Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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lunedì 29 agosto 2011
Il dibattito per il riconoscimento della Palestina sempre più vicino
Mentre si avvicina l'appuntamento per la discussione sul riconoscimento della Palestina all'ONU, fervono le trattative diplomatiche da ambo le parti, per guadagnare consensi alla propria causa. Israele, che teme fortemente un risultato positivo per i palestinesi, medita addirittura di disertare l'assemblea delle Nazioni Unite. Secondo calcoli di alcuni osservatori i paesi faverevoli alla Palestina sarebbero tra i 130 ed i 140, i dirigenti palestinesi stanno cercando anche l'assenso della UE, che, per altro, risulta al centro delle trattative anche da parte degli israeliani. Per Tel Aviv, l'eventuale riconoscimento porterebbe a tutta una serie di conseguenze negative sopratutto sul piano della strategia che il governo israeliano in carica sta attuando: dagli attacchi militari alla striscia di Gaza e Cisgiordania fino agli insediamenti dei coloni. In questo momento i territori palestinesi non hanno la dignità di stato e Israele gioca sul filo della legittimità della propria azione nei confronti del diritto internazionale, il riconoscimento muterebbe lo status della Palestina che potrebbe appellarsi alla stessa ONU in caso di essere oggetto di azioni militari entro i propri confini riconosciuti. Israele ha bisogno ancora di tempo per sistemare la questione dei territori affidati ai coloni in territorio palestinese, dal punto di vista della politica interna Benjamin Netanyahu è pressato dagli ultraortodossi, che costituiscono una stampella al suo governo, ma anche dal fronte pacifista che spinge per la ripresa dei negoziati di pace. La visione del governo israeliano in carica mira a guadagnare la massima porzione territoriale possibile ed il riconoscimento palestinese rappresenta un freno non da poco nei piani di Tel Aviv. Israele non seguito una vera e propria tattica per impedire il riconoscimento della Palestina, se non emettere vaticinii allarmanti sul terrorismo e sulla ricaduta internazionale di questo riconoscimento. All'opposto il comportamento di Abu Mazen, che ha mantenuto un basso profilo lavorando sotto traccia per il riconoscimento, che se ci sarà, rappresenterà, in gran parte un suo trionfo.
venerdì 26 agosto 2011
La dubbia leggitimità dell'uso della delibera ONU sull'intervento in Libia
Con l'approssimarsi della fine della guerra libica partono le domande sul reale rispetto delle risoluzione ONU, sull'intervento libico, che prevedeva solamente l'uso della forza per la sola difesa dei civili. In effetti non è andata così, l'uso sempre maggiore della forza aerea è stato integrato dai rifornimenti di armi ed apparati teconologici, istruzione degli insorti ed infine impiego di truppe straniere sul terreno libico. L'appoggio, quindi è stato pressochè totale, con uno sforzo logistico non indifferente anche sul piano economico. La certezza è che la protezione legale, sul piano del diritto internazionale, che forniva la risoluzione ONU, sia stata violata e che la stessa risoluzione sia stata usata come copertura per rovesciare il regime di Gheddafi. Non si vuole qui giudicare se la fine del governo del rais, ingiusto e sanguinario, sia stata giusta o meno, ma fare delle considerazioni sull'uso della risoluzione ONU che ne ha consentito l'annientamento. Gli attori principali sono stati Francia, Regno Unito ed in maniera più defilata ma non meno attiva, gli Stati Uniti. L'interpretazione più restrittiva della risoluzione dava alle forze armate, il cui impiego previsto riguardava ufficialmente la sola forza aerea, il compito di proteggere la popolazione civile in una sorta di neutralità tra i due contendenti. Non è stato così, come dimostrato dagli ultimi avvenimenti, anche volendo estendere l'interpretazione della risoluzione a termini più ampi, l'intervento armato dei volenterosi si è trasformato da subito in una alleanza con i rivoltosi. Ancora una volta si ripete che la caduta di Gheddafi rappresenta un fatto positivo, tuttavia Francia, Gran Bretagna, USA e gli altri stati che hanno partecipato alle azioni, nel quadro del diritto internazionale hanno compiuto una violazione, che non sarebbe stata tale se avessero dichiarato guerra formalmente al regime di Tripoli. Politicamente si obietterà che non era il caso di andare tanto per il sottile, ma la violazione della risoluzione ONU, per prima cosa rappresenta un pesante precedente, perchè non pare verosimile l'ipotesi di una qualche sanzione, anche solo in forma di ammonimento, ed in secondo luogo inficia l'autorità stessa delle Nazioni Unite. Ora questa è l'ennesima prova della necessità di una riforma strutturale dell'ONU, che preveda un sistema di pesi e contrappesi e che preveda, sopratutto la creazione di strumenti atti a garantirne l'effettiva autonomia. Solo in questi termini le Nazioni Unite possono finalmente assurgere al ruolo per cui sono nate. Dal punto di vista politico questa questione porrà senz'altro delle questioni, in special modo tra i componenti del Consiglio di sicurezza, dove l'astensione di Cina e Russia, ottenuta in maniera poco convinta, ha permesso la delibera sull'intervento in Libia. La questione di legittimità, non di opportunità, sulla quale non vi era comunque accordo, non potrà non essere sollevata e sarà interessante vedere come sarà risolta. Fortunatamente sarà impossibile per Gheddafi tornare al suo posto, ma in teoria, il diritto internazionale potrebbe tutelare il dittatore. Questo buco legale è da imputare alla coalizione dei volenterosi, che si è nascosta dietro alla risoluzione determinando la vittoria della parte avversa al colonnello in maniera non chiara. Il fatto di non dichiarare esplicitamente il proprio intento ne ha chiarito in modo ancora più limpido l'intenzione: la caduta di Gheddafi. Ma ha anche messo in risalto la debolezza dell'apparato del diritto internazionale ed in special modo delle organizzazioni internazionali.
L'investimeno cinese negli armamenti desta preoccupazione
La crescita militare cinese spaventa gli USA. Nel rapporto annuale del Pentagono si guarda con preoccupazione allo sviluppo che lo stato cinese sta dedicando alle proprie forze armate, con uno sforzo economico ingente. La Cina conscia del gap che la separa dalle forze armate di USA e Russia, sta compiendo passi da gigante sul piano tecnologico, modernizzando l'intero panorama della difesa, che, contando già sull'esercito più grande del mondo, deve portarlo a livelli più avanzati al pari delle dotazioni che sono negli arsenali delle forze armate più importanti. Il crescente peso economico della Cina ha, di fatto, variato le prospettive geo-politiche ed i conseguenti equilibri. Si guarda con preoccupazione agli investimenti militari cinesi sopratutto nella regione, dove la tensione è sempre palpabile per le dispute con il Giappone, la questione coreana, Taiwan e le contese territoriali con il Viet Nam. Come si può capire c'è più di elemento di possibile sviluppo di un qualche confronto che può trascendere a vie di fatto. Inoltre il mare di fronte alla Cina è una via commerciale molto trafficata e la prospettiva di una sua militarizzazione spaventa per gli impatti che può avere sull'economia. La Cina rigetta tutti questi timori contrattaccando e denunciando la relazione del Pentagono come una ingerenza indebita nei propri affari interni e presentando l'ammodernamento delle proprie forze armate come una normale prassi praticata in tutti gli eserciti del mondo. E' difficile obiettare qualcosa alle ragioni cinesi, tuttavia è anche condivisibile la preoccupazione americana per i crescenti investimenti in tecnologie militari praticati da Pechino. La Cina mira ad essere sempre più la grande potenza alternativa agli Stati Uniti, in virtù della enorme liquidità di cui dispone ed anche del know-how, che ha saputo sviluppare, grazie alla concentrazione di gran parte dell'industria elettronica mondiale, sta dimostrando di avere intrapreso con sicurezza questa strada, che passa, giocoforza, attraverso lo sviluppo del proprio arsenale. Ma una Cina con una forza armata molto forte può spaventare ed alterare gli equilibri mondiali? Il fatto che dietro a tanta potenza non ci sia una democrazia, ma una dittatura, non può che mettere in allarme l'occidente, d'altro canto le politiche particolarmente aggressive che la Repubblica Popolare Cinese sta portando avanti da tempo in campo economico, con vere e proprie colonizzazioni di paesi poveri ma ricchi di risorse, denunciano intenti non propriamente pacifici. Se si aggiunge la grave congiuntura economica, non si può non prevedere che le condizioni per un cambio dell'ordine mondiale non possano essere che mature. La Cina ha già dimostrato di sapere piegare al suo volere gli USA, grazie al grande investimento nel debito americano, tanto da fare dichiare al vice presidente Biden che per gli Stati Uniti la territorialità di Pechino è una, con buona pace di Tibet e Taiwan. Inoltre l'atteggiamento cinese verso i diritti umani non è cambiato, continuando a perseverare sulla linea delle repressioni. Quindi investimenti militari così massicci devono destare una preoccupazione ben ponderata e dare vita a trattative, sul piano internazionale, che favoriscano i piani di disarmo a livello mondiale; viceversa le premesse, da perte di Pechino, non sono affatto buone.
giovedì 25 agosto 2011
La Cina rivendica le giapponesi isole Senkaku
Due navi cinesi, ufficialmente pescherecci, sono penetrate nelle acque territoriali giapponesi, nel tratto di mare vicino alle isole Senkaku. La questione di queste isole, poste nel Mar Cinese Orientale, ritorna periodicamente alla ribalta; la Cina le rivendica per la vicinanza e per tale ragione le ritiene facenti parte del proprio territorio. Le isole Senkaku, anche se disabitate, sommano alla già abbondante pescosità del proprio mare, la presenza di giacimenti petroliferi, scoperti negli anni settanta del secolo scorso. Da questo momento si è determinata la riapertura della contesa, cui partecipa, per altro, anche Taiwan, rivendicando le isole come propria sovranità, perchè, effettivamente, sono solo a sette chilometri dal nord est del paese. In realtà il corso storico della vicenda partì nel 1895, con l'occupazione nipponica delle isole, precedentemente cinesi; con la sconfitta della seconda guerra mondiale le Senkaku entrarono a fare parte dell'amministrazione USA, che le restituì al celeste impero nel 1971. L'ultima volta che navi cinesi penetrarono nelle acque delle Senkaku fu il 2008; come allora anche oggi l'ambasciatore cinese è stato convocato dal governo giapponese, ma la versione cinese resta sempre la stessa: le isole fanno parte di Pechino. Tra Cina e Giappone le relazioni sono sempre tese, per ragioni storiche, ma ora, sempre più per ragioni economiche, inoltre la Cina è l'unico alleato della Corea del Nord, la cui propensione per gli armamenti nucleari preoccupa molto Tokyo. Il pericolo di una escalation, per lo meno diplomatica, della tensione tra le due capitali orientali costituisce fonte di preoccupazione per l'equilibrio regionale, già messo in pericolo dal confronto tra le due Coree. Le ripercussioni di una eventuale crisi tra Cina e Giappone potrebbero poi coinvolgere tutti i paesi dell'area facendo risaltare le tensioni già presenti. Dirimere la questione sarebbe comunque difficile, negli anni 70, quando il governo USA cedette al Giappone le isole, la Cina non rivendicò il territorio, perchè aveva bisogno della distensione con gli Stati Uniti, soltanto diversi anni dopo Pechino iniziò a rivendicarle, ma difficilmente il diritto internazionale può dare ragione ai cinesi. Soltanto una variazione delle intenzioni giapponesi, che non è da aspettarsi, potrebbe favorire la Cina. La speranza è che la situazione non degeneri con atti contrari alla pacifica convivenza tra i due stati.
Hamas non è l'attuale nemico di Israele
La situazione in Israele continua ad essere in bilico, la tensione è sempre palpabile e non riesce a sbloccarsi. La causa dell'incertezza è dovuta alla serie di botta e risposta armati, tra esercito della stella di David e terroristi. Questa causa è però dovuta al fatto che Israele ritiene responsabile Hamas di tutto quello che proviene dalla striscia di Gaza, incluso razzi ed attentati. Hamas, per contro si è dichiarato più volte estraneo agli attentati di cui recentemente Israele è stato vittima. La politica di Hamas è sempre stata quella di rivendicare gli attentati, non si vede la ragione per cui, in una fase di tregua e con in ballo la questione del riconscimento della Palestina all'ONU, debba fare cambiare strategia. Del resto è Israele stesso che dichiara di ritenere Hamas responsabile di quello che proviene da Gaza, quindi non lo ritiene ne il mandante ne l'esecutore degli attentati. Israele fa una equazione terrorismo uguale Hamas, interpretandola, però in maniera più estesa: ritenendo colpevole Hamas di non riuscire a controllare tutta l'attività che si svolge a Gaza. Ora questo è evidente, è lampante, cioè, che Hamas abbia perso il pieno controllo della striscia, sopratutto da quando la frontiera con l'Egitto è aperta ed i flussi di persone e di materiale non avvengono più attraverso i tunnel sotterranei, che permettevano un controllo più rigido. Per Hamas quella che sembrava una benedizione, l'apertura della parte egiziana della frontiera, si sta trasformando in un boomerang pericoloso. Ciò avviene anche per l'ottusità del governo israeliano, impegnato costantemente a ribadire al suo popolo, l'applicazione indiscriminata della legge del taglione, anche contro il bersaglio sbagliato. Questo non fa che alzare la tensione e potrebbe veramente scatenare la reazione di Hamas, che va detto, per il momento è riuscito a tenere i nervi abbastanza saldi. Anzichè cercare una collaborazione con il nemico storico inquadrato in Hamas, per capire da dove vengono gli attentatori, Tel Aviv preferisce esasperare la situazione, mettendo in una situazione di pericolo costante la propria cittadinanza. Quello che offusca la vista al governo di Israele è l'avvicinarsi della data fatidica della battaglia diplomatica per il riconoscimento della Palestina, mai una tale offensiva pacifica ha spiazzato un governo israeliano. Il timore che il mondo riconosca la stato palestinese come dato di fatto, ha determinato un sempre maggiore isolamento dello stato israeliano. La mancanza di sapere affrontare in modo fattivo e positivo la questione sta paralizzando le mosse del governo di Tel Aviv, che pare agire come un pugile suonato, che mena colpi quasi a casaccio. Per Hamas, comunque, la questione deve essere risolta il prima possibile: non permettere di nuocere ad infiltrati provenienti da fuori, è la necessità primaria del momento e l'unico modo per ristabilire la situazione di tregua precedente, che è la condizione necessaria per affrontare il momento del dibattito all'ONU.
mercoledì 24 agosto 2011
La ricostruzione della Libia passa per l'ONU e la NATO
La NATO cerca di ritagliarsi un ruolo all'interno della ricostruzione della Libia. Pur non avendo schierato truppe di terra, l'azione aerea dell'alleanza atlantica è stata un fattore importante per portare alla vittoria i ribelli anti Gheddafi. Il nuovo governo non potrà esimersi dall'affidare un qualche incarico alla NATO, che mira ad inserirsi nella transizione libica per evitare pericolose infiltrazioni di elementi facenti parte dell'estremismo religioso. La Libia è ritenuta strategica dall'alleanza atlantica per presidiare la sponda sud del Mediterraneo, in ottica di prevenzione del terrorismo. Usata spesso come ponte per i profughi, dalla Libia sono transitati e possono transitare elementi, che sono potenzialmente arruolabili in formazioni terroristiche con base in Europa. Tuttavia il ruolo della NATO dovrà essere non di primo piano, per non compromettere l'immagine del nuovo governo, come troppo filo occidentale. L'idea è di operare sotto l'egida dell'ONU, che cercherà sicuramente di vigilare sul delicato processo di transizione, che non si presenta facile. Quando finalmente saranno spenti i fuochi della guerra, non sarà facile raggiungere accordi soddisfacenti per tutte le variegate componenti del mondo che si è ribellato a Gheddafi. La Libia è una società tribale molto frammentata, con antagonismi anche forti tra i vari clan, ai quali vanno sommati i risentimenti di anni verso quelle tribù che hanno materilamente appoggiato Gheddafi, traendone grossi vantaggi a scapito delle tribù più avverse la dittatore. Si tratta anche di riequilibrare l'equilibrio tra le città del paese con Tripoli che dovrà cedere parte della sua importanza a vantaggio di città come Misurata, in prima fila nella guerra. Proprio per questa società frammentata, non governata più dal pugno di ferro di Gheddafi, sarà necessaria, almeno nei momenti immediatamente successivi alla fine certa del conflitto, una forza armata di interposizione che eviti pericolosi contrasti tra i vincitori, finora tenuti insieme dalla comune avversione alla dittatura. Quello che nascerà sarà un paese potenzialmente molto ricco, ma che dovrà ricostruire il suo tessuto sociale e l'appartenenza stessa alla nazione, sopratutto riconosciuta come tale. Sarà una nazione da ricostruire da zero necessaria di tutela per avviarsi alla democrazia, forma di governo conosciuta solo indirettamente attraverso internet. In questo quadro l'intervento dell'ONU, come organismo sovranazionale capace di fornire direttive ed aiuti, coniugato ad altre realtà come la NATO, la UE e l'Unione Africana sarà senz'altro necessario e dovrebbe garantire una adeguata certezza del risultato.
Nasce in Turchia il Consiglio nazionale contro Assad
Gli oppositori del leader siriano mirano a costruire un Consiglio Nazionale sulla falsariga di quello libico. Dovrebbe trattarsi di un organismo di coordinamento dell'opposizione al regime siriano, collocato fuori dal territorio di Damasco, per avere maggiore tutela e libertà di azione. Verosimilmente la sede sarà in Turchia, con il tacito appoggio del governo di Ankara, preoccupato per la piega che hanno preso gli eventi nel paese vicino. La Turchia ha più volte manifestato preoccupazione per i disordini in Siria, che l'hanno anche toccata materialmente con la fuga di migliaia di siriani, divenuti profughi sul suolo turco. Ad Ankara è toccata l'organizzazione materiale dei campi profughi al confine con la SIria. La pericolosità di un regime fortemente destabilizzato non fa comodo al crescente sviluppo economico turco, che ha bisogno, per sviluppare i propri commerci, delle vie di comunicazione siriane. Dopo il rifiuto della UE all'ingresso della Turchia in Europa, Ankara ha volto il proprio sguardo verso oriente, sviluppando una fitta rete di relazioni industriali e commerciali, che necessitano di una concreta stabilità dei partner economici. Frattanto la Siria, cercando di placare le reazioni internazionali, ha ospitato gli ispettori ONU, che devono accertare il rispetto dei diritti umani, tuttavia, la missione non pare avere avuto grande esito perchè le forze di sicurezza siriane hanno impedito il lavoro della commissione per ragioni di sicurezza. Ancora una volta il regime di Assad ha lamentato di essere vittima di forze terroristiche di matrice islamico estremista. Il Consiglio nazionale degli oppositori si prefigge di tenere viva la focalizzazione internazionale proprio per evitare che il mondo creda al complotto contro Assad, con l'intento di rovesciare il regime, tutt'altro che saldo al comando del paese.
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