Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 28 febbraio 2012
L'affermazione dei partiti islamici nella sponda sud del Mediterraneo
Viste dal mondo occidentale le rivoluzioni nord africane, che hanno sbaragliato dittature da lungo al potere, non potevano che riscuotere la simpatia di gran parte della società. Soltanto poche voci erano fuori dal coro, da un lato chi temeva contraccolpi pericolosi, proprio per il mondo occidentale conseguenti alla caduta di regimi che facevano comodo sia al mondo economico che alla stabilità geopolitica, dall'altro chi prefigurava la possibile salita al potere di tutto un movimento, peraltro variegato, che fosse rispondente agli ideali musulmani nella sponda meridionale del Mediterraneo. Pur con queste riserve l'opinione pubblica e sopratutto i governi occidentali hanno finito per sostenere in un modo o nell'altro questi moti che sembravano partiti dalla popolazione, in modo spontaneo e diretto. Quello che tranquillizzava gli occidentali era che i movimenti islamici, sopratutto quelli più radicali, parevano essere, nella maggiore delle ipotesi dei comprimari al pari di formazioni che parevano ricalcare l'assetto delle formazioni politiche dell'occidente. Movimenti non confessionali che rivendicavano diritti civili di democrazia e di pari opportunità: cioè la versione araba di quegli embrioni che avevano poi dato vita ai partiti e su cui si basa tuttora la costruzione delle democrazie occidentali. In definitiva quello che si attendeva era una copia dei nostri sistemi politici trasferita pari pari su paesi di diversa cultura e di diversa storia. Il primo errore è stato quello di sostituire la tecnologia con lo scorrere del tempo, molti hanno infatti pensato che la velocità della trasmissione delle idee potesse surrogare la grande quantità di tempo necessaria a costruire le democrazie occidentali, peraltro tuttora imperfette, che si sono evolute nel tempo anche grazie a enormi sterzate politiche ed idee sedimentate nel tempo nella mente e nel cuore delle persone. I manifestanti però costituivano soltanto un'avanguardia di società arretrate, che hanno visto l'evolversi della situazione da lontano, legati ai loro standard culturali, dove spesso la religione costituiva e costituisce un rifugio sicuro. Questa spaccatura sociale ha determinato fondamentalmente il successo delle formazioni islamiche avvenuto, è bene sottolinearlo, in elezioni totalmente democratiche. La sorpresa in occidente per l'affermazione di questi partiti anche in quei paesi arabi tradizionalmente tolleranti, come la Tunisia, rivela una miopia dell'analisi occidentale che ha determinato una previsione fallace. Quello che non è stato considerato a dovere è stata l'azione capillare dei movimenti religiosi che costituivano l'unica alternativa al potere dominante all'interno di società spesso chiuse in se stesse. Di fronte a questa struttura sociale, i giovani che usavano facebook e twitter, magari anche occidentalizzati per esperienze migratorie, non erano che la minoranza. Ora il rischio concreto per queste avanguardie, che hanno lottato credendo di portare i propri paesi verso un'affermazione delle democrazie come quelle dell'Ovest, è di vedersi governati dalla Sharia e questo rischio vale anche per i paesi della sponda opposta del Mediterraneo: trovarsi sulla porta di casa nazioni vicine governate da sistemi teocratici, fatto che non può essere giudicato positivo nell'ambito dello sviluppo delle relazioni tra gli stati. Inoltre vi è un'implicazione di natura geopolitica da non trascurare: l'affermazione di partiti così simili in tutta la fascia nord africana, perchè anche in Libia, se riuscirà a superare i conflitti tribali interni, sarà così, rischia di innescare un fenomeno di panarabismo che pareva sopito dal potere esercitato dalla dittature. Per l'Europa potrebbe avvenire il fatto di avere di fronte, sia in senso figurato che materiale, un soggetto particolarmente coeso, capace di essere un alternativa nel Mediterraneo e non più un possibile alleato. Non era questo che gli stati, anche impegnati in prima persona come nel caso libico, si aspettavano. Questo perchè si parte dal presupposto che situazioni simili siano più facili da gestire; ma è stato appunto questo l'errore di valutazione delle nazioni occidentali, non tenere conto di situazione differenti che, inevitabilmente si sarebbero presentate come alternative a quelle garantite dalle dittature, perchè imposte da regimi dispotici, che fungevano da cuscinetto tra le esigenze occidentali e le tendenze dei popoli. La reazione delle popolazioni finalmente affrancate dai dispotismi è stata di andare verso l'unica istituzione che è sempre rimasta presente a fare da riparo ai modi di governo: la religione. Non era poi difficile da predire, con tali basi di partenza, ma il ruolo delle tecnologie, che c'è stato, ed stato molto rilevante, ci ha reso ciechi sulle implicazioni future, del momento cioè, nel quale tutto il corpo sociale è stato chiamato ad esprimersi con le normali regole della democrazia. La speranza ora è che si affermi un modello tipo quello turco, dove un il partito al potere, pur essendo confessionale, è di matrice moderata, ma la Turchia ha altre basi sociali sia di istruzione che di sviluppo, e rispetto ai paesi della fascia del Mediterraneo del sud, può rappresentare un punto di arrivo ma, per ora non di partenza. Con questa situazione è bene che le istituzioni occidentali, che si occupano di politica internazionale, sviluppino un modo nuovo di rapportarsi con questi nuovi governi teso al rispetto ed alla comprensione comune, cercando nuovi terreni di dialogo, che possano permettere forme, non solo di convivenza, ma di sviluppo conveniente ad entrambe le parti.
lunedì 27 febbraio 2012
Putin verso l'elezione
Mentre si avvicina la data del 4 Marzo, giorno delle elezioni presidenziali in Russia, nel paese cresce la protesta contro il candidato favorito Putin. L'opposizione mette in scena proteste spettacolari, come la creazione di una catena umana di sedici chilometri, che ha circondato il centro di Mosca, dove sono state impegnate 11.000 persone, secondo la polizia, 30.000 secondo gli organizzatori. Gran parte dell'opinione pubblica non ha ancora accetato il verdetto delle elezioni parlamentari del dicembre scorso, dove vinse con oltre il 50% dei suffragi il partito del governo Russia Unita. Su queste tornata elettorale ha gravato il forte sospetto di brogli che hanno alterato in maniera significativa l'esito del voto. Proprio per questa ragione è salita la protesta in Russia, specialmente concentrata nelle maggiori città. Se su questo argomento vi è stata l'aggregazione convinta delle diverse forze che compongono l'opposizione, tale aggregazione non è però andata oltre le sole proteste, non riuscendo, per le profonde differenze ideologiche, a sintetizzare un piano comune alternativo a Putin. Il malessere presente nel paese si è quindi disperso in mille rivoli, senza che si arrivasse ad una intesa capace di portare unità nell'opposizione per mettere in difficoltà il candidato favorito. I sondaggi, dicono infatti, che Putin dovrebbe essere eletto al primo turno con una percentuale variabile di consensi tra il 50 ed il 66%. Si tratterebbe comunque di una grossa affermazione, che non dovrebbe richiedere neppure la necessità di effettuare dei brogli. Putin è in vantaggio proprio grazie alle estreme divisioni di una opposizione troppo frammentata, non certo per i suoi programmi elettorali che si rifanno ad un populismo nazionalista, che nasconde una pochezza di argomenti clamorosa. Ma bisogna riconoscere che la retorica militarista e l'unità del paese, intesa come espressione di potenza, quasi un revanscismo sovietico, fanno ancora molta presa sulla popolazione. L'obiettivo, veramente lontano da essere realizzato per gli attuali sviluppi geopolitici ed i mutati assetti di forza mondiali, di ridare un ruolo centrale e da protagonista al paese, anche attraverso la rinnovata potenza militare piace inspiegabilmente ad un paese afflitto da condizioni di miseria in forte aumento in tutte le fasce sociali. Eppure nel programma di Putin è scritto nero su bianco che oltre 506 miliardi di euro saranno destinati al riarmo, per rimodernare entro il 2020 le forze militari russe. Quale impiego per questo arsenale prevede il candidato Presidente? La generica definizione di nemico straniero può andare bene per ogni occasione per riaffermare la Russia come super potenza, ma più che verso l'esterno Putin potrebbe usare i militari per reprimere le istanze indipendentiste che si sono più volte presentate nelle repubbliche alla periferia dell'impero. E' anche possibile che Putin intenda percorrere la strada della creazione di una nuova sfera di influenza, per ricalcare la giurisdizione dell'ex Unione Sovietica, in prima battuta favorendo in tutti i modi i movimenti di quei paesi che si sono staccati dalla Federazione Russa e che, al contrario, ne propugnano il ritorno, con metodi pacifici, ma tenendo sempre pronto per ogni evenienza il rinnovato arsenale. Nonostante il ridimensionamento avvenuto sul piano internazionale la Russia può ancora ricoprire un ruolo da protagonista, anche in forza del diritto di veto presso il Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma è obiettivamente difficile che riesca a riguadagnare l'importanza ricoperta negli anni della guerra fredda come vorrebbe Putin. Tuttavia la necessità di ritagliarsi un ruolo differente da quello attuale sul piano diplomatico, potrebbe portare Putin ad azioni imprevedibili nei nuovi scenari che si stanno presentando nell'immediato futuro, come insegna l'atteggiamento sulla questione siriana e sopratutto nel caso di conflitto tra Israele ed Iran.
Cosa c'è dietro alla vicenda dei Corano bruciati
L'alto livello di tensione per il personale della NATO, sia civile che militare, attualmente presente in Afghanistan, che sarebbe stato provocato dall'incendio di numerosi libri Corano da parte di militari americani merita un approfondimento per le conseguenze che stanno maturando, sia a Kabul, che a Washington. L'uccisione di due consiglieri NATO distaccati al Ministero dell'Interno afghano è soltanto il tragico culmine di una situazione già lungamente logorata tra la società afghana ed il sistema di occupazione in appoggio a Karzai. Malgrado il cambiamento di rotta imposto da Obama, che al fianco dell'azione militare poneva anche una attiva partecipazione alla ricostruzione del paese, mediante la costruzione di scuole, ospedali ed infrastrutture e l'affiancamento di esperti americani alla dirigenza del paese, non si è riuscito a sviluppare un coinvolgimento maggiore nell'indirizzo posto dalla NATO, verso il quale doveva dirigersi il paese asiatico. Non sono bastati i robusti finanziamenti per innalzare la reciproca fiducia e la diffidenza, anche delle parti sociali contrarie ai movimenti estremisti, non è mai stata superata del tutto. Probabilmente una gran parte di questo aggravamento è dipesa dalla notizia del ritiro del grosso delle truppe, a favore di un impiego maggiormente razionalizzato del personale NATO, con una maggiore presenza di specialisti nella lotta al terrorismo, dislocati nelle zone strategiche, specialmente in quelle localizzate al confine con il Pakistan. Con questa mossa Obama cercava di raggiungere due obiettivi in un colpo solo: sul fronte interno, condizionato dalle imminenti elezioni presidenziali USA, ciò permette di presentare una riduzione della presenza delle truppe USA in Afghanistan con il duplice beneficio del ritorno a casa dei soldati americani e di un notevole risparmio economico, mentre sul fronte internazionale, permette di alleggerire la presenza, molte volte percepita come di occupazione, del paese afghano. Le argomentazioni sarebbero valide, ma soltanto la prima ha effettivamente ricadute positive, mentre la seconda non ha tenuto chiaramente conto, se non in minima parte, delle richieste pervenute dal governo e dalla società afghana, almeno di quella parte desiderosa di una stabilità ancora lontana da raggiungere. Non deve essere stato difficile, sia per gli oppositori di Karzai, che per gli estremisti, manovrare questo scontento, facile da congiungere anche alle diffidenze generali di larghi strati sociali. L'avventatezza dei soldati americani che hanno dato alle fiamme i Corani è stata il detonatore di una situazione già di per se stessa non facile. Sempre che di incidente si sia trattato. Alcuni analisti hanno ipotizzato un incidente causato ad arte per mettere in difficoltà Obama sul piano interno, in un momento in cui il Partito Repubblicano è in palese difficoltà con l'avversario proprio sulla politica estera, da sempre punto forte della politica conservatrice. Obama sta arrivando alla competizione elettorale come forse mai un candidato democratico è giunto alla vigilia del voto, molto forte proprio sulla politica estera: l'uccisione di Bin Laden, il ridimensionamento notevole di Al Qaeda, la gestione della questione iraniana ed il ruolo, seppure mantenuto in secondo piano nelle rivoluzioni nord africane e nella guerra libica, ha riportato gli USA ad un ruolo di protagonista sul teatro internazionale. Con queste premesse il problema afghano sembra arrivare al momento giusto per incrinare proprio quell'elemento di forza che si stava delineando per la campagna elettorale imminente. Questo perchè la situazione del paese asiatico potrebbe degenerare a tal punto da rivedere i piani del ritiro delle truppe e ciò non sarebbe proprio una vittoria per il Presidente uscente.
venerdì 24 febbraio 2012
USA ed Israele ammettono la possibilità di un attacco all'Iran
La questione di un possibile attacco all'Iran resta l'argomento più discusso tra Israele ed USA. Nonostante i rappresentanti dei due paesi continuino a specificare che la risoluzione diplomatica del caso sia quella preferibile, ora hanno dichiarato di avere allo studio anche altre possibilità per scoraggiare Teheran a perseguire la sua politica di dotarsi dell'arma nucleare. L'ammissione viene dall'ambasciatore di Tel Aviv a Washington, Dan Shapiro, e serve a confermare soltanto quello che già circolava da tempo. Per la verità Israele non ha mai fatto mistero della propria intenzione di regolare militarmente la questione, facendo sfoggio anche di temerarietà nei confronti di una possibile rappresaglia iraniana. Ma la sede di queste ammissioni, un paese straniero, gli Stati Uniti, che, anche se è il maggiore alleato di Israele, ha sempre fatto di tutto per frenare l'irruenza israeliana, significa che l'opzione bellica è ormai considerata una evenienza molto probabile. Tuttavia potrebbero esserci altri risvolti in quella che sembra una minaccia concreta all'Iran. Innazitutto potrebbe trattarsi di una opera di dissuasione collaterale alle sanzioni, per indurre che anche gli USA fanno sul serio sull'impiego delle armi come fattore deterrente alla costruzione della bomba atomica, ma nel contempo potrebbe essere anche una sorta di segnale di vicinanza ad Israele con lo scopo di dichiarare formalmente l'appoggio dell'opzione militare, in modo da non lasciare isolata Tel Aviv nelle minacce, che però serve anche a tranquillizzare lo stato israeliano, guadagnando tempo, nella speranza che le sanzioni abbiano un effetto positivo. La pressione sulla Repubblica islamica è stata rilevata anche dall'ambasciatore israeliano, notazione che può essere letta in maniera positiva in rapporto ad un possibile attacco, ma che è, forse, anche un omaggio diplomatico dovuto ai padroni di casa. Tuttavia l'atmosfera di grande sintonia tra i due paesi e le dichiarazioni ufficiali dovrebbero cancellare i dubbi circa un attacco autonomo delle sole forze israeliane non concordato con Washington, fatto molto temuto dagli analisti sia politici che militari per le gravi ripercussioni che avrebbe potuto comportare. Il tutto, comunque, non cancella le paure di un sempre possibile intervento e delle sue conseguenze, ed anzi leggendo tra le righe la volontà israeliana di attaccare sembra rafforzata dall'implicita ammissione USA.
In Cina sempre di più i problemi del capitalismo
Nonostante Pechino si fregi ancora della dicitura di paese comunista, l'economia ed i problemi sociali ad essa connessi stanno sempre più prendendo le caratteristiche dei paesi capitalisti. Nonostante continui la più totale assenza dell'assicurazione dei diritti più elementari ai lavoratori, la disgregazione sociale provocata da un mercato interno senza regole inizia a presentare i primi conti di una industrializzazione troppo veloce e senza regolamentazione, provocando effetti negativi che i burocrati di Pechino hanno fatto finora finta di non vedere. E' dalla cima della piramide sociale che inizia ad incrinarsi il rapporto privilegiato con le istituzioni, in Cina si stima la presenza di oltre un milione di persone con redditi milionari ed iniziano a contarsi anche i miliardari: sono il fulcro dell'economia cinese, la classe dirigente economica del paese, ebbene proprio tra questi privilegiati sarebbe in atto una emorragia dal paese verso il Nord America e l'Europa, dove sono assicurati standard di vita qualitativi infinitamente migliori che nella madre patria. Uno dei fattori più rilevanti è l'aspetto dell'inquinamento che afflige il paese cinese e che, probabilmente, vede proprio tra i responsabili le stesse persone che cercano, in altre nazioni, migliori standard ambientali. Un'altro aspetto ricercato dai ricchi cinesi in fuga è il maggiore livello che l'istruzione può assicurare ai propri figli presso gli istituti scolastici ed universitari esteri. Ma oltre gli aspetti che riguardano in senso più stretto la qualità della vita vi è anche l'aspetto del mantenimento della sicurezza finanziaria volta alla protezione del capitale accumulato. In quest'ottica gli USA hanno elaborato una strategia chiamata immigrazione di investimento, che prevede 10.000 visti d'ingresso annui a chi è in grado di portare capitali in grado di creare almeno 10 posti di lavoro; in questo senso la statistica parla chiaro le domande cinesi sono oltre il settanta per cento. Questi segnali, se legati alla situazione interna del debito cinese, rivelano per Pechino l'insorgenza di nuove problematiche legate alla ricchezza del paese, ma completamente disgiunte dalla struttura rigida che ancora caratterizza l'organizzazione della macchina statale. Siamo di fronte, cioè, all'inizio delle prime crepe concrete nella granitica società cinese. Non che la presenza delle manifestazioni di piazza da parte del dissenso non segnalassero i motivi di malessere, ma per l'appunto provenivano dalla massa al di fuori del circuito delle elite del paese. Questi segnali silenziosi e meno eclatanti sono, invece, in un certo senso maggiormente significativi, perchè provengono dalla parte sociale fondamentalmente in accordo con il partito, giacchè è impensabile raggiungere tali livelli di ricchezza senza il beneplacito dell'unico soggetto politico ammesso in Cina. Ma i segnali di una richiesta di cambiamento che provengono dal mercato, seppure rigidamente imbrigliato nelle ferree logiche cinesi, non finiscono qui; oltre le implicazioni sociali vi sono anche quelle più strettamente legate con il mero funzionamento dell'economia. La necessità, oramai pressante, di rilanciare il mercato interno, compresso da una bassa politica salariale e da ingenti quote di debito, impone alla Cina la decisione, difficilmente revocabile, di ridurre la partecipazione dello stato nelle aziende, per recuperare maggiori poteri decisionali in linea con le richieste del mercato e sganciate da logiche politiche centraliste. Sembra una banalità per una qualunque potenza economica mondiale ma non per la Cina, infatti, se ciò si concretizzerà, sarà una rivoluzione, con implicazioni e sviluppi talmente nuovi, che potrebbero alterare i rapporti sociali consolidati. Ma a prescindere dalle riflessioni sulle variazioni della società, questi cambiamenti appaiono necessari per prevenire una crisi economica, ormai pronosticata da tempo per Pechino. Il problema più urgente si chiama debito locale, cioè qule debito contratto dalle amministrazioni locali ed impiegato sopratutto per la costruzione delle infrastrutture, ma tale debito è connesso all'accesso di tali amministrazioni a strumenti finanziari pericolosi ed in grado di innescare fenomeni letali come accaduto in occidente con le tante bolle, poi scoppiate con conseguenze terribili. Pechino teme questi effetti nocivi del capitalismo, che sono diventati vere e proprie patologie del sistema economico globale, ed avverte che lo scollamento con l'economia reale ha ripercussioni sullo sviluppo non omogeneo del paese. In particolare le differenze sempre più accentuate tra città e campagne preoccupano la capitale, che teme un effetto domino della società a causa delle grandi differenze ed ineguaglianze. Non per niente gli investimenti in sicurezza interna del regime cinese sono aumentati in modo esponenziale nell'ultimo anno. Ma ora potrebbero non bastare più se si interrompesse, come sembra stia accedendo, il rapporto fiduciario tra politica e nuovi ricchi, con quest'ultimi impegnati ad attuare la forma di protesta più efficace: la fuga dal paese con i propri capitali.
giovedì 23 febbraio 2012
La Giordania attiva una difesa missilistica che servirà anche Israele
Il timore di possibili attacchi contro Israele provenienti dalla Siria attiva la difesa antimissile della Giordania. In realtà l'azione del regno hashemita è volta a proteggere anche la propria frontiera con Damasco, lungo la quale sono già schierate le forze armate giordane. Il deterioramento della situazione siriana, giunto alla sempre più difficile situazione tra Tel Aviv e Teheran, impone agli USA misure sempre più cautelative per essere pronti ad ogni evenienza. Lo scenario che potrebbe presentarsi è di una Siria che attacca Israele, su propria decisione o spinta dall'Iran, per creare una azione diversiva dalla guerra civile che si sta inasprendo al proprio interno. E' un'ipotesi estrema, specialmente quella che vedrebbe Damasco agire da sola in questo senso, appena più probabile che l'attacco parta su indicazione dell'Iran, almeno fin quando Assad resta a capo del governo, viceversa, se si verificasse un vuoto di potere, non sarebbe impossibile per Teheran, già molto presente sul territorio sirano con propri uomini e mezzi, riuscire a fare partire un attacco diretto contro Israele, avente uno scopo preventivo, quale risposta anticipata al più volte minacciato attacco contro l'Iran. Militarmente il confine tra Siria ed Israele è il fianco meno protetto del paese della stella di David. Del resto un allargamento ulteriore del conflitto siriano ha come sviluppo più probabile, proprio Israele, obiettivo simbolo della lotta araba, capace di aggregare le più diverse tendenze dell'islamismo. La Giordania è alleata degli USA ed ha firmato un trattato di pace con Israele, ed il suo coinvolgimento concreto nella strategia di difesa è il segnale più nitido che la tensione ha già superato il livello di guardia. Del resto la combinata della guerra siriana con le esercitazioni militari iraniane, costituiscono già una minaccia più che concreta, all'interno della disputa sullo sviluppo della tecnologia nucleare dell'Iran. Materialmente le batterie di missili che la Giordania schiererà saranno costituite da Patriot forniti dalla Germania, su autorizzazione degli USA, ma è facile capire che dietro tutta l'operazione lo stato israeliano ha fatto da coordinatore, per coprire al più presto la falla nel proprio sistema di difesa. Il compito dei missili Patriot sarà quello di intercettare i missili Scud o m-600, che risultano nella disponibilità dell'arsenale siriano. Per la Giordania, tuttavia questa iniziativa può andare a creare qualche problema interno, per la presenza, sul suo territorio, di un gran numero di rifugiati palestinesi, che potrebbero diventare fonte di proteste contro la decisione di schierare installazioni missilistiche a vantaggio israeliano.
Il ruolo del Kenya nella Somalia
L'esercito keniano sta avanzando in Somalia ed avrebbe liberato circa il 95% del territorio controllato dal movimento estremista islamico Al- Shabab, che ha a lungo condizionato la vita del paese, secondo le fonti ufficiali dell'esercito. Le forze armate di Nairobi sono presenti sul territorio somalo fin dal 14 ottobre, per quella che doveva essere una sorta di guerra lampo, con il duplice scopo di scongiurare il pericolo che il contagio dell'estremismo islamico si allargasse nel paese keniota e porre fine agli ostacoli frapposti dagli integralisti agli aiuti umanitari, che dovevano risollevare le popolazioni colpite dalla carestia, costrette in gran numero a fuggire nel paese confinante. Una sorta di guerra preventiva per preservare quindi i confini del paese e creare i presupposti per favorire la stabilità nel paese vicino. Ma nonostante i programmi dei militari keniani, l'avanzata delle truppe non è andata così spedita come atteso e Kisimayo, città portuale principale obiettivo della campagna militare in Somalia, resta ancora in mano degli integralisti. Si tratta di un obiettivo strategico perchè costituisce la principale fonte di reddito che mantiene in vita Al Shabab. Non solo, neppure la città di Afmadow, che si trova a metà strada tra il confine tra Kenya e Somalia e la stessa Kisimayo sarebbe ancora in mano alle milizie islamiche. Una situazione che smorza le dichiarazioni trionfalistiche dei militari del Kenya e che rivela una concreta difficoltà nel portare avanti un'avanzata che si sta rivelando sempre più problematica. Anche sulle aree che vengono date già liberate con certezza, il controllo non risulterebbe affatto completo a causa delle tattiche di guerriglia poste in essere da Al Shabab, capaci di tenere in costante allarme i militari di Nairobi. Vengono infatti segnalate a ripetizione azioni di guerriglia contro le forze armate del Kenya attraverso l'impiego di imboscate sia con armi leggere, che con mortai e granate, capaci di portare scompiglio nella forza di occupazione. La situazione non ha portato miglioramenti per la popolazione già stremata dalla carestia e dalla cronica mancanza di medicinali. Nel complesso la situazione della Somalia è ancora più difficile, infatti oltre all'esercito del Kenya attestato nella parte sud-ovest del paese, vi sono anche presenti sul suolo somalo anche l'esercito etiopico e le truppe inviate dall'Unione Africana, composte da militari di Burundi, Gibuti ed Uganda, a cui si affiancano le truppe del governo somalo, più altre milizie minori sempre a fianco del governo della Somalia. Questo dispiegamento di forze ha come nemico i combattenti di Al Shabab, che sembra ormai fiaccato dalla guerra che gli viene mossa contro. Anche il fatto del tentativo di alleanza con Al Qaeda e la disperata ricerca di nuovi combattenti, anche stranieri, rivela lo stato di difficoltà del movimento radicale. Ma la caduta di Al Shabab potrebbe non bastare per pacificare il paese, frammentato dalla presenza di una serie di clan con interessi contrapposti e dotati ognuno di una propria milizia, che senza più l'obiettivo comune contro cui combattere punterebbero le armi gli uni contro gli altri, riportando il paese nel caos più totale. In quest'ottica la sopravvivenza di Al Shabab, almeno per il momento, risulta essere funzionale all'elaborazione di un progetto, che per ora manca, capace di aggregare i diversi soggetti della società somala, i clan per l'appunto, ha trovare un comune terreno di intesa sul quale lavorare per favorire lo sviluppo del paese attraverso le proprie ricchezze e gli aiuti internazionali. Sembra proprio questo il compito che il Kenya potrebbe assumersi, coordinare le varie forze presenti nel paese con lo scopo di avere alle sue frontiere un soggetto nazionale stabile, costruito su base federale per rispondere alle istanze ed esigenze diverse della composizione sociale del paese somalo.
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