Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 9 ottobre 2012
Nel Mondo ancora 870 milioni di persone soffrono la fame
La FAO, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, ha quantificato in circa 870 milioni, le persone che nel mondo soffrono la fame e denutrizione. Tale cifra è ritenuta ancora, giustamente, inaccettabile, seppure diminuita dal dato rilevato nel 2010, che era di 925 milioni. Il processo di diminuzione, in avanzamento costante fino al 2008, dopo tale data ha subito un rallentamento dovuto principalmente agli effetti della crisi economica globale, che è andata ad influire sull'aumento dei prezzi dei generi alimentari, la speculazione oltremodo spinta verificatasi sulle materie prime, l'incremento della produzione dei bio combustibili ottenuti a spese della produzione dei generi alimentari e non ultimo il cambiamento climatico, che ha provocato ingenti periodi di siccità, che hanno compromesso i raccolti. La distribuzione degli 868 milioni di persone che soffrono la fame si concentra per 852 milioni nei paesi in via di sviluppo ed ammonta al 15% della popolazione totale, mentre la cifra restante, 16 milioni, si trovano nei paesi sviluppati. Geograficamente sono tre le zone dove si concentra la maggior parte delle persone denutrite: 304 milioni in Asia meridionale, 234 milioni nell'Africa sub sahariana e 167 milioni in Asia orientale, per un totale di 705 milioni di persone. Compiendo delle valutazioni relative al numero complessivo di popolazione, in Africa si rilevano le condizioni più critiche. Da non sottovalutare anche l'impatto dei conflitti sulla situazione della fame: sia guerre che si trascinano da tempo, che nuove emergenze che si sono verificate a causa dell'espansione del fondamentalismo, hanno spesso portato, tra le varie conseguenze anche la difficoltà all'approvigionamento alimentare per le popolazioni coinvolte. La FAO, nelle sue considerazioni per risolvere almeno in parte il problema, pone l'accento sulla necessità di una crescita selettiva, che, cioè, non sia prerogativa principale dei paesi ricchi, ma che interessi principalmente le nazioni dove è maggiore la concentrazione dei poveri, per essere tradotta in un miglioramento tangibile della qualità e della quantità dell'alimentazione. Per favorire questo aspetto è necessario agire per favorire la crescita agricola intesa come strumento principale nella lotta alla fame, non in maniera generica ma rendendola sempre più sofisticata per ottenere, oltre ad una maggiore qualità del cibo, anche una differenziazione degli alimenti, sia in chiave di arricchimento della dieta, che in chiave di diversificazione delle scorte, per fronteggiare aspetti quali le calamità naturali.
lunedì 8 ottobre 2012
Il pericoloso destino dell'Afghanistan
Secondo un recente rapporto dell'istituto di studi dell'organizzazione International Crisi Groupe il destino cui si sta dirigendo l'Afghanistan, dopo la partenza definitiva delle truppe NATO, prevista per il 2014, sarebbe di una acuta crisi politica, con la concreta possibilità di un ritorno dei talebani al potere. I gruppi radicali islamici hanno già governato il paese dal 1996 al 2001 e non sono mai stati del tutto sconfitti, nonostante lo spiegamento delle truppe dell'Alleanza Atlantica. Il governo afghano non è riuscito ancora ad esercitare completamente la sua autorità sull'intero territorio nazionale, dove sfuggono intere zone al suo controllo, grazie al profondo radicamento delle milizie islamiche. Lo stato di precaria stabilità dello stato è dovuto alla fragilità delle sue istituzioni, che sono spesso frutto di elezioni contraddistinte da un elevato numero di brogli; inoltre la preparazione dell'esercito e della polizia locali viene ritenuta insufficiente per il mantenimento dell'ordine pubblico e della minaccia del terrorismo, senza la protezione delle truppe della NATO. Nei ceti dirigenti e nelle istituzioni preposte, malgrado ci sia la consapevolezza delle tante difficoltà, non si ravvisano decisioni atte a risolvere i problemi connessi con l'organizzazione dello stato in modo da elaborare una strategia adeguata al momento della conclusione della missione internazionale. Anche il presidente Karzai, pare più propenso ad assicurare il potere al suo clan che ad aumentare la credibilità del sistema politico. Con queste premesse pare francamente impossibile scongiurare il ritorno dei Talebani al potere, ma per il panorama internazionale tale esito riaprirebbe scenari non auspicabili. A parte una situazione interna, seppure già molto difficile, destinata a peggiorare notevolmente, l'Afghanistan potrebbe diventare una centrale del terrorismo internazionale di matrice islamica capace di ridare slancio alla guerra santa contro l'occidente. Se pare ormai impossibile mantenere l'ingente quantitativo di truppe presenti, sia per ragioni politiche che economiche, abbandonare del tutto il governo afghano, sebbene in un tale contesto di corruzione e forse anche di incapacità politica, potrebbe rivelarsi letale, non solo per l'occidente ma anche per Russia e Cina. Certo molto dipenderà dal destino dell'Iran, ma se l'assetto politico attuale di Teheran non dovesse variare, potrebbe andarsi a costituire un blocco di territorio formato da Iran, Afghanistan e Pakistan, dove, senza soluzione di continuità, la presenza del fondamentalismo islamico sarebbe preponderante. Resta da vedere se sarà sufficiente la presenza degli istruttori militari e dei droni, destinati a combattere dal cielo le formazioni talebane. Questa soluzione di ripiego non pare sufficiente a riempire il vuoto, non solo militare, che si verrà a creare con la partenza della NATO. Forse il lato ancora peggiore sarà la partenza delle tante organizzazioni umanitarie, che senza l'adeguata protezione, non potranno più operare dando sollievo a contesti sociali di estrema difficoltà e la cui opera contribuiva non poco a cambiare la cultura delle popolazioni, permettendogli una maggiore apertura e contrasto verso pratiche di sottomissione vecchie di millenni. E' infatti impensabile che possa continuare quell'opera intrapresa a fianco delle attività militari, che mirava ad allargare l'istruzione e le cure mediche a quelle parti di tessuto sociale fortemente condizionate dalla miseria e dalla repressione religiosa, con la sola protezione delle forze armate locali e dei droni di Washington. La questione non è di poco conto e se è giusto che non siano solo gli USA, attraverso la NATO, a farsi carico del problema, è altrettanto corretto che la questione venga presa in carico dalla comunità internazionale, con l'ONU in primo piano, per scongiurare ed evitare l'abbandono di una nazione tanto martoriata, che ha fatto qualche progresso con costi altissimi e che rischia che tutto questo venga vanificato dal ritorno di forze oscurantiste.
Romney torna sulla politica estera
Mitt Romney cerca di recuperare sul terreno in cui è più debole: la politica estera. Nonostante la risalita nei sondaggi, dovuta alla buona prestazione nel confronto diretto con il presidente uscente, il 46% degli elettori statunitensi pensa che Obama sarebbe più competente sulla materia internazionale, rispetto al 40% che da maggiore credito a Romney. Rispetto al dato di luglio, che vedeva un vantaggio per il presidente in carica del 47% rispetto al 39% dello sfidante, vi è stata una notevole crescita, che, però non è stata ancora sufficiente a colmare il considerevole svantaggio. Romney paga questa considerazione inferiore, per dichiarazioni estemporanee, che ne hanno fatto comprendere la scarsa preparazione sui fatti internazionali e diplomatici. Tuttavia il lavoro dello staff e gli ultimi accadimenti legati agli attacchi alle sedi diplomatiche americane, seguite al film su Maometto, hanno rilanciato lo sfidante alla presidenza USA, anche in questo campo. Romney ha così sferrato un attacco frontale contro la politica improntata alla prudenza di Obama, accusandolo di passività di fronte agli atti anti americani che sono avvenuti. Lo sfidante repubblicano ha proposto una ricetta che preveda un maggiore interventismo militare come risposta agli atti ostili verso gli Stati Uniti, frutto di una sottovalutazione del peso sempre più crescente del terrorismo islamico. Il punto debole della politica di Obama, secondo Romney, è l'eccessivo attendismo di una stabilizzazione, che senza un consistente aiuto americano non può verificarsi. E' chiaro che è una concezione dei rapporti con gli stati che sono usciti dalle primavere arabe diametralmente opposta a quella fin qui praticata da Obama, il quale ha preferito un profilo più basso proprio per non incorrere nel luogo comune che di solito vede l'azione americana come imperialista. Certamente i fatti seguiti alla diffusione del film su Maometto hanno favorito una presa di posizione che può fare breccia in certi ambienti della destra americana, fornendo gli indecisi a recarsi alle urne un argomento sempre convincente. Del resto, un'altra proposta di Romney tornata attuale è l'aumento del budget destinato alle spese militari e la questione israeliana con l'Iran, dove le soluzione dello sfidante collima con quella del presidente Netanyahu e cioè attaccare Teheran. Questi segnali non possono che essere letti come preoccupanti, in questo momento, pur con tutti i distinguo del caso, è senz'altro preferibile un presidente come Obama capace di gestire in modo più pacato anche altre situazione come il rapporto con la Russia e quello con la Cina, per ora tenuti sotto controllo grazie ad una intensa attività di mediazione, che non pare nelle capacità e nelle intenzioni di Romney. L'attuale fase storica non ha certo bisogno di persone al potere come il candidato repubblicano, che nonostante abbia migliorato nell'esposizione, resta un convinto assertore dell'affermazione degli USA come prima potenza mondiale in maniera dichiarata, cosa che Obama, pur continuando a perseguire nei fatti, evita accuratamente di ostentare.
venerdì 5 ottobre 2012
La Francia rilancia la collaborazione tra i paesi del Mediterraneo
Una delle soluzioni proposte durante la primavera araba, per affiancare le nascenti democrazie della sponda sud del Mediterraneo, dall'allora in carica presidente francese, Sarkozy, era quella di rilanciare l'idea di una organizzazione sovranazionale dei paesi del Mediterraneo, che potesse avviare progetti di collaborazione tra gli stati, sia in campo politico, che economico, che militare, che di aiuti alla formazione, per instaurare un rapporto che assicurasse la stabilità dei paesi affacciati sulle rispettive sponde del bacino. L'idea era poi decaduta per lo sviluppo, anche tragico, che le rivoluzioni dei paesi arabi avevano preso, sopratutto a seguito dell'intervento della coalizione dei volenterosi in Libia. Ma la creazione di una forma di unione tra i paesi del Mediterraneo deve essere una costante trasversale nel mondo politico francese se anche l'attuale presidente della repubblica, Hollande, la rilancia con grande convinzione. Nel prossimo vertice che si terrà a La Valletta, la Francia punta molto ad intensificare la collaborazione tra i cinque paesi della UE (Francia, Spagna, Italia, Malta, Portogallo) ed i cinque Maghreb (Algeria, Libia, Mauritania, Marocco, Tunisia), che saranno presenti. Questa formula, definita dei 5+5, ricalca lo schema in voga negli anni ottanta del secolo scorso, che prevedeva riunioni periodiche, sebbene informali, che permettevano uno scambi di idee ed un rapporto continuo tra paesi culturalmente molto distanti. L'evoluzione della situazione politica internazionale aveva fermato questi incontri al 2003, interrompendo una consuetudine che aveva instaurato un canale di comunicazione, che talvolta aveva rappresentato l'unico strumento semi ufficiale di confronto, troncando quindi una via sempre disponibile ed aperta. La variazione degli assetti politici seguiti alle primavere arabe ha determinato la necessità di ripristinare quei canali privilegiati, sopratutto diplomatici, che possono permettere una collaborazione comune alla definizione ed alla possibile risoluzione di quelle problematiche che possono riguardare le nazioni che si affacciano e si dividono il mare Mediterraneo. Non sappiamo se l'idea, prima di Sarkozy, ed ora di Hollande, parta da una reale presa di coscienza dell'importanza dello strumento o se costituisca una volontà di riaffermazione della politica francese, ultimamente un poco in ribasso, sul panorama internazionale, resta però il fatto che l'idea è senz'altro positiva e l'enfasi e la pubblicità che ne da l'Eliseo, a differenza di altre cancellerie pure coinvolte, testimonia che Parigi vuole essere il motore trainante di questa soluzione. Certo le condizioni in cui questa collaborazione dovrà svilupparsi non sono delle migliori: la crisi economica mondiale e quella dell'euro in particolare, non favoriscono certo l'assunzione di progetti troppo ambiziosi da parte dei paesi della UE, tuttavia, e non a torto, la presenza dei paesi del Maghreb, è ritenuta un punto di partenza incoraggiante. La politica di collaborazione dovrà partire da obiettivi minimi che, se funzionanti, permettano poi una collaborazione sempre maggiore. Non per niente si punta molto sulla formazione, tra cui è molto rilevante una sorta di progetto Erasmus del Mediterraneo, che punti ad uno scambio continuo tra gli studenti delle rispettive sponde, in una sorta di contaminazione culturale che favorisca il dialogo senza interruzioni. Ma il Progetto Mediterraneo ha ben altre ambizioni, dettate dalla necessità di regolare fenomeni non più sostenibili dai paesi delle due rive per motivi che sono complementari. Il controllo dell'immigrazione è uno degli aspetti comuni più rilevanti, perchè va ad innestarsi sulla necessità dello sviluppo dei paesi costieri della sponda meridionale, a questo proposito si è pensato all'intensificazione di progetti riguardanti le energie alternative per arrivare alla difesa ed alla sicurezza, dove è necessaria una stretta e continua collaborazione, sopratutto in relazione alla sempre crescente minaccia rappresentata del terrorismo islamico. Inutile dire che esistono obiettivi ancora più ambiziosi come il coinvolgimento della questione israelo palestinese, dove la diplomazia europea, se appoggiata da quella dei paesi arabi può giocare un ruolo importante, anche in ottica di possibile risoluzione dell'annoso problema. Uno dei fini ultimi di questo progetto potrebbe essere la costituzione della regione mediterranea, come organismo indipendente capace di sviluppare forme continue di collaborazione, all'interno di un proprio perimetro definito anche da leggi e regolamenti condivise, che potrebbe essere una anticamera ad un allargamento dell'Unione Europea anche a paesi tradizionalmente considerati fuori dal vecchio continente. Un processo certamente pieno di incognite e di ostacoli e magari inattuabile, che, tuttavia, potrebbe essere avviato con forme di integrazione studiate in maniera specifica, ma sempre con l'intento di favorire una maggiore integrazione, intesa come antidoto all'isolamento vera causa di contrasti tra le nazioni.
giovedì 4 ottobre 2012
La Turchia coinvolge la NATO sulla Siria
L'attacco siriano contro il territorio turco, che ha causato la morte di cinque civili, ha provocato la decisione della NATO di esprimere formalmente il proprio sostegno alla Turchia, che come paese membro dell'Alleanza Atlantica in situazione di pericolo può avvalersi dell'appoggio militare dell'organizzazione con sede a Bruxelles.
La decisione potrebbe costituire la giustificazione dell'intervento sul territorio siriano, tanto invocata dai ribelli, da parte di forze straniere, eludendo il veto del Consiglio di sicurezza dell'ONU, esercitato rigidamente da Cina e Russia. Gli ambasciatori dei 28 paesi che aderiscono alla NATO, in riunione di emergenza, hanno affermato in maniera univoca, che Damasco sta esercitando chiare violazioni del diritto internazionale nei confronti di un loro alleato. Tale dichiarazione potrebbe costituire il preludio a forme di intervento attive nei confronti della Siria. I piani militari delle armate di Assad, nei confronti del vicino turco, rientrano nella volontà di fermare il flusso dei profughi che fuggono oltre frontiera ed al contempo contrastare le basi dei ribelli presenti sul territorio turco. Gli episodi conflittuali tra i due stati, da quando è cominciata la guerra civile siriana, non sono infrequenti, prima dell'ultimo episodio, il caso più rilevante era stato l'abbattimento di un aereo militare turco da parte della contraerea di Damasco. Ma questa volta la risposta all'atto ostile siriano non è stata soltanto diplomatica, infatti l'esercito turco ha bombardato il territorio della Siria, in risposta al razzo caduto entro i propri confini. Appellandosi all'articolo numero cinque del Trattato Nord Atlantico, che prevede la difesa collettiva contro un attacco a uno dei suoi membri, la Turchia costringe la NATO, finora in una posizione di secondo piano nella vicenda siriana, ad esporsi in maniera definita. Per gli USA questo fatto potrebbe essere l'opportunità per intervenire per porre fine ai massacri, azione che sarebbe da tempo nelle intenzioni di Washington, da percorrere però, non come una iniziativa singola degli Stati Uniti, ma di concerto con altre potenze e meglio se con l'approvazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, stante il perdurare dei veti di Mosca e Pechino nella sede del Consiglio di sicurezza, anche un copertura di ripiego, ma sempre importante e sopratutto sovranazionale, come quella della NATO potrebbe giustificare l'intervento militare. Occorre però considerare come si vorrà intendere, sempre nel caso si decida per una azione armata, l'applicazione dell'articolo cinque del patto atlantico. Se verrà optato per una azione limitata alla difesa del suolo turco senza l'invasione di quello siriano, questa si concretizzerà con azioni di contenimento delle forze fedeli ad Assad, l'intervento, cioè, non sarà di una portata tale da alterare l'equilibrio delle forze, lasciando al governo in carica a Damasco notevoli opportunità di potere continuare la sua lotta da un punto di forza maggiore delle forze ribelli. Se si sceglierà questa strada sarà ritenuto politicamente più conveniente non complicare le relazioni con Cina e Russia, per non alterare situazioni diplomatiche già difficili, che potrebbero creare complicazioni di politica internazionale ad Obama nella occasione delle imminenti elezioni presidenziali USA. Viceversa, se si vorrà applicare una lettura ed una applicazione estensiva del già citato articolo cinque, si dovrà fornire una lettura della situazione che ritenga la permanenza al potere di Assad come un pericolo per lo stato turco in modo da giustificare un più massiccio impiego della forza. Questo avrebbe come obiettivo, oltre alla fine della guerra civile, il favorire l'insediamento al potere di quei gruppi con una maggiore inclinazione di simpatia verso il mondo occidentale, anche tenendo conto delle evoluzioni politiche con derive verso forze confessionali islamiche, che si sono verificate nelle precedenti primavere arabe. Questo aspetto è uno dei motivi di maggiore analisi e titubanza da parte degli Stati Uniti, che se da un lato devono impedire la vittoria di Assad, per scongiurare un paese al confine con Israele praticamente sotto il controllo iraniano, non hanno ancora chiaro come sia l'assetto delle forze ribelli, che costituiscono un coacervo di tendenze, che in caso di vittoria, si ritiene difficile mettere d'accordo, con potenziali ulteriori sviluppi di conflitto. Tuttavia pare poco credibile che la Turchia voglia avere ancora al proprio confine una tale situazione di instabilità; l'esercito turco è sufficientemente forte da battere quello siriano, che seppure bene armato, si trova a fronteggiare una guerra civile. Se Ankara dovesse decidere anche in modo unilaterale di dare il via alle operazioni, per la NATO sarebbe impossibile chiamarsi fuori, ma per gli USA ed in generale per l'occidente si potrebbero aprire una serie di difficoltà diplomatiche di non poco conto.
martedì 2 ottobre 2012
L'ONU in difficoltà finanziaria per gli aiuti ai rifugiati
L'ONU è in difficoltà per i costi sostenuti per gli aiuti ai rifugiati nel mondo. Una serie di combinazioni tragiche ed una congiuntura economica sfavorevole, che fa sentire la sua ricaduta anche sugli aiuti umanitari, obbligano le Nazioni Unite ad affrontare le varie crisi mondiali con mezzi finanziari sempre più scarsi. Occorre dire che l'avanzata del fondamentalismo islamico, che genera esodi di massa nel continente africano, rappresenta il fattore politico strategico preponderante, insieme alle guerre spesso scaturite dalle primavere arabe, all'origine del grande incremento del fenomeno dei rifugiati. Dal lato economico vi è l'aumento dei prezzi delle derrate alimentari, determinato dalla combinazione delle avverse condizioni climatiche unito alla crisi economica che sta colpendo l'intero pianeta, ad aggravare la voce di bilancio che il Palazzo di vetro destina agli aiuti umanitari. Ma insieme a questi fattori vi è anche lo scarso finanziamento che l'ONU riceve dai paesi membri, spesso costretti a tagliare i fondi destinati agli aiuti umanitari, per mancanza di risorse interne. Del resto il fabbisogno economico che deve materialmente sopperire agli aiuti di circa 42 milioni di persone è affare di complicata gestione finanziaria. Già nel 2011 il numero dei nuovi rifugiati è stato di 800.000 persone, mentre nel 2012, con l'apertura dei fronti siriano, sudanese, del Congo e del Mali, il tragico conto di chi è stato costretto a fuggire dalla propria terra ammonta già a 700.000 persone. Per cercare di limitare questo triste fenomeno, già caratterizzato dalle difficili condizioni di vita dei profughi ed ora aggravato dalle scarse risorse finanziarie che non potranno che peggiorare il livello della qualità degli aiuti, occorre elaborare una strategia preventiva che ne sappia ridurre sensibilmente il dato numerico. Tale strategia deve vertere su due strumenti essenziali: quello diplomatico e quello militare. Se situazioni contingenti come quella siriana, sono obiettivamente difficili da controllare, come il fallimento della missione di Kofy Annan ha dimostrato, sulle situazioni africane, che rappresentano la consistenza maggiore di profughi, occorre un intervento deciso volto ad eliminare la fonte del problema. Il caso del Kenya, che con i propri militari, sta respingendo le milizie islamiche, costituisce un valido esempio di come possa essere impiegata una forza internazionale, e quindi ben più potente dell'esercito di Nairobi, per liberare interi territori da cui sono fuggite masse ingenti di persone a causa dell'instaurazione di estremisti religiosi. E' chiaro che per fare questo occorre una volontà politica che sappia coinvolgere nazioni di diverso orientamento, ma questo non può che essere un investimento per una maggiore stabilità delle regioni dove il fenomeno dei profughi ha assunto livelli tali da ripercuotersi anche nei paesi più ricchi. Un'altra causa dell'incremento degli esodi sono le sempre più frequenti carestie, che colpiscono determinate zone del pianeta. La mancanza di investimenti volti a procurare l'autosufficienza alimentare è una macchia, che sia l'ONU, che le potenze mondiali e le nazioni industrializzate, devono cancellare. Il ruolo delle Nazioni Unite deve essere di maggiore coordinamento ed impulso a tali forme di aiuto, che possono permettere anche una crescita economica di paesi poveri, fuori dai mercati mondiali. L'attuale situazione dimostra come il solo aiuto inteso come intervento di emergenza è ormai insufficiente, perchè si basa su presupposti economici che non vanno aldilà della situazione di emergenza; la necessità di una programmazione che abbracci piani diversi di intervento è un aspetto non che non ammette rinvii e che, purtroppo, dimostra ancora una volta l'inadeguatezza dell'ONU attuale, con un sistema di gestione non più adatto alla fase storica attuale.
lunedì 1 ottobre 2012
L'Europa meridionale attraversata dalla crisi
Le tante manifestazioni che attraversano, sopratutto il sud dell'Unione Europea, dimostrano che il disagio sociale è sempre più intenso. Alle politiche economiche di austerità varate dai governi di Grecia, Portogallo, Spagna ed Italia sta per aggiungersi la Francia; il fine dichiarato è quello di abbassare i deficit degli stati per raggiungere un pareggio di bilancio, che però, così formato è destinato ad abbassare ulteriormente la già difficile situazione delle famiglie in special modo dei salariati e dei pensionati. L'accoppiata mortale formata dall'aumento delle tasse con la riduzione dei servizi ed anche delle entrate, ha portato la maggior parte dei nuclei familiari dei paesi dell'europa meridionale verso una compressione dei consumi che ha generato una recessione ormai impossibile da contenere. L'impressione è che questo fenomeno non sia stato previsto in modo così profondo da chi ha eleborato le strategie di contenimento economico, infatti, oltre alle tensioni sociali destinate a crescere, questo risultato ha anche provocato il minore gettito fiscale che ha in parte invalidato i duri provvedimenti presi. Questo fatto, aldilà delle promesse di ripresa, blocca la ripartenza dell'economia condannando la situazione ad un avvitamento senza uscita. Le grandi manifestazioni di piazza, sfociate purtroppo in scontri anche violenti, testimoniano che il livello di guardia è ormai oltrepassato e che le conseguenze che si prevedono sull'ordine pubblico sono delle peggiori. Siamo di fronte a governi, eletti e no, che sovvertono in maniera clamorosa programmi elettorali, in alcuni casi annunciati soltanto pochi mesi prima; il corpo elettorale, specialmente quella parte che ha dato il proprio sostegno in sede di voto, si trova spiazzato e tradito da politiche che vanno completamente nella direzione opposta a quella concordata con chi ha concesso la fiducia. Se questo stato di cose si unisce alla prostrazione economica della maggior parte della popolazione, si ottiene una miscela altamente esplosiva; gli stessi sindacati si sono dichiarati più volte incapaci di potere controllare la rabbia dei lavoratori, non avendo più argomenti per calmarli. Una situazione così diffusa di malcontento, che si sta sempre più allargando anche a ceti sociali più abbienti, diventando così un fenomeno trasversale della società, rappresenta una situazione di novità all'interno della UE, proprio per la sua larga diffusione in diversi stati membri, assumendo proporzioni talmente vaste da provocare la domanda se lo stesso concetto di esercizio della democrazia in Europa non abbia assunto una distorsione tale da decretarne una revisione. Se, infatti, alla base dell'azione dei governi deve esserci la maggiore diffusione del benessere della società, da raggiungere con modalità differenti a seconda dell'orientamento politico che detiene la maggioranza, quello a cui stiamo assistendo è un capovolgimento delle finalità che sembra vengano percorse. Le decisioni di salvare istituti finanziari e bancari, spesso colpevoli della crisi per le loro gestioni dissennate, attraverso il taglio di servizi e l'aumento delle tasse a chi ha già spesso patito in prima persona le conseguenze di queste politiche scellerate, penalizzandoli, quindi, in maniera doppia, non può che scatenare il malcontento e l'astio contro i centri di potere che si muovono in direzione univoca. L'assenza di politiche alternative, che pure in un quadro di rigore, permettano il mantenimento dei già bassi livelli occupazionali e trovino soluzioni per l'ingresso nel mondo del lavoro delle fasce di età più basse, rischiano di ingrossare quei movimenti, talvolta estremisti, che puntano alla dissoluzione europea, che nella loro visione rappresenta l'unica via di uscita da una organizzazione sovranazionale identificata, purtroppo talvolta a ragione, con i potentati finanziari responsabili della situazione. Questo pericolo è ancora più grande quando si assiste alla pochezza di Bruxelles nel governare la situazione, che lascia di fatto il comando a mercati e borse; questi, attraverso loro emanazioni, come gli istituti di valutazione, che esercitano metodi anche illeciti, influenzano i governi, con dati anche artificiosamente costruiti e dettano la linea da seguire alle cancellerie. L'assenza della politica da tanti invocata, sebbene con ragioni comprensibili, provoca così un vuoto di potere subito riempito dalle istituzioni finanziarie che non possono non governare a loro favore, facendo pagare il costo della crisi a chi già la subisce. Quello che occorre è una appropiazione della politica dal basso che si esplichi con controlli severi contro quelle distorsioni che hanno favorito questo stato di cose: vi è un bisogno disperato di maggiore legalità, una condizione che dovrebbe essere scontata ma che attualmente è merce sempre più rara. Putroppo senza dare motivi di una inversione di tendenza alle masse che scendono in piazza la situazione è destinata ad aggravarsi, dopo avere richiesto tanti sacrifici occorre dare in cambio qualcosa capace di riportare fiducia nei tessuti sociali di quei paesi che hanno sottoposto i loro cittadini a sacrifici per certi versi poco comprensibili. In questo senso strumenti come la tobin tax e l'introduzione di forme di tassazione del patrimonio, capaci di alimentare fondi in grado di abbassare l'imposizione fiscale sul lavoro ed in grado di creare sostegno all'occupazione potrebbero essere un inizio in grado di calmierare le diverse situazioni difficili, ma questi provvedimenti dovrebbe essere adottati a grande raggio, cioè su basi territoriali sovranazionali e parti di azioni coordinate per avere un maggiore impatto; certo senza una unione politica che sostenga tale volontà la situazione frammentaria non può che favorire il potere economico già esistente.
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