per dedicarsi alla campagna elettorale. Difficile che Obama devii dalla rotta già tracciata nei quattro anni precedenti, contraddistinta da un attivismo meno in prima linea, rispetto alle amministrazioni precedenti, ma comunque con una presenza costante all'interno dello scenario internazionale. Gli USA si sono confermati potenza globale e sopratutto hanno mantenuto la leadership mondiale, ma con uno stile nuovo, di profilo più basso, ma soltanto in apparenza. In effetti, messo da parte il protagonismo, quasi muscolare delle presidenze dei Bush padre e figlio, Obama ha optato per un approccio più morbido, che facesse tramontare la visione imperialistica dell'America. Questo non ha significato però prese di posizione decise ed anche una certa attività, praticata però lontano dai riflettori. Barack Obama ha messo come prima opzione il dialogo e l'uso di strumenti alternativi all'uso della forza dei militari ed anche quando questi mezzi di dissuasione sono stati scelti si è privilegiato l'utilizzo di mezzi di nuova tecnologia che riducessero al minimo l'impiego umano diretto. Non ci sono ragioni che possano indurre a credere ad una deviazione di rotta, anche se le nuove sfide che si annunciano sul tappeto, potrebbero, almeno in parte, obbligare a cambiare questa impostazione. Dal punto di vista strettamente militare le due questioni principali sono il confronto Iran-Israele e l'annunciata svolta della Cina, che intende affermare la sua potenza sul mare. Per il primo caso la linea di Obama è quella di scongiurare un confronto militare dagli esiti incerti e con ovvie ricadute sugli indici dell'economia mondiale, l'impostazione data al problema, che ha previsto l'uso massiccio delle sanzioni, ha fiaccato l'economia iraniana, ma non ha permesso del tutto l'isolamento di Teheran, che si è impegnato molto, sul piano diplomatico, a cercare nuove sponde di contatto, percorrendo sopratutto la via religiosa e quella dell'antiamericanismo. Il nervosismo di Israele, in parte tenuto a bada dalla competizione elettorale statunitense, ora potrebbe riaffiorare, sopratutto se la vittoria nella prossima competizione elettorale vedesse una affermazione netta di Netanyahu. I due stati, USA ed Israele, hanno preso direzioni politiche diverse ed i due leader sono personaggi dalle opposte caratteristiche, ma sono anche legati a filo doppio da una alleanza molto stretta: la domanda è come si comporterebbero gli USA di fronte ad un attacco unilaterale e non concordato di Israele all'Iran? Obama sa che può essere trascinato su questa strada anche contrariamente alla propria volontà e che in quel caso non potrebbe negare l'aiuto a Tel Aviv, ma sarebbe appunto, l'unico modo per coinvolgere direttamente Washington in una guerra fortemente non voluta. Israele, a quel punto, sarebbe di fronte all'opinione pubblica internazionale, il solo vero responsabile di una tattica scellerata. In ogni caso gli USA non sono impreparati ad una evenienza del genere, i continui segnali di spostamento di armamenti americani nel Golfo Persico ed in Giordania, indicano che nonostante le elezioni, l'apparato ha continuato a preparare il terreno per un possibile conflitto. La questione del protagonismo cinese non dovrebbe avere costituito una sorpresa per gli USA, anche Pechino è in una fase di passaggio di potere, ma le aspirazioni cinesi sui mari e gli arcipelaghi della regione sono noti, come è noto il continuo processo di rinnovamento del suo arsenale militare, anche in funzione della notevole accresciuta potenza economica. In questa vicenda, che contiene degli elementi potenzialmente pericolosi, la variabile impazzita è costituita dal Giappone, che può essere seguito da Vietnam e Filippine, che ha riaperto un confronto silente da anni, probabilmente più per motivi interni che altro. Gli USA non hanno interesse ad uno scontro con la Cina, malgrado la competizione economica ed anche, in futuro, di leadership mondiale, i rapporti tra i due stati sono profondamente legati a causa della grande quantità di liquidità cinese impiegata negli Stati Uniti, entrambe le nazioni non hanno alcun interesse ad incrinare i loro rapporti diplomatici. In questo frangente la paziente abilità dell'amministrazione Obama nel campo delle relazioni internazionali, può arrivare ad un equilibrio, magari non del tutto stabile, nella regione, che consenta una coabitazione tra i vari attori coinvolti, senza che si vada oltre l'esibizione dei muscoli. Anche i rapporti con la Corea del Nord potrebbero essere normalizzati grazie ad una azione congiunta con Pechino, mentre la Russia ha appena tirato un sospiro di sollievo per la mancata elezione di Romney e si trova, quindi ben disposta a continuare i rapporti, tutto sommato buoni, con Washington. Nella lotta al terrorismo, sopratutto quello fondamentalista islamico, è inevitabile la continuazione della strategia vincente intrapresa a tutto campo per stroncare definitivamente Al Qaeda ed i gruppi seguaci. Non si può non credere che Obama si adopererà per una soluzione definitiva della questione palestinese, cercando di arrivare, finalmente, alla costituzione dello stato della Palestina; anche se in vista dell'appuntamento elettorale vi è stata una frenata, dettata dalla prudenza di non scontentare l'elettorato ebraico, l'intendimento del presidente USa è sempre stato quello di riuscire a pacificare la regione con la formula dei due stati, il compito non è facile per l'attività di contrasto operata da Tel Aviv, ma un maggiore coinvolgimento anche delle Organizzazioni Internazionali, per prima l'ONU, potrebbe dare una svolta alla questione. Del resto ciò è anche funzionale al progetto di allacciare nuovi rapporti con gli stati arabi, specialmente quelli usciti dalle primavere arabe, ed una argomento come la riuscita della creazione dello stato palestinese costituirebbe un argomento di sicuro apprezzamento da parte dei governanti arabi. Ma Obama in politica estera non dovrà affrontare soltanto questioni legate agli assetti geopolitici, ma anche di natura più prettamente economica; in particolare sugli sviluppi della questione dell'euro, sarà fondamentale l'apporto che gli Stati Uniti vorranno concedere per la salvezza della moneta unica europea, un aiuto certo interessato, perchè l'area rappresenta il mercato di maggior pregio del mondo ed una sua debolezza avrebbe ripercussioni sull'economia mondiale. Per affrontare tutti questi problemi sarà determinante la nomina del nuovo Segretario di Stato e la collaborazione che si potrà instaurare con il Partito Repubblicano, che, sopratutto, per le questioni delicate non potrà commettere l'errore di praticare ostruzionismo. Il primo viaggio per Obama da presidente rieletto avrà come destinazione la Birmania per incontrare i leader di quel paese e con la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi, in un tour che comprenderà anche la Thailandia e la Cambogia, nei giorni dal 17 al 20 novembre.
giovedì 8 novembre 2012
La necessità delle riforme al centro del congresso del Partito Comunista Cinese
Le riforme sono l'argomento al centro dell'attenzione del congresso del Partito Comunista Cinese. I dirigenti riuniti a Pechino sono consci che senza un cambio effettivo nell'esercizio del potere, l'impalcatura su cui si regge la nazione potrebbe cadere, nonostante i successi in campo economico, che hanno portato il paese a diventare la seconda potenza economica mondiale. Una delle vie per riformare lo stato è incrementare la la lotta alla corruzione, che si è rivelato il fenomeno maggiormente dannoso per la Cina. Gli scandali che hanno attraversato il partito e che sono stati troppo spesso fonti di scioperi e proteste, hanno avuto anche un costo economico tangibile, impedendo una redistribuzione adeguata delle risorse, fattore su cui si era basata la politica interna elaborata nel congresso precedente. L'idea era quella di diffondere il benessere nel maggior modo possibile all'interno dello stato, per evitare proteste di tipo politico, come era stata Tienanmen, una sorta di baratto con il popolo cinese, per permettere una vita tranquilla alla forma del partito unico. L'esplosione della ricchezza, derivante da una politica economica spregiudicata, che non ha mai tenuto conto delle istanze, e dei relativi costi, sindacali, senza l'adeguato controllo di un apparato statale impreparato, ha generato forme di concentrazione della ricchezza, che si sono venute a creare in modo anomalo, grazie alla diffusa corruzione presente nei centri di potere. Questa anomalia, non prevista dall'elaborazione politica di dieci anni prima, non ha permesso al Partito di godere di quella libertà attesa senza subire contestazioni e manifestazioni. Questa analisi dei burocrati cinesi è vera solo in parte, la mancata distribuzione del reddito, su grande scala, creato dal grande balzo dell'economia avrebbe potuto limitare solo in parte le proteste, che non sono state solo di natura economica ma anche politica, proprio perchè la crescita del popolo cinese, ha reso indivisibili i due argomenti. La richiesta di una maggiore diffusione dei diritti politici e relativi al lavoro, è cresciuta di pari passo con la massiccia industrializzazione e l'aumento della ricchezza, ancorchè diseguale, non è bastato ai cinesi. Sono istanze che non sono sconosciute ai delegati del Partito, che hanno iniziato a proporre un incremento del mercato interno, che segnalerebbe una maggiore redistribuzione delle risorse e la ricerca di metodi per aumentare il reddito pro capite. Ma se queste misure riguardano l'economia, nel campo della politica si intravedono novità che costituiscono segnali tendenti a proporre un rinnovamento, seppure ancora timido. La necessità di separare il ruolo del Partito da quello dello stato, indica l'individuazione della necessità di coinvolgere maggiormente il popolo nella scelta dei capi, ma non significa ancora l'apertura ad un sistema multipartitico. Piuttosto la preferenza dei vertici dell'apparato preferirebbe una formula sulla falsariga di quella in vigore a Singapore, dove esistono piccole formazioni politiche ammesse alla vita pubblica, con essenzialmente il ruolo di controllori dell'attività dello stato e del partito maggiore. Si tratta di una forma autoritaria attenuata che ha il merito, agli occhi dei delegati comunisti cinesi, di potere rappresentare una forma di transizione molto controllata dall'attuale verso il futuro e che può consentire anche un controllo inverso sulla composizione e sulle intenzioni di queste formazioni minori. Tuttavia si tratterebbe sempre di una piccola apertura che potrebbe rappresentare un passo avanti ed un segnale di accoglimento delle istanze che provengono da chi richiede maggiore democrazia. Quale sarà la decisione che verrà scelta è comunque un dato di fatto, che il sistema politico cinese si è reso conto della necessità di un maggiore coinvolgimento della popolazione nella vita pubblica e ciò costituisce la presa d'atto di un fenomeno che per lento che sia sarà ineludibile: il paese andrà incontro, probabilmente con i dovuti tempi, a forme di democrazia che cambieranno l'impianto attuale del potere.
Per la Cina le questioni marine diventeranno fondamentali
Se quello affermato nel discorso di apertura del diciottesimo congresso del partito Comunista Cinese dal presidente uscente Hu Jintao, corrisponderà al programma futuro della Cina, il mondo andrà incontro a tensioni sempre più forti, specialmente nell'area dei mari orientali. L'intendimento è di fare diventare il paese cinese una potenza di mare, tramite il rafforzamento dell'arsenale militare, sopratutto della marina, per salvaguardare i diritti e gli interessi del paese sul fronte marino, affinchè sia consentito lo sfruttamento delle risorse presenti sotto gli oceani. La dichiarazione arriva in un momento delicato, contraddistinto da forti tensioni con i paesi vicini per le questioni della sovranità circa diversi gruppi di isole contesi. Se il principale confronto diplomatico riguarda le relazioni con il Giappone, si stanno aprendo fronti molto delicati anche con il Vietnam e le Filippine, per il controllo di arcipelaghi contesi, sotto le cui acque sarebbero presenti ingenti giacimenti di petrolio e gas naturale. Il gigantismo dell'industria cinese e la sua necessità di espansione sempre ulteriore, ha fatto diventare il paese uno dei più grossi importatori di materie prime appartenenti al settore energetico, ma l'occasione di sfruttare direttamente riserve vicine alle proprie coste rappresenta una occasione troppo ghiotta per non essere sfruttata. A questo scopo il presidente ha annunciato che, sul fronte militare, la Cina compirà investimenti importanti, tali da accelerare la modernizzazione delle proprie forze armate, funzionale alla difesa nazionale, dove per tale espressione si pare volere intendere anche a quelle porzioni di territorio contese con altri stati. Il ruolo delle forze armate diventerà quindi, quello di assicurare la soddisfazione delle esigenze dello sviluppo nazionale, intesa come missione storica per il paese. Sono dichiarazioni che non nascondono velleità di dominio e sopratutto di scontro con quei paesi che vorranno opporsi ai programmi cinesi. Tali affermazioni arrivano anche, con una tempistica perfetta, dopo che Giappone ed USA, hanno varato le manovre militari congiunte nel mare di Okinawa, che non poco hanno irritato il governo di Pechino e sono, pertanto destinate ad irrigidimento ulteriore dei rapporti tra questi stati. Ma la questione non riguarda soltanto la sovranità e quindi lo sfruttamento degli arcipelaghi contesi, altrettanto importante è la questione della percorribilità delle vie marittime, solcate quotidianamente da navi cargo che trasportano merci destinate a tutto il mondo; ed anche non secondaria è la questione della pesca, spesso altrettanto occasione di scontri accesi. Difficile non leggere nelle parole del presidente cinese un avvertimento diretto sia ai paesi della regione, che agli Stati Uniti, di un mutamento di rotta di Pechino di fronte alle contese in corso; se finora, tutto sommato, l'atteggiamento ufficiale del governo non è mai andato aldilà di proteste ufficiali, più o meno dure, ma sempre nell'alveo del confronto diplomatico, l'intenzione che sembra prevalere pare quella di effettuare un gradino successivo per affrontare le questioni in sospeso. Se così sarà potrebbe essere l'avvio di una guerra fredda in versione orientale, che avrà preoccupanti ripercussioni sull'andamento dell'economia mondiale.
mercoledì 7 novembre 2012
Il risultato del voto americano restituisce un paese spaccato
Obama vince con un margine più ampio di quello previsto dai sondaggi, ma il quadro che il paese restituisce con il voto elettorale illustra una nazione spaccata. Il risultato delle urne dice, infatti, che il presidente ha ottenuto la riconferma grazie al voto della popolazione di colore, degli ispanici ed in generale delle minoranze etniche, sommate al voto femminile, mentre Romney ha avuto la fiducia degli uomini bianchi. Anche la divisione del voto per aree geografiche risulta molto netta, se le zone urbane hanno votato in massa per Obama con la percentuale del 62%, nelle zone rurali Romney ha vinto con il 59%, così come la fascia di età sotto i trenta anni si è espressa per il 60% per il presidente uscente, i più anziani, le persone oltre i sessanta anni, hanno votato per lo sfidante per il 56% del totale.
Ciò era stato largamente previsto, ma ora che questa composizione del voto è ufficiale, la frattura sociale presente negli Stati Uniti diventa materia di ampia riflessione. Se è pur vero che l'analisi del voto non presenta una sostanziale novità, questo stesso elemento fa rilevare come gli Stati Uniti si comportino politicamente secondo clichè largamente appurati. Ciò significa che è mancata una mobilità politica nella popolazione americana, che, in definitiva, si è mantenuta su comportamenti costanti nel tempo. Probabilmente mai come in questa elezione la differenza è stata fatta dalla capacità di mobilitare il proprio elettorato a recarsi al voto, uno dei pochi elementi di novità di queste elezioni, che è stato determinante nella strategia vincente di Obama. Con un maggiore astensionismo la vittoria repubblicana era praticamente certa, ma, va detto con sicurezza, la bravura di Obama, oltre a quella della sua macchina elettorale, è stata quella di sollecitare il proprio elettorato grazie alla sensibilizzazione su temi molto legati allo stato sociale ed all'opportunità di una vita migliore, che Romney non sapeva ne poteva stimolare. Malgrado le promesse non rispettate Obama resta comunque una alternativa migliore, in alcuni casi anche la meno peggio, rispetto a chi si basa ancora esclusivamente sul libero mercato e sulla speranza dei suoi effetti positivi. Tuttavia amministrare una nazione divisa in modo così netto, non potrà essere agevole. I toni con cui è stata condotta questa campagna elettorale dai repubblicani, che in molti casi hanno sfiorato il livore, sono stati il segnale di corresponsione con il proprio elettorato più profondo, in Romney non è mai apparsa la volontà di conquistare voti oltre il proprio bacino elettorale, la sua tattica era improntata esclusivamente a motivare fino all'eccesso i suoi potenziali elettori, con argomenti spesso scontati e di scarsa prospettiva. Il fatto che il candidato repubblicano sia poi uscito sconfitto significa soltanto che la sua tattica è stata perdente, ma il suo elettorato resta ben convinto sulle proprie posizioni. Ma quello che vale per Romney, vale in modo speculare per Obama, anche se per motivi diversi. Il rieletto presidente USA, ha provato a sfondare nel campo avversario, ma soltanto fino ad un certo punto, poi vista la praticamente totale impermeabilità dei ceti conservatori, ha abbandonato il tentativo e per acquisire consensi si è gettato a capofitto nell'opera di convincimento dell'elettorato ispanico e più in generale verso quello che, tradizionalmente, poteva portare più suffragi alla propria causa. Questo richiudersi su se stessi, più di un ripiegamento tattico e più di una razionalizzazione delle forze, appare la presa d'atto della frattura insanabile che attraversa il tessuto sociale americano e, cosa più importante, vale per entrambi i partiti, i quali sono anche espressione di una concezione dello stato inteso come amministrazione della cosa pubblica. Quello che viene meno è uno dei caposaldi della politica americana, che viene insegnato nei corsi di scienze politiche: il sistema statunitense è caratterizzato da una alternanza costante, perchè le differenze tra i due partiti, protagonisti della vita politica nazionale, sono minime. Queste elezioni, invece, hanno decretato, in modo definitivo, che questo teorema non è più valido: le differenze non solo non sono più minime, ma sono aumentate a livello esponenziale, perchè riflettono le diversità, sempre più profonde, presenti nella società americana. Certamente non è un processo che è iniziato con questa consultazione elettorale, ma è incominciato ben prima, ma mai come ora ha raggiunto il suo punto più alto. Una delle cause è da ricercare nel liberismo sempre più spinto che ha caratterizzato il paese da Reagan in poi, che ha concentrato la ricchezza nelle mani di pochi, eliminando definitivamente quello che era definito il sogno americano, la negazione delle possibilità e delle opportunità estese a tutti. La caduta di questo assioma diventa per Obama un'arma fondamentale per la sua prima elezione. Ma le promesse non mantenute, sia per l'ostruzionismo parlamentare, sia per la ragion di stato, potevano costituire un boomerang per le aspirazioni di rielezione. Romney non ha saputo cogliere questa opportunità ed ha preferito rivolgersi ad un ceto elettorale in parte condizionato dal neo conservatorismo miope dei tea party ed in parte agli arrabbiati che vedevano nella politica di Obama addirittura derive di tipo socialista. Queste considerazoni, tuttavia non fanno che confermare uno stato oramai costituito da compartimenti stagni sia politici che sociali, dove il blocco degli ascensori sociali ha alzato barriere invalicabili nella società americana. Ora per Obama la sfida è fare ripartire la mobilità sociale attraverso la quale cercare una nuova coesione, che permetta di attraversare i fossati che dividono i ceti sociali, nel rispetto delle rispettive differenze ideologiche.
martedì 6 novembre 2012
Aspettando le elezioni USA
Continua a regnare l'incertezza anche alla vigilia del voto americano. Gli analisti sono convinti che mai come per questa elezione sarà determinante il numero di elettori che si recheranno alle urne, per fare pendere la bilancia per un candidato rispetto all'altro. L'esiguo vantaggio di Obama non permette una previsione certa e gli stessi esperti delle agenzie demoscopiche, parlano di scarto tanto piccolo da rientrare nell'errore di valutazione ammissibile. Sarà quindi una presidenza decisa dalle esigue differenze, probabilmente intorno alle poche migliaia di voti, che si verificheranno nei distretti chiave. L'obiettivo delle complesse macchine elettorali, esaurita la fase dei comizi, diventa ora quello di convincere i potenziali elettori dei rispettivi schieramenti, che sono titubanti a recarsi alle urne ad esercitare il diritto di voto. Il fenomeno dell'astensione, tradizionalmente, danneggia il candidato democratico in quanto l'elettorato repubblicano ha una base solida di votanti assicurata, rappresentata dai ceti più ricchi, dalle fasce di età più elevate e da chi ha un livello di istruzione più alto. Con queste condizioni, anche piccoli impedimenti contingenti, che non permettono all'elettorato democratico l'esercizio del voto, possono essere determinanti per il conteggio finale. A bilanciare la sicura partecipazione al voto dei repubblicani, il partito democratico può vantare una macchina organizzativa maggiormente funzionante, capace, cioè di una maggiore mobilitazione dei suoi elettori, che è stata determinante nel 2008, quando l'entusiasmo per il candidato Obama, proveniente sopratutto dall'elettorato giovanile, ne favorì l'affermazione. Ma in questo segmento elettorale vi è, attualmente, una grossa parte di delusi, che non voteranno certamente per Romney ma si asterranno facendo venire a mancare suffragi, che potrebbero rivelarsi decisivi. Non solo, sia gli elettori bianchi, che le donne avrebbero voltato le spalle al Presidente in carica, con percentuali rispettive del meno trentasette e del meno sei per cento previste, rispetto alle scorse elezioni. Non per niente nelle fasi finali della campagna elettorale, il partito democratico si è concentrato sull'elettorato ispanico, che rappresenta il grande serbatoio a cui attingere per colmare i vuoti che dovrebbero venirsi a creare; ma questo è un elettorato che tende a non esercitare il proprio diritto di voto, pur simpatizzando in maggioranza per Obama, diventa così essenziale l'opera di convincimento in cui i volontari democratici si stanno producendo strenuamente. Contro Obama, che per ora è in vantaggio, anche se esiguo, nei sondaggi effettuati su chi ha esercitato il voto anticipato, vi è anche una migliore organizzazione della macchina repubblicana, rispetto a quella che sosteneva McCain, sul quale pesava la scarsa convinzione del partito come candidato alla presidenza; prova ne è il dato riguardante la raccolta dei fondi per la campagna elettorale di Romney, raddoppiata rispetto a McCain. Sono quindi ore convulse quelle che attendono gli USA ed anche il mondo intero, il risultato delle elezioni presidenziali USA, mai come in questo momento sarà gravido di conseguenze in entrambi i verdetti possibili.
La Cina irritata con il Commissariato ONU per i diritti umani per le denuncia sul trattamento dei tibetani
Dopo le dichiarazioni del Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, che hanno espressamente denunciato il governo cinese per la ripetuta e sistematica violazione di tali diritti, ai danni del popolo tibetano, la reazione di Pechino non si è fatta attendere. Complice l'attenzione mediatica a cui la Cina è sottoposta per la celebrazione del congresso del Partito Comunista Cinese, l'accusa del Commissariato ONU, ha assunto una rilevanza ancora maggiore, che è stata accusata molto dai dirigenti cinesi, come si comprende dal tono della risposta. Infatti Pechino ha opposto la più ferma opposizione, esprimendo delusione profonda per le accuse rivoltegli, affermando che la comunità tibetana gode di tutta la libertà politica, religiosa, culturale ed economica, come il resto dei cinesi. Se in altre occasioni sulle accuse rivolte all'azione repressiva sul popolo tibetano, Pechino ha, in molti casi, glissato o usato frasi di circostanza, tendenti a limitare la propria reazione per fare cadere la questione, la reazione di questi giorni è il sintomo di un nervosismo crescente tra le fila del governo, dovute, in parte all'attenzione rivolta da tutto il mondo alla transizione di potere ed in parte dovute al sempre più crescente interesse sulla questione tibetana, che rischia di essere la prima spina nel fianco della nuova dirigenza. Tuttavia lo schema difensivo ricalca quello classico usato da sempre: addossare la colpa delle dimostrazioni suicide dei monaci tibetani all'azione politica del Dalai Lama, il quale viene accusato di uso spregevole della vita altrui. Se la Cina crede di avere ragione sul suo comportamento in Tibet, risulta incredibile come possa difendersi con argomenti così poco convincenti, è chiaro che le dimostrazioni dei monaci stanno ottenendo una attenzione al problema tibetano, che Pechino ha troppo a lungo sottovalutato, sia dal punto di vista interno, che da quello esterno. La continua negazione dei diritti civili poteva essere attenuata con forme di riconoscimento della cultura tibetana, che potessero portare ad un compromesso sostenibile di convivenza per entrambe le parti, ma il rigido atteggiamento cinese ha portato all'esasperazione i tibetani, che, pur tra una censura molto ferrea ed impermeabile al passaggio delle notizie, hanno messo in pratica una protesta tremenda e tradizionale, capace di sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale, già di per se molto attenta al problema, grazie all'azione incessante e pacifica del Dalai Lama. La politica che uscirà dal Congresso del Partito Comunista in corso dovrà per forza misurarsi e confrontarsi con la questione tibetana, che potrà essere anche un termine di paragone molto probante per valutare il grado di apertura che il nuovo direttivo vorrà concedere a tutte le popolazioni e minoranze etniche presenti sul suolo cinese. In presenza di una continuità contraddistinta da una rigidità come l'attuale, la Cina è destinata ad avere grossi problemi, se, viceversa, verrà attuata una politica di aperture, certo graduali, per Pechino sarà più agevole amministrare la questione dei diritti umani; ma ciò non vale soltanto per i popoli di etnia differente, ma deve essere esteso a tutta la platea del popolo cinese e non può non essere esteso al mondo del lavoro, dove, finora, i diritti sono stati calpestati in nome della produttività. Il Tibet non sarà l'unico fronte per i nuovi dirigenti cinesi, gli scioperi e le dimostrazioni per ottenere migliori condizioni di vita, sono in costante aumento e segnalano la volontà delle classi più povere di avere un miglioramento delle loro condizioni di vita. Questi aspetti, etnico, economico e della rivendicazione dei diritti, non sono slegati perchè fino ad ora hanno subito un trattamento analogo improntato alla negazione ed alla repressione, ma l'evoluzione delle coscenze dei cinesi non permetterà più a lungo uno stato di eterna sudditanza.
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