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giovedì 1 marzo 2012

Riflessioni sullo stop del programma nucleare della Corea del Nord

Pyongyang fornisce un aiuto insperato per la campagna elettorale di Obama; infatti la promessa di congelare la sua attività di ricerca nel campo degli armamenti nucleari in cambio di aiuti alimentari e di energia
da alla regione una stabilità che, dopo il cambio di regime, pareva in bilico. Per il Presidente uscente un'ottima carta da giocare per i dibattiti di politica internazionale e sul piano diplomatico l'opportunità di dedicare maggiori energie al caso iraniano. Contrariamente alle prime notizie diffuse la Corea del Nord non rinuncia definitivamente al suo programma nucleare, ma lo sospende dando anche l'opportunità agli ispettori dell'AIEA di controllare i siti dove si lavora all'arricchimento dell'uranio e di verificare così i progressi nord coreani nella corsa all'atomica. Gli esperti di affari nord coreani ritengono che questa concessione è il massimo che al momento si possa ottenere, ma il risvolto positivo è che tale mossa costituisce comunque una apertura al dialogo del paese che più si è isolato ai rapporti internazionali. Dietro a questa decisione è difficile dare una lettura sicura di come la Corea del Nord è arrivata a tale determinazione, il fattore più determinante è stato senz'altro il cambio al vertice del governo di Pyongyang a causa della morte del vecchio dittatore. Ma non è chiaro se questa nuova via che segna l'apertura del paese sia dovuta al successore o se viceversa, il potere sia ora in mano ai militari , i quali possono finalmente imprimere una nuovo indirizzo alla politica estera della nazione, che possa mettere fine ad un isolamento che ha portato fame e carestia per la popolazione. Secondo l'ONU, infatti, almeno un quarto della popolazione sarebbe allo stremo per la cronica mancanza di generi alimentari e l'accordo con gli USA, che prevede la fornitura di 240.000 tonnellate di derrate, permetterebbe di alleviare almeno la situazione più urgente. Le trattative tra le due parti prevedono la ripresa dei colloqui sulla base di quanto stilato nel 2005, quando la Corea del Nord aveva accettato di rinunciare all'arma atomica in cambio di aiuti alimentari. Non è la prima volta quindi che i nord coreani promettono di andare verso il disarmo atomico ma poi non mantengono tali promesse. Per questa ragione parte dell'opinione pubblica americana resta scettica sulle reali intenzioni del paese asiatico, tuttavia attualmente si è in presenza di nuove condizioni, come il mutato assetto del potere e la particolare gravità della situazione alimentare del paese, che fanno ben sperare l'amministrazione americana. In ogni caso dal punto di vista diplomatico era impossibile per Washington lasciarsi sfuggire una occasione del genere, che potrebbe portare ad una situazione contraddistinta da stabilità la regione del sud est asiatico. La presenza di Giappone e Corea del Sud, tradizionali alleati americani e l'importanza dei transiti commerciali nei mari limitrofi, pone sul ruolo della Corea del Nord più di un motivo di attenzione. Anche se occorre riconoscere legittimi i dubbi di chi sostiene che l'unico mezzo di pressione di Pyongyang è soltanto la minaccia atomica, quindi una volta finiti i vantaggi di questi ultimi accordi potrebbe ricominciare il teatrino dei test nucleari per sensibilizzare un'altra volta gli americani. Per questo motivo Washington tenta di coinvolgere nei negoziati anche Cina, Russia, Giappone e Corea del Nord, in modo di organizzare una trattativa con sei soggetti, tutti interessati alla stabilità regionale. Se le intenzioni nord coreane sono sincere occorrerà offrire aiuti concreti per permettere lo sviluppo dell'economia di Pyongyang, che al momento versa in situazioni disastrose, in modo da risollevare il paese per consentire alla sua popolazione standard di vita sufficienti. Tutto sta nelle reali intenzioni di chi è effettivamente al potere, ma sia Cina che Corea del Sud temono concretamente esodi massicci di persone in fuga dalla fame ed è quindi loro primario interesse che la Corea del Nord riesca ad uscire dalla crisi. Negli USA si è sviluppata, immediatemente dopo la diffusione della notizia del congelamento del programma nucleare nord coreano, una corrente che vedeva possibili ricadute positive anche su situazioni dove la presenza di possibili ordigni nucleari crea motivi di attrito con l'amministrazione americana; ma la situazione di India, Pakistan ed Iran è totalmente differente dal paese della penisola coreana. Pur caratterizzati da situazioni di povertà le condizioni di questi paesi non sono allo stremo come la Corea del Nord e godono di organizzazioni sia statali che militari di tutt'altro livello. Pare impossibile che la trattativa nord coreana inneschi un effetto analogo in nazioni che hanno un determinato ruolo internazionale e dove il possesso, effettivo o potenziale, dell'atomica ha ben altre valenze che quelle di Pyongyang.

mercoledì 29 febbraio 2012

Comincia ad aumentare il partito della crescita contro la ricetta tedesca

Dopo la sistemazione, avvenuta con lacrime e sangue, che probabilmente non sarà definitiva della Grecia, l'asse Berlino-Parigi, incomincia a scricchiolare dall'interno e, sopratutto, trova finalmente un fronte compatto di ben dodici paesi, che chiedono una sterzata della politica economico finanziaria europea, troppo orientata all'austerità dei bilanci a discapito della crescita, giudicata indispensabile per ridare fiato all'economia e non pregiudicare la stabilità sociale. In vista delle elezioni presidenziali francesi il candidato socialista Hollande ha messo al centro del proprio programma elettorale una nuova negoziazione degli accordi sottoscritti da Sarkozy con la Merkel. Questo fatto, che peraltro era già noto tanto da fare scendere la cancelliera tedesca dichiaratamente a fianco del presidente francese uscente in campagna elettorale, rischia di intaccare la politica economica elaborata da Berlino per l'Europa. Si è detto e rilevato più volte che tale politica tende a favorire più che la parte produttiva, dove vi sono diversi antagonismi, la parte finanziaria tedesca, con in prima fila le banche della Germania ed in generale il mondo finanziario, che non vuole correre il pericolo di effettuare investimenti in paesi dell'area euro con gestioni definite allegre. Pur partendo da ragioni condivisibili nate dall'esigenza di scongiurare situazioni come quella greca ed in generale emergenze debitorie troppo elevate, capaci di creare un effetto a catena nell'area dell'euro, quelle elaborate sono politiche troppo stringenti, che non permettono una diffusione del credito necessaria a risollevare, come dovuto, economie ormai asfittiche. Uno dei maggiori timori dei governi che hanno chiesto una maggiore propensione alla crescita è la pericolosità di minare la stabilità sociale, le violenti reazioni greche ai tagli sociali imposti dalla Germania rappresentano un incubo da evitare assolutamente. Ma quello che sta venendo fuori è una insofferenza generalizzata alla condotta tedesca, anche da parte di governi, come quello italiano, che non sono propriamente espressione delle parti sociali più deboli. L'impressione è che Berlino abbia esagerato ed abbia avuto gioco facile perchè gli altri paesi o sono stati presi alla sprovvista o non sono riusciti ad elaborare una strategia comune immediata alle pretese tedesche. Ora è difficile prevedere se questa presa di posizione possa creare una spaccatura, che non è nell'interesse di nessuno, nella zona euro, tuttavia è chiaro che la leadership tedesca è chiaramente messa in discussione. La troppa austerità sta diventando ad essere vista come l'anticamera di una maggiore recessione, ma questo non era negli intenti della Merkel, che faceva partire la sua analisi dalla situazione tedesca. L'impressione, suffragata da dati concreti, è che la ricetta per risanare l'Europa sia stata elaborata come funzionale all'economia della Germania, che poteva fare la voce grossa sia per le condizioni economiche migliori, sia per l'assenza di un contradittorio, che ora inizia a formarsi. Con queste condizioni appare palese che, pur restando negli steccati imposti dalla necessità della riduzione del debito, gli accordi e la strategia vanno rivisti, per permettere una crescita più armonica ai paesi dell'euro. Il rischio concreto di diventare colonie tedesche non deve essere corso. Del resto i casi greco ed italiano, seppure con soluzioni differenti, devono fare squillare un campanello d'allarme. Se per Atene la perdita della propria sovranità a favore di entità straniere è ormai un dato di fatto, per l'Italia si è trattato di sospendere la democrazia del popolo, affidando ad un governo non eletto, ma formalmente sostenuto dalla maggioranza parlamentare, la gestione della cosa pubblica. Se dietro a questo governo vi siano le banche o i tanto nominati poteri forti non si saprà mai, certo è che l'interruzione democratica non formale ma reale è un dato di fatto. Se a questa situazione di cose dovesse, come sembra probabile accadere, un periodo di recessione ancora più grave le conseguenze sociali potrebbero essere non prevedibili. Ma questo vale anche per i paesi dove il governo in carica è regolarmente e direttamente eletto; del resto la necessità della crescita economica è stata ribadita dal Presidente Obama ed anche dalla Cina, che si è più volte detta disponibile a stimolare, attraverso propri investimenti, l'aumento del PIL dei singoli paesi dell'euro. Quindi è necessaria l'elaborazione di un piano alternativo che punti alle infrastrutture, volano per sviluppi successivi, alla formazione ed alla individuazione di strumenti capaci di riportare nel vecchio continente la produzione industriale materiale, la cui presenza è andata assottigliandosi troppo, impoverendo il tessuto produttivo delle nazioni a favore di una terziarizzazione con poco contenuto e sopratutto incapace di sostenere la necessaria crescita mediante la presenza dei dovuti posti di lavoro essenziali per assicurare uno sviluppo certo e duraturo.

L'India alle prese con l'inflazione

Anche l'India deve rallentare la crescita economica per scongiurare il pericolo dell'inflazione. Era da tre anni che il dato della crescita del paese non vedeva comparire un indice così basso: troppo alti i tassi di interesse giunti ad una maggiore crescita dei prezzi delle materie prime, ciò ha determinato una contrazione della produzione industriale, legata anche alla dimiuzione degli investimenti. Come grande esportatore il paese paga la crisi mondiale che ha determinato una domanda complessiva più bassa. Scomponendo i dati trimestralmente si ha un decremento continuo, che segnala un rallentamento non atteso. Certo di parla sempre di crescite del PIL considerevoli, ben oltre il 6%, ma che per un'economia che necessita di valori più alti, rappresentano un pericoloso rallentamento in rapporto agli obiettivi previsti. Quello che il governo indiano non riesce a fare quadrare è la lotta all'inflazione con la necessità di più alti livelli di crescita. Probabilmnte il paese è cresciuto velocemente, senza che in questa fase il governo centrale prendesse le dovute contromisure al fenomeno inflattivo, che si è presentato puntualmente, come accade in ogni curva espansiva. Dal marzo 2010 gli interventi della Banca centrale indiana sono stati ben tredici, con un numero identico del rialzo dei tassi di interesse, che pur calmierando il fenomeno inflattivo, hanno anche avuto l'effetto di frenare la crescita, per la conseguente riduzione delgi investimenti. Dopo la performance del periodo 2010-11 che aveva visto il PIL crescere fino all'8,5%, l'economia indiana si era prefissata il traguardo del 9% per il periodo 2011-12; ma tale obiettivo si è rivelato irraggiungibile ed anche la stima al ribasso di una crescita attestata intorno al 7%, rischia di essere troppo ottimistica. L'arretratezza della India, quasi un continente per il numero di abitanti, che vede la gran parte della sua popolazione in condizioni di estrema miseria, necessita di prestazioni elevate nella crescita del PIL, proprio per combattere la povertà troppo diffusa e proprio un incremento del PIL del 10% avrebbe consentito di innalzare ad un gran numero di persone il fabbisogno giornaliero in denaro per consentire un sostanziale abbattimento della soglia di povertà. Pur parlando di importi anche inferiori ad un euro, questo incremento potrebbe consentire al paese di fare uscire intere fasce di popolazione da condizioni di povertà endemica, che oltre a costituire una ragione umanitaria costituiscono anche un freno allo sviluppo interno dei consumi, non certo da sottovalutare in una nazione con 1,2 miliardi di abitanti.

martedì 28 febbraio 2012

L'affermazione dei partiti islamici nella sponda sud del Mediterraneo

Viste dal mondo occidentale le rivoluzioni nord africane, che hanno sbaragliato dittature da lungo al potere, non potevano che riscuotere la simpatia di gran parte della società. Soltanto poche voci erano fuori dal coro, da un lato chi temeva contraccolpi pericolosi, proprio per il mondo occidentale conseguenti alla caduta di regimi che facevano comodo sia al mondo economico che alla stabilità geopolitica, dall'altro chi prefigurava la possibile salita al potere di tutto un movimento, peraltro variegato, che fosse rispondente agli ideali musulmani nella sponda meridionale del Mediterraneo. Pur con queste riserve l'opinione pubblica e sopratutto i governi occidentali hanno finito per sostenere in un modo o nell'altro questi moti che sembravano partiti dalla popolazione, in modo spontaneo e diretto. Quello che tranquillizzava gli occidentali era che i movimenti islamici, sopratutto quelli più radicali, parevano essere, nella maggiore delle ipotesi dei comprimari al pari di formazioni che parevano ricalcare l'assetto delle formazioni politiche dell'occidente. Movimenti non confessionali che rivendicavano diritti civili di democrazia e di pari opportunità: cioè la versione araba di quegli embrioni che avevano poi dato vita ai partiti e su cui si basa tuttora la costruzione delle democrazie occidentali. In definitiva quello che si attendeva era una copia dei nostri sistemi politici trasferita pari pari su paesi di diversa cultura e di diversa storia. Il primo errore è stato quello di sostituire la tecnologia con lo scorrere del tempo, molti hanno infatti pensato che la velocità della trasmissione delle idee potesse surrogare la grande quantità di tempo necessaria a costruire le democrazie occidentali, peraltro tuttora imperfette, che si sono evolute nel tempo anche grazie a enormi sterzate politiche ed idee sedimentate nel tempo nella mente e nel cuore delle persone. I manifestanti però costituivano soltanto un'avanguardia di società arretrate, che hanno visto l'evolversi della situazione da lontano, legati ai loro standard culturali, dove spesso la religione costituiva e costituisce un rifugio sicuro. Questa spaccatura sociale ha determinato fondamentalmente il successo delle formazioni islamiche avvenuto, è bene sottolinearlo, in elezioni totalmente democratiche. La sorpresa in occidente per l'affermazione di questi partiti anche in quei paesi arabi tradizionalmente tolleranti, come la Tunisia, rivela una miopia dell'analisi occidentale che ha determinato una previsione fallace. Quello che non è stato considerato a dovere è stata l'azione capillare dei movimenti religiosi che costituivano l'unica alternativa al potere dominante all'interno di società spesso chiuse in se stesse. Di fronte a questa struttura sociale, i giovani che usavano facebook e twitter, magari anche occidentalizzati per esperienze migratorie, non erano che la minoranza. Ora il rischio concreto per queste avanguardie, che hanno lottato credendo di portare i propri paesi verso un'affermazione delle democrazie come quelle dell'Ovest, è di vedersi governati dalla Sharia e questo rischio vale anche per i paesi della sponda opposta del Mediterraneo: trovarsi sulla porta di casa nazioni vicine governate da sistemi teocratici, fatto che non può essere giudicato positivo nell'ambito dello sviluppo delle relazioni tra gli stati. Inoltre vi è un'implicazione di natura geopolitica da non trascurare: l'affermazione di partiti così simili in tutta la fascia nord africana, perchè anche in Libia, se riuscirà a superare i conflitti tribali interni, sarà così, rischia di innescare un fenomeno di panarabismo che pareva sopito dal potere esercitato dalla dittature. Per l'Europa potrebbe avvenire il fatto di avere di fronte, sia in senso figurato che materiale, un soggetto particolarmente coeso, capace di essere un alternativa nel Mediterraneo e non più un possibile alleato. Non era questo che gli stati, anche impegnati in prima persona come nel caso libico, si aspettavano. Questo perchè si parte dal presupposto che situazioni simili siano più facili da gestire; ma è stato appunto questo l'errore di valutazione delle nazioni occidentali, non tenere conto di situazione differenti che, inevitabilmente si sarebbero presentate come alternative a quelle garantite dalle dittature, perchè imposte da regimi dispotici, che fungevano da cuscinetto tra le esigenze occidentali e le tendenze dei popoli. La reazione delle popolazioni finalmente affrancate dai dispotismi è stata di andare verso l'unica istituzione che è sempre rimasta presente a fare da riparo ai modi di governo: la religione. Non era poi difficile da predire, con tali basi di partenza, ma il ruolo delle tecnologie, che c'è stato, ed stato molto rilevante, ci ha reso ciechi sulle implicazioni future, del momento cioè, nel quale tutto il corpo sociale è stato chiamato ad esprimersi con le normali regole della democrazia. La speranza ora è che si affermi un modello tipo quello turco, dove un il partito al potere, pur essendo confessionale, è di matrice moderata, ma la Turchia ha altre basi sociali sia di istruzione che di sviluppo, e rispetto ai paesi della fascia del Mediterraneo del sud, può rappresentare un punto di arrivo ma, per ora non di partenza. Con questa situazione è bene che le istituzioni occidentali, che si occupano di politica internazionale, sviluppino un modo nuovo di rapportarsi con questi nuovi governi teso al rispetto ed alla comprensione comune, cercando nuovi terreni di dialogo, che possano permettere forme, non solo di convivenza, ma di sviluppo conveniente ad entrambe le parti.

lunedì 27 febbraio 2012

Putin verso l'elezione

Mentre si avvicina la data del 4 Marzo, giorno delle elezioni presidenziali in Russia, nel paese cresce la protesta contro il candidato favorito Putin. L'opposizione mette in scena proteste spettacolari, come la creazione di una catena umana di sedici chilometri, che ha circondato il centro di Mosca, dove sono state impegnate 11.000 persone, secondo la polizia, 30.000 secondo gli organizzatori. Gran parte dell'opinione pubblica non ha ancora accetato il verdetto delle elezioni parlamentari del dicembre scorso, dove vinse con oltre il 50% dei suffragi il partito del governo Russia Unita. Su queste tornata elettorale ha gravato il forte sospetto di brogli che hanno alterato in maniera significativa l'esito del voto. Proprio per questa ragione è salita la protesta in Russia, specialmente concentrata nelle maggiori città. Se su questo argomento vi è stata l'aggregazione convinta delle diverse forze che compongono l'opposizione, tale aggregazione non è però andata oltre le sole proteste, non riuscendo, per le profonde differenze ideologiche, a sintetizzare un piano comune alternativo a Putin. Il malessere presente nel paese si è quindi disperso in mille rivoli, senza che si arrivasse ad una intesa capace di portare unità nell'opposizione per mettere in difficoltà il candidato favorito. I sondaggi, dicono infatti, che Putin dovrebbe essere eletto al primo turno con una percentuale variabile di consensi tra il 50 ed il 66%. Si tratterebbe comunque di una grossa affermazione, che non dovrebbe richiedere neppure la necessità di effettuare dei brogli. Putin è in vantaggio proprio grazie alle estreme divisioni di una opposizione troppo frammentata, non certo per i suoi programmi elettorali che si rifanno ad un populismo nazionalista, che nasconde una pochezza di argomenti clamorosa. Ma bisogna riconoscere che la retorica militarista e l'unità del paese, intesa come espressione di potenza, quasi un revanscismo sovietico, fanno ancora molta presa sulla popolazione. L'obiettivo, veramente lontano da essere realizzato per gli attuali sviluppi geopolitici ed i mutati assetti di forza mondiali, di ridare un ruolo centrale e da protagonista al paese, anche attraverso la rinnovata potenza militare piace inspiegabilmente ad un paese afflitto da condizioni di miseria in forte aumento in tutte le fasce sociali. Eppure nel programma di Putin è scritto nero su bianco che oltre 506 miliardi di euro saranno destinati al riarmo, per rimodernare entro il 2020 le forze militari russe. Quale impiego per questo arsenale prevede il candidato Presidente? La generica definizione di nemico straniero può andare bene per ogni occasione per riaffermare la Russia come super potenza, ma più che verso l'esterno Putin potrebbe usare i militari per reprimere le istanze indipendentiste che si sono più volte presentate nelle repubbliche alla periferia dell'impero. E' anche possibile che Putin intenda percorrere la strada della creazione di una nuova sfera di influenza, per ricalcare la giurisdizione dell'ex Unione Sovietica, in prima battuta favorendo in tutti i modi i movimenti di quei paesi che si sono staccati dalla Federazione Russa e che, al contrario, ne propugnano il ritorno, con metodi pacifici, ma tenendo sempre pronto per ogni evenienza il rinnovato arsenale. Nonostante il ridimensionamento avvenuto sul piano internazionale la Russia può ancora ricoprire un ruolo da protagonista, anche in forza del diritto di veto presso il Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma è obiettivamente difficile che riesca a riguadagnare l'importanza ricoperta negli anni della guerra fredda come vorrebbe Putin. Tuttavia la necessità di ritagliarsi un ruolo differente da quello attuale sul piano diplomatico, potrebbe portare Putin ad azioni imprevedibili nei nuovi scenari che si stanno presentando nell'immediato futuro, come insegna l'atteggiamento sulla questione siriana e sopratutto nel caso di conflitto tra Israele ed Iran.

Cosa c'è dietro alla vicenda dei Corano bruciati

L'alto livello di tensione per il personale della NATO, sia civile che militare, attualmente presente in Afghanistan, che sarebbe stato provocato dall'incendio di numerosi libri Corano da parte di militari americani merita un approfondimento per le conseguenze che stanno maturando, sia a Kabul, che a Washington. L'uccisione di due consiglieri NATO distaccati al Ministero dell'Interno afghano è soltanto il tragico culmine di una situazione già lungamente logorata tra la società afghana ed il sistema di occupazione in appoggio a Karzai. Malgrado il cambiamento di rotta imposto da Obama, che al fianco dell'azione militare poneva anche una attiva partecipazione alla ricostruzione del paese, mediante la costruzione di scuole, ospedali ed infrastrutture e l'affiancamento di esperti americani alla dirigenza del paese, non si è riuscito a sviluppare un coinvolgimento maggiore nell'indirizzo posto dalla NATO, verso il quale doveva dirigersi il paese asiatico. Non sono bastati i robusti finanziamenti per innalzare la reciproca fiducia e la diffidenza, anche delle parti sociali contrarie ai movimenti estremisti, non è mai stata superata del tutto. Probabilmente una gran parte di questo aggravamento è dipesa dalla notizia del ritiro del grosso delle truppe, a favore di un impiego maggiormente razionalizzato del personale NATO, con una maggiore presenza di specialisti nella lotta al terrorismo, dislocati nelle zone strategiche, specialmente in quelle localizzate al confine con il Pakistan. Con questa mossa Obama cercava di raggiungere due obiettivi in un colpo solo: sul fronte interno, condizionato dalle imminenti elezioni presidenziali USA, ciò permette di presentare una riduzione della presenza delle truppe USA in Afghanistan con il duplice beneficio del ritorno a casa dei soldati americani e di un notevole risparmio economico, mentre sul fronte internazionale, permette di alleggerire la presenza, molte volte percepita come di occupazione, del paese afghano. Le argomentazioni sarebbero valide, ma soltanto la prima ha effettivamente ricadute positive, mentre la seconda non ha tenuto chiaramente conto, se non in minima parte, delle richieste pervenute dal governo e dalla società afghana, almeno di quella parte desiderosa di una stabilità ancora lontana da raggiungere. Non deve essere stato difficile, sia per gli oppositori di Karzai, che per gli estremisti, manovrare questo scontento, facile da congiungere anche alle diffidenze generali di larghi strati sociali. L'avventatezza dei soldati americani che hanno dato alle fiamme i Corani è stata il detonatore di una situazione già di per se stessa non facile. Sempre che di incidente si sia trattato. Alcuni analisti hanno ipotizzato un incidente causato ad arte per mettere in difficoltà Obama sul piano interno, in un momento in cui il Partito Repubblicano è in palese difficoltà con l'avversario proprio sulla politica estera, da sempre punto forte della politica conservatrice. Obama sta arrivando alla competizione elettorale come forse mai un candidato democratico è giunto alla vigilia del voto, molto forte proprio sulla politica estera: l'uccisione di Bin Laden, il ridimensionamento notevole di Al Qaeda, la gestione della questione iraniana ed il ruolo, seppure mantenuto in secondo piano nelle rivoluzioni nord africane e nella guerra libica, ha riportato gli USA ad un ruolo di protagonista sul teatro internazionale. Con queste premesse il problema afghano sembra arrivare al momento giusto per incrinare proprio quell'elemento di forza che si stava delineando per la campagna elettorale imminente. Questo perchè la situazione del paese asiatico potrebbe degenerare a tal punto da rivedere i piani del ritiro delle truppe e ciò non sarebbe proprio una vittoria per il Presidente uscente.

venerdì 24 febbraio 2012

USA ed Israele ammettono la possibilità di un attacco all'Iran

La questione di un possibile attacco all'Iran resta l'argomento più discusso tra Israele ed USA. Nonostante i rappresentanti dei due paesi continuino a specificare che la risoluzione diplomatica del caso sia quella preferibile, ora hanno dichiarato di avere allo studio anche altre possibilità per scoraggiare Teheran a perseguire la sua politica di dotarsi dell'arma nucleare. L'ammissione viene dall'ambasciatore di Tel Aviv a Washington, Dan Shapiro, e serve a confermare soltanto quello che già circolava da tempo. Per la verità Israele non ha mai fatto mistero della propria intenzione di regolare militarmente la questione, facendo sfoggio anche di temerarietà nei confronti di una possibile rappresaglia iraniana. Ma la sede di queste ammissioni, un paese straniero, gli Stati Uniti, che, anche se è il maggiore alleato di Israele, ha sempre fatto di tutto per frenare l'irruenza israeliana, significa che l'opzione bellica è ormai considerata una evenienza molto probabile. Tuttavia potrebbero esserci altri risvolti in quella che sembra una minaccia concreta all'Iran. Innazitutto potrebbe trattarsi di una opera di dissuasione collaterale alle sanzioni, per indurre che anche gli USA fanno sul serio sull'impiego delle armi come fattore deterrente alla costruzione della bomba atomica, ma nel contempo potrebbe essere anche una sorta di segnale di vicinanza ad Israele con lo scopo di dichiarare formalmente l'appoggio dell'opzione militare, in modo da non lasciare isolata Tel Aviv nelle minacce, che però serve anche a tranquillizzare lo stato israeliano, guadagnando tempo, nella speranza che le sanzioni abbiano un effetto positivo. La pressione sulla Repubblica islamica è stata rilevata anche dall'ambasciatore israeliano, notazione che può essere letta in maniera positiva in rapporto ad un possibile attacco, ma che è, forse, anche un omaggio diplomatico dovuto ai padroni di casa. Tuttavia l'atmosfera di grande sintonia tra i due paesi e le dichiarazioni ufficiali dovrebbero cancellare i dubbi circa un attacco autonomo delle sole forze israeliane non concordato con Washington, fatto molto temuto dagli analisti sia politici che militari per le gravi ripercussioni che avrebbe potuto comportare. Il tutto, comunque, non cancella le paure di un sempre possibile intervento e delle sue conseguenze, ed anzi leggendo tra le righe la volontà israeliana di attaccare sembra rafforzata dall'implicita ammissione USA.