L'evoluzione della questione delle colonie israeliane costruite su territori palestinesi prende una via inaspettata e destinata ad aumentare la tensione. Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto la creazione di un pool di specialisti per cercare di dare una via legale alla legittimità degli insediamenti sui territori. Oltre che illegale per la stessa legge israeliana, perchè in contrapposizione con la posizione della Corte Suprema, che dal 1979 considera illegali gli insediamenti ebraici costruiti sui terreni privati palestinesi, questa novità è in contrasto con gli stessi ordini impartiti dal governo in carica, che prevedono, per l'esercito, l'ordine di smantellare diverse colonie. Inoltre le stesse autorità israeliane considerano fuori legge, tutte le colonie costruite dopo il 2001, a prescindere anche dalla regola che considera legali quelle costruite sulla base della proprietà della terra.
La comunità internazionale, abbraccia una visione più ampia, considerando illegali tutti gli insediamenti posizionati nella West Bank ed a Gerusalemme Est occupate fin dal 1967. Netanyahu, con questa decisione, si dimostra ostaggio della estrema destra ebraica e mostra scarsa lungimiranza e poca attitudine all'esercizio del governo del paese; infatti una decisone tale mostra il fianco ad una prevedibile serie di critiche senza possibilità di replica. La base legale che il premier vorrebbe utilizzare, per rendere legali le colonie dovrebbe costruirsi sul principio ottomano (il che sarebbe un aspetto comico, se non fosse un tragico ossimoro) che prevede che la terra incolta o abbandonata sia destinata allo stato. Ora è evidente, che anche si volesse applicare una regola di uno stato che non esiste più, totale contraddizione giuridica, pur recependola nel proprio ordinamento, non si vede come si possa conciliare la destinazione dei terreni ad un'altra entità statale, soltanto confinante con lo stato legittimo. In questo modo si viola espressamente il diritto internazionale ed anche quello civile. Se il capo del governo israeliano intende controbattere con questa mossa all'operazione di Abu Mazen presso l'ONU, non fa altro che confermare la propria pochezza e rende esplicito il proprio pensiero di potere contare sempre sugli USA, anche se è chiaro che il Presidente americano non può che condannare questo espediente. Netanyahu gioca d'azzardo contando sulle prossime elezioni americane e sulla necessità per Obama del voto ebraico. Ma la sensazione è che questa alzata d'ingegno possa rompere una corda già molto consumata, gli americani, infatti, si sono focalizzati maggiormente sui problemi di casa propria ed addirittura, per Obama una condanna esplicita di Israele potrebbe costituire una boccata di ossigeno nei sondaggi.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 11 ottobre 2011
La Birmania libera 6.300 prigionieri
La Birmania, messa alle strette dalle sanzioni di UE ed USA, annuncia la liberazione di 6.300 prigionieri. Tuttavia non viene precisato dagli organi statali birmani, se sono inclusi anche i prigionieri politici. La richiesta degli Stati Uniti e dell'Unione Europea verteva sul rilascio di circa 2.100 prigionieri politici, oggetto, quindi di abusi circa i propri diritti civili. Ed è proprio la questione sui diritti umani, non rispettati dalla passata giunta militare birmana ad essere la causa delle sanzioni di America ed Europa. Il nuovo governo birmano, pur avendo una impronta più libertaria è comunque espressione dei militari, che sono il vero soggetto forte dietro al governo. Ma la pressione sia internazionale, che interna, sta costringendo al cambiamento, seppure lento e graduale, il governo del paese, che sta operando progressive aperture in favore dei diritti civili e politici. I reclusi liberati rientrano nel piano avanzato dal governo al Presidente del paese, che richiedeva il rilascio dei cosiddetti prigionieri di coscienza e quelli che non costituiscono una minaccia alla stabilità dello stato ed alla pubblica tranquillità del paese. Con questa misura il governo della Birmania spera di attenuare la pressione di cui è oggetto e di cancellare le sanzioni per inserirsi a pieno titolo nell'economia della regione.
lunedì 10 ottobre 2011
Per l'Egitto il problema dell'intolleranza religiosa
La primavera egiziana rischia di frantumarsi sugli scogli dell'intolleranza religiosa. I gravi incidenti de Il Cairo riflettono una situazione sempre sull'orlo della crisi ed a rischio di potenziali incendi. Il movimento di liberazione contro la dittatura di Mubarak è stato essenzialmente privo di connotazione religiosa, anche se la preparazione tattico logistica dei Fratelli musulmani ha agevolato e di molto la ribellione di piazza. Tuttavia il movimento islamico ha mantenuto un basso profilo, accodandosi insieme agli altri partiti e movimenti per le istanze di libertà per l'Egitto. Le reazioni dei copti sono state invece piuttosto fredde alla rimozione di Mubarak. In effetti la minoranza cristiana sotto il regime caduto, godeva di una maggiore protezione, che non nella fase attuale di transizione, dove l'esercito, di fatto al potere, non riesce o non vuole garantire una adeguata salvaguardia alle persone ed alle cose copte. La scintilla degli ultimi sanguinosi incidenti è stata proprio uno sfregio ad una chiesa copta, che è stata incendiata da estremisti islamici. Il vuoto di potere che si è venuto a creare dalla caduta di Mubarak, facilita i movimenti dei gruppi più estremi sia da parte islamica che cristiana. Il futuro dell'Egitto rischia di avvitarsi sul tema della libertà religiosa, pur essendo un paese a maggioranza islamica, risulta impossibile non tenere conto del 10% di popolazione copta; il dubbio è questo: è matura la nazione per esercitare una democrazia ed un autogoverno che non si fossilizzi sulla questione religiosa? Se questa maturità manca, per l'Egitto rischia di aprirsi una contesa che può diventare molto pericolosa, fino a sfociare in una autentica guerra civile; inoltre già molti copti hanno o stanno per lasciare il paese, indebolendo quella peculiare funzione di diversità che può essere, invece un elemento di stabilità per il nuovo governo. Senza una pacificazione nazionale, uno degli scenari più probabili che si apre è il governo "sine die" delle forze armate, che possono utilizzare il pretesto come normalizzazione del paese nella direzione che più conviene alle alte gerarchie con le stellette, con la conseguente soppressione delle garanzie fondamentali per quanto riguarda i tanto ricercati diritti civili. Se così sarà il fallimento della primavera egiziana sarà completo.
La FAO preoccupata per l'aumento dei prezzi agricoli
La FAO suona l'allarme per gli aumenti e l'elevata volatilità dei prezzi dei generi alimentari. I dati registrati a livello mondiale suscitano una vera e propria preoccupazione per la nuova crisi a livello planetario che rischia di innescarsi a breve. Mentre gli effetti nefasti della crisi alimentare del Corno d'Africa sono ancora sotto gli occhi di tutti, le conseguenze delle crisi finanziarie e delle guerre, possono causare il dilagare di nuove emergenze legate al fattore cibo. Innazitutto il costo dei combustibili, anche dovuto alla guera di Libia ed in generale alle dimostrazioni legate alla primavera araba, ha inciso fortemente sui costi di impresa, andando a contribuire al rialzo del prodotto finale. Ma il costo del genere agricolo risente anche della nuova tendenza di impiegare vasti terreni alla coltura di prodotti destinati a diventare bio-carburanti, diminuendo, di fatto, la quantità di produzione di generi alimentari, risultando un nuovo elemento di aumento del prezzo. La preoccupazione della FAO si incentra, in special modo, sulle conseguenze per i piccoli agricoltori, del terzo e quarto mondo, che costituiscono una parte essenziale della società di quei paesi che non possono vantare una più complessa organizzazione produttiva. Il ruolo sociale di produttori in quelle economie, svolto dai piccoli coltivatori è fondamentale per prevenire la denutrizione ed assicurare le condizioni di vita basilari alla cittadinanza. Aumenti di componenti che concorrono alla determinazione finale del prezzo possono avere anche conseguenze psicologiche sul lavoro dei piccoli produttori agricoli, infatti se il margine di guadagno diminuisce, si abbassa anche la disponibilità all'aumento dell'investimento sia finanziario, che lavorativo. Il presidio assicurato dai piccoli agricoltori è ritenuto, dalla FAO, fondamentalmente strategico nel quadro della lotta alla denutrizione, pertanto focalizzare i problemi dei piccoli produttori, significa sapere dove intervenire per prevenire le crisi. Infatti i dati raccolti indicano una direzione di intervento per le Organizzazioni internazionali che preveda aiuti economici integrativi, sia gratuiti che a tassi particolarmente vantaggiosi, per alleviare le difficoltà economiche dei piccoli produttori in modo da potere garantire la certezza delle quantità di raccolto. Dovrebbe essere un interesse anche delle nazioni più ricche, al di la delle pure intenzioni umanitarie, cooperare per questi risultati, infatti alcune delle maggiori cause di migrazione sono la fame e la carestia. Consentire uno sviluppo sostenibile per i paesi più poveri significa calmierare anche i processi migratori e quindi anche combattere in modo preventivo ed efficace fenomeni di potenziale delinquenza, innescati dalla povertà assoluta.
sabato 8 ottobre 2011
Redistribuzione: una necessità mondiale
Per una volta gli USA arrivano dopo, non fanno tendenza e sono ad inseguire. Fa specie vedere che gli Stati Uniti si accodano al sentire sociale di movimenti che stanno tracciando la strada in nome di una diversa percezione dell'ordine presente. Anche se può sembrare strano accomunare la piazza egiziana, gli indignados spagnoli, le tendopoli di protesta israeliane ed i cittadini che occupano Wall Street, esiste un denominatore comune che associa persone di diversa religione, etnia e possibilità: manifestare contro le enormi differenze generate da storture del sistema economico ed anche politico. E' vero che per gli egiziani, e prima per i tunisini, poi i libici e via di seguito l'enorme seguito delle primavere arabe, la molla che ha fatto scattare la ribellione è stata individuata nella mancanza di libertà derivante dalle dittature, ma anche l'aspetto economico ha pesato in maniera determinante per la discesa in piazza. E' questo l'aspetto che più accomuna sud e nord del mondo, a volte vicini anche fisicamente, solo poche miglia di mare con la Spagna, la mancanza di opportunità causata dalla scarsa redistribuzione del reddito in favore di concentrazioni sempre maggiori della ricchezza. Che sia in ragione di sistemi dittatoriali di tipo politico o più soft, di tipo prettamente finanziario, la compressione delle possibilità, della restrizione del margine operativo delle risorse economiche della maggioranza dei cittadini, ha chiaramente superato il livello di guardia. Negli Stati Uniti, non in Egitto, il paese delle opportunità, del sogno americano, l'uno per cento della cittadinanza detiene la gran parte della ricchezza a discapito del restante novantanove per cento. Ci sono dati, tra le pieghe delle statistiche americane, che si possono definire soltanto orribili; dati che segnalano una povertà terribile nel paese più ricco del mondo: uno per tutti la vita media del bracciante agricolo statunitense è di soli 49 anni. Così si spiega la velocità di diffusione, una vera e propria macchia d'olio, della protesta negli USA, che malgrado le tante avvisaglie, sta cogliendo di sorpresa i governi statali e quello federale. Per ora la sola risposta è stata una ondata indiscriminata di arresti che segnala il chiaro disorientamento della politica americana. Difficile prevedere come andrà a finire, ma questa volta senza una radicale riforma del sistema finanziario, è molto probabile che chi dimostra possa aumentare in modo esponenziale. Per Obama si tratta di un grosso problema, alla vigilia delle elezioni. Chi va in piazza è lo zoccolo duro del suo elettorato, senza quei voti una riconferma è impossibile, ma per le riforme di cui c'è bisogno, occorrerebbe avere la maggioranza alla camera, dove i repubblicani operano un vero e proprio fuoco di sbarramento a difesa del liberalismo più spinto, vero colpevole della crisi economica. Tuttavia proprio quelle leggi del mercato che hanno originato lo sfascio attuale potrebbero venire in aiuto dei dimostranti. La contrazione della produzione dei paesi emergenti, entrati nel vortice dell'inflazione, provocherà una riduzione del PIL mondiale, a quel punto solo una diversa allocazione delle risorse, operata per legge potrà salvare il mondo in cui viviamo. Una nuova visione della fiscalità dovrà essere il primo passo per girare i capitali finanziari verso investimenti produttivi in grado di assicurare lavoro e consumi. L'obiettivo deve essere redistribuire la ricchezza in proporzioni più favorevoli per la maggioranza dei cittadini, assunto che vale per tutti i paesi. Senza diminuire il peso della finanza il destino è una sommossa continua e continuata.
venerdì 7 ottobre 2011
La Russia preoccupata per i missili USA in Europa
La Russia guarda con preoccupazione agli sviluppi tattici dello scudo spaziale che gli USA stanno incentrando in Europa. L'episodio che ha fatto innalzare la tensione è l'accordo tra USA e Spagna per l'uso della base navale di Rota da parte di quattro navi da guerra della marina statunitense. La Russia vive come un accerchiamento gli impianti missilistici americani presenti in Europa e giudica un pericolo per la stabilità continentale la mancanza di accordi condivisi tra tutti i paesi interessati dal raggio di azione dello scudo spaziale. L'aumento del potenziale missilistico degli USA in Europa, è il vero nodo della questione. Mosca vede variare gli equilibri a suo sfavore a pochi chilometri dalle sue frontiere e pur non essendo in corso con gli USA alcuna diatriba, vuole preservare la sua capacità offensiva ed anche difensiva, senza che queste siano messe in discussione da mutati rapporti di forza. In parte si può ascrivere questo timore ad un retaggio proveninente ancora dalla vecchia contrapposizione est-ovest, di cui l'URSS era uno dei due poli centrali. La nostalgia dell'impero sovietico, per lo meno sul tema della politica estera e della difesa, è sempre presente sia nella classe dirigente che nella popolazione russa ed è una leva da usare quando si è in crisi di consensi. Tuttavia ciò non basta a spiegare l'allarmismo russo, occorre anche considerare la situazione geopolitica di Mosca, che si trova un poco al margine delle grandi decisioni internazionali. Sorpassata dal crescente attivismo cinese, che usa l'espansione economica come vettore per aumentare il proprio peso politico, e fuori dall'asse decisionale USA-UE, Mosca non riesce a riprendere il ruolo che aveva negli anni '80 dello scorso secolo, pur avendo ancora potenzialità da grande potenza. Ma la Russia paga la scarsa influenza che può vantare sul resto del mondo, non ha saputo mantenere gli stretti legami con le repubbliche nate dalla disgrgazione dell'URSS, se non per pochi stati satelliti e non ha saputo neppure allargare la propria influenza verso quei paesi emergenti, che potevano avere bisogno di un alleato forte per portare avanti le proprie politiche. La Russia si trova così a dovere soffrire per un senso di inferiorità sul proprio continente, tuttavia è pur vero che la capacità dei missili americani presenti in Europa sarebbe in grado di garantire di colpire in maniera significativa il territorio russo. Sarebbe questa una occasione per ridiscutere degli armamenti presenti sul suolo del vecchio continente, per ripensare un diverso approccio, che preveda un sempre minore impiego di questi armamenti di dissuasione.
L'UNESCO riconosce il diritto alla Palestina di essere uno stato
L'UNESCO riconosce a maggioranza, 40 voti su 58, il diritto della Palestina ad essere riconosciuto dall'ONU come 194° stato delle Nazioni Unite. Dei diciotto mancati consensi, soltanto quattro paesi hanno votato espressamente contro: USA, Germania, Romania e Lettonia, mentre quattordici sono state le astensioni, tra cui si contano Francia e Spagna. L'Europa, quindi, continua a non avere una posizione univoca sulla questione, se non quella della necessità di riprendere i negoziati. E' una posizione pilatesca, che rimanda ad altri la gestione della questione e non favorisce quel ruolo di preminenza internazionale che la UE vuole darsi. Del resto sono proprio posizioni come quella europea e di molti paesi che compongono la stessa UE, ad avere costretto i dirigenti palestinesi a muoversi autonomamente verso la richiesta del riconoscimento internazionale, quale extrema ratio del blocco dei negoziati, di fatto imposti dal governo israeliano ed avallati dalla pochezza della diplomazia USA. Con il riconoscimento dell'UNESCO, agenzia ONU per l'educazione, la scienza e la cultura, la Palestina continua la sua manovra di accerchiamento diplomatico di Israele, costretto a mandare giù bocconi sempre più amari sul piano internazionale. Gli USA, sempre più in ostaggio dell'elettorato ebraico, contestano con fermezza, per mezzo di Hillary Clinton, la decisione dell'UNESCO, e continuano nella loro linea che non prevede uno stato palestinese senza negoziazione, ma di fatto, non esercitano la loro influenza sul governo israeliano per la ripresa delle trattative, che Tel Aviv, peraltro, vuole solo a parole, continuando ad permettere l'instaurazione di nuove colonie in Cisgiordania. Per come si sta evolvendo la situazione non si può non dare ragione ad Abu Mazen per la sua tattica pacifica ed efficace capace di portare all'attenzione del mondo il problema palestinese, alla fine è palese che per i palestinesi è l'unica soluzione praticabile.
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