Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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giovedì 18 ottobre 2012
Per una lotta alla fame senza gli OGM
Il problema della fame nel mondo sta andando di pari passo con lo sforzo dei produttori di OGM di determinare il successo dei loro prodotti e della loro tecnologia. Sul dibattito della diffusione degli OGM vi sono tendenze contrarie e favorevoli, che da un lato sono fortemente negative a tale scelta per l'impatto sull'ecosistema, mentre dall'altro lato gli assertori di tali tecniche crecano di promuoverle in nome di una maggiore sicurezza e diffusione dei prodotti agricoli, che verrebbero più facilmente coltivati. Il gran numero di persone ancora alle prese con problemi di nutrizione offre a chi è favorevole agli OGM un appiglio non di poco conto, sopratutto se messo in relazione con la scarsità delle risorse alimentari. Tuttavia non è questa l'ottica corretta da cui guardare il problema, perchè un'analisi globale indica che più che la quantità di cibo disponile, il vero ostacolo per una maggiore nutrizione è l'accesso alle risorse alimentari. Certamente se ci si vuole limitare a prendere in esame i singoli territori dove il problema della fame è più pressante, si ha anche a che fare con gli scarsi quantitativi di produzione, legati, peraltro, ad una serie di fattori che si possono slegare dal mancato impiego degli OGM e che vanno dalle condizioni climatiche, alle scarse conoscenze tecniche, fino all'arretratezza dei mezzi di produzione. Su questi aspetti l'impegno dei governi dei paesi in questione deve essere stimolato attraverso aiuti internazionali, che possano permettere di raggiungere l'autosufficienza alimentare; ma ciò è possibile senza impiegare gli OGM, che, se in un primo momento potrebbero facilitare la produzione in quantitativi maggiori, successivamente porterebbero squilibri agli ecosistemi, tali da ripresentare la situazione di partenza. Nella fase di immediata urgenza sarebbe preferibile, invece, spostare le derrate alimentari in modo da favorirne l'accesso; ciò avrebbe ricadute positive, dal punto di vista dell'ambiente anche nelle regioni ricche. Le statistiche dicono, infatti, che la quantità globale di cibo prodotta è già sufficiente ad eliminare il problema della denutrizione. Attualmente vi sono l'equivalente di 4.972 calorie al giorno a testa prodotte nel mondo sotto forma di colture, ma soltanto 2.468 sono utilizzate per l'alimentazione, la parte restante è impiegata per l'allevamento intensivo del bestiame, che tra l'altro produce grossi quantitativi di anidride carbonica, per la produzione di idrocarburi, che dopo alcuni cicli di coltura rendono i terreni praticamente sterili, ed infine vi è lo spreco dei prodotti invenduti e quindi trasformati in rifiuti a causa delle errate politiche di acquisto delle grandi catene alimentari. Queste considerazioni portano direttamente alla necessità di una razionalizzazione dei sistemi di produzione e di distribuzione, che possano favorire nei paesi ricchi, attraverso un consumo più consapevole e possibilmente a chilometri zero, un miglioramento dell'ambiente e nei paesi poveri un indirizzamento della produzione in eccesso a prezzi calmierati, capace di portare alla risoluzione definitiva il problema della denutrizione, in attesa dell'indipendenza alimentare, che deve essere perseguita di pari passo. Ma il problema OGM non è soltanto in relazione alla denutrizione, come i produttori di queste tecnologie vogliono fare credere: la spinta della ricerca del maggior guadagno possibile non ha lasciato immune il settore agricolo, che, a seguito dell'industrializzazione sempre maggiore del settore, sta ricercando in maniera spasmodica rese sempre più alte dalle coltivazioni impiantate. Ma il punto debole è proprio nell'eccessiva industrializzazione del settore, non tanto nella componente meccanica, quanto nell'uso ormai sfrenato della chimica, che ha determinato l'abbandono di quegli usi consuetudinari dei contadini, che però assicuravano la bontà del raccolto. Preferire l'uso dei pesticidi e dei concimi chimici, anzichè optare per l'impiego di fertilizzanti biologici e praticare la successione delle colture, che permettono di mantenere inalterate le proprietà del suolo, si sono rivelate, nel lungo periodo scelte dissennate, dopo che nel breve periodo avevano permesso guadagni più elevati. Queste considerazioni vanno ad innestarsi direttamente sulle politiche di sviluppo delle zone povere, dove l'agricoltura deve essere il primo settore per importanza nel raggiungimento dell'autosufficienza alimentare. Tali tecniche, quelle tradizionali, necessitano di maggiore investimento e sopratutto di una maggiore attesa in termini di tempo in relazione al risultato, perciò è importante sviluppare un accesso al credito che preveda forme agevolate e facilitate, capaci di creare un'autonomia finanziaria che abbia il requisito della solidità per le aziende agricole dei paesi in via di sviluppo. Pur essendo diverse le caratteristiche necessarie a sviluppare una agricoltura senza OGM, i vantaggi per le collettività coinvolte sono senza dubbio maggiori: una maggiore sostenibilità per l'ambiente, nel lungo periodo produzioni agrarie assicurate e prodotti non modificati. Risulta ovvio che questi concetti devono essere condivisi, sia a livello statale che sovrastatale, i soggetti coinvolti sono molteplici, ma i risultati potenzialmente ottenibili sono di gran lunga un obiettivo sempre più essenziale da iscrivere al bilancio socio economico del pianeta.
mercoledì 17 ottobre 2012
Netanyahu vuole legalizzare gli insediamenti in Cisgiordania
Nonostante il parere contrario del ministro della difesa Ehud Barak, Netanyahu, con l'approssimarsi della fine della legislatura, cerca di regolarizzare gli insediamenti dei coloni costruiti in Cisgiordania. La manovra ha un senso politico, il primo ministro uscente e capo del Likud, che ha deciso di anticipare le elezioni, forte di sondaggi favorevoli, non vuole correre alcun rischio e punta con il provvedimento che ha intenzione di approvare, ad avere il pieno appoggio dell'estrema destra nazionalista. Secondo Netanyahu, il provvedimento avrebbe basi legali, grazie alla favorevole relazione redatta da una commissione di giuristi, guidati dall'ex giudice della Corte Suprema Edmond Levy, che respinge l'illegalità delle colonie. La manovra di avvicinamento per portare a termine il contrastato obiettivo, parte dalla necessità di migliorare la vita degli abitanti delle colonie, ma contiene gli strumenti per rendere maggiormente flessibili i requisiti amministrativi e legali, che possano facilitare la costruzione di altri insediamenti grazie ad un iter burocratico più veloce. Il timore di ripercussioni sui già difficili, proprio per questi argomenti, rapporti con la comunità internazionale, hanno determinato le dichiarazioni del Ministro dei Trasporti e leader del Likud, Israel Katz, che ha affermato, che la misura non è una dichiarazione di sovranità su queste porzioni di territorio e neppure una annessione della popolazione palestinese; tuttavia ciò appare in chiaro contrasto con quella che sembra la volontà, sopratutto politica, del provvedimento. Il dato più evidente è però la mancanza di una linea comune anche all'interno dello stesso governo di Tel Aviv: se da una parte il ministro della difesa, per cercare di riavviare il dialogo con i palestinesi, si sbilancia con il capo dell'ANP su di un possibile ritiro dalla Cisgiordania, il provvedimento caldeggiato da Netanyahu va nella direzione opposta. Questi segnali di contrasto erano già emersi in più occasioni relativamente alla necessità di attaccare l'Iran, ma parevano divergenze su ragioni di opportunità più che di merito, in questo caso, invece, le linee di condotta dei rispettivi membri del governo paiono divergere completamente. Se Netanyahu agisce in nome di esigenze contingenti, come le elezioni sempre più prossime, Barak pare avere una visuale più ampia, che tiene conto, cioè, dell'impatto di un tale provvedimento sulle relazioni diplomatiche di Israele, destinate a deteriorarsi ulteriormente ed ha rendere il paese ancora più isolato. Una condizione non proprio ottimale per una nazione che potrebbe scatenare una guerra con conseguenze sicuramente nefaste, ma anche imprevedibili, data la posta in gioco. L'opposizione israeliana si attesta su questa linea e ritiene dannoso per il paese regolarizzare le enclaves illegali. Vi è poi la questione della giustificazione legale adotta su cui si vuole basare il provvedimento e che praticamente invalida gli accordi del 1967. La tesi è che prima di quell'anno l'unica nazione riconosciuta ad avere sovranità su quei territori era Israele, dopo quella data nessuna nazione ha esercitato la sovranità sulla Cisgiordania e quindi la continuità temporale dell'esercizio della sovranità giustifica l'esistenza delle colonie. Questo argomento contorto e privo di sussistenza giuridica rischia di diventare un valido argomento per gli estremisti di entrambe le parti, ed il suo uso indiscriminato ed irragionevole non può essere accolto dalla comunità internazionale. Israele ancora una volta, conta sul silenzio colpevole delle Nazioni Unite, che dovrebbero reagire immediatemente con tutti gli strumenti legali a loro disposizione contro Tel Aviv, per impedire una tale violazione, che può portare a sviluppi molto pericolosi ed anche gli Stati Uniti, principale alleato degli israeliani, dovrebbe adoperarsi per scongiurare l'applicazione di una tale volontà. La reazione dei palestinesi è stata scontata quanto, fino ad ora, composta. L'ANP ha ribadito l'inesistenza di alcun fondamento delle pretese israeliane sui territori della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, definendo ridicolo il provvedimento promosso da Netanyahu.
L'Iran potrebbe inquinare lo stretto di Hormuz
L'Iran potrebbe usare il terrorismo ecologico per cercare di attenuare le sanzioni di cui è oggetto da parte dei paesi occidentali, per la questione della bomba atomica. Il piano, che sarebbe stato messo a punto dal capo della Guardia rivoluzionaria dell'Iran, Ali Jafari Mohammed, prevederebbe di inquinare lo stretto di Hormuz mediante una immissione di greggio, che dovrebbe portare alla chiusura della navigazione. L'attuazione del piano si dovrebbe concretizzare con lo schianto di una nave cisterna contro una determinata zona rocciosa dello stretto, accessibile soltanto alle autorità iraniane. La messa in pratica di tale piano costituirebbe una sanzione diretta dell'Iran all'economia mondiale, in quanto il blocco del transito delle cisterne dei paesi arabi affacciati sul Golfo Persico, andrebbe a costituire un ostacolo molto rilevante all'economia globale con ovvie ricadute sui prezzi del greggio. Ma, insieme a questo obiettivo, l'Iran ne può conseguire contemporaneamente anche altri. Il primo è proprio quello di danneggiare le economie petrolifere dei paesi arabi ostili all'Iran, per prima l'Arabia Saudita, il secondo è quello di costringere l'occidente ad attenuare le sanzioni per potere materialmente operare, anche insieme ad organizzazioni iraniane, alla ripulitura dei tratti di mare inquinati.
La strategia iraniana gioca, insomma, su più fronti per cercare di attenuare gli effetti delle sanzioni, che malgrado alcune eccezioni, stanno incominciando a mettere in seria difficoltà il regime. Questo piano, per la verità non è nuovo, ed è stato minacciato più volte nel caso si verificasse l'ipotesi dell'attacco da parte di Israele ed USA, ma l'intenzione di metterlo in atto a prescindere dalla messa in pratica delle minacce di Tel Aviv, può soltanto significare che Teheran potrebbe tentare una mossa della disperazione per attenuare gli effetti economici delle sanzioni sul paese. Tuttavia un tale azzardo esporrebbe l'Iran a misure ancora più pesanti ed aggiungerebbe nuove motivazioni per una azione militare, su cui potrebbero convergere anche altre potenze. Sono, probabilmente, queste valutazioni, che hanno impedito, al leader supremo iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, di dare il via, per ora, all'operazione di ecoterrorismo.
martedì 16 ottobre 2012
Autorità Palestinese e Israele tornano ad incontrarsi
Una riunione riservata, avvenuta in Giordania, tra il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ed il ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, avrebbe riguardato la possibilità di riallacciare i contatti tra le due parti, in vista di una possibile ripresa dei colloqui di Pace. E' dal settembre 2010, che i colloqui ufficiali sono sospesi a causa del rifiuto di Tel Aviv di bloccare gli insediamenti dei coloni israeliani sui territori della Cisgiordania. Ai colloqui avrebbe assistito il Re di Giordania, che avrebbe anche ricoperto il ruolo di mediatore. La Giordania è ormai l'unico paese arabo ad avere contatti formali con Israele ed è ritenuto da questi praticamente un alleato, tanto da pensare al coinvolgimento della nazione giordana nella strategia di un possibile attacco all'Iran, che dovrebbe comprendere il benestare per il sorvolo dello spazio aereo giordano all'aviazione militare di Tel Aviv, diretta a colpire gli obiettivi sensibili iraniani. Ma la Giordania è anche un alleato americano, ritenuto di fondamentale importanza strategica per la sua posizione. Queste due certezze potrebbero delineare che dietro l'incontro tra ANP ed Israele, non ci sia soltanto la volontà di pacificare l'area da parte del monarca giordano, ma qualcosa di più. La necessità di chiudere o perlomeno di sistemare in modo sostanziale la questione palestinese, almeno per la parte inerente alla Cisgiordania, potrebbe essere una necessità di natura politica ormai improcrastinabile per Israele, se l'attacco all'Iran fosse ormai imminente. Quella proposta ad Abbas è una soluzione che prevede il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania da parte di Israele, tuttavia senza la definizione chiara e certa dei confini tra i due stati. E' proprio questo che non convince il Presidente dell'Autorità palestinese, che punta al riconoscimento del proprio stato con una delimitazione fissata e riconosciuta da Tel Aviv. In effetti la proposta israeliana, sebbene contenga elementi di novità, che segnerebbero, se attuati, passi avanti di indubbio valore nel processo di pace, proprio per la sua non completa certezza sulla definizione dei confini, lascia adito a sostanziosi dubbi sulla reale intenzione di definire la questione, quanto piuttosto sia tesa a soddisfare una volontà contingente dello stato israeliano, derivante dalla necessità di dimostrare ai governi arabi, una intenzione di dare una soluzione al problema palestinese. La ragione politica che sta dietro a questa mossa è quella di fornire ai vari governi di matrice sunnita, ma pur sempre arabi, una argomentazione che possa attenuare le reazioni popolari ad un attacco contro Teheran. Se pubblicamente, infatti, stati come l'Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo Persico, non possono appoggiare un'azione militare contro l'Iran, stato pur sempre musulmano, da parte israeliana, la possibilità di danneggiare il maggiore regime teocratico scita è una eventualità che giocherebbe tutta a loro favore.
Anche il Portogallo colpito dalle misure anticrisi
Anche il Portogallo entra nella fase acuta della difficoltà per la crisi finanziaria. Il pesante passivo di bilancio del paese lusitano obbliga l'esecutivo in carica, di orientamento conservatore, ad agire nei modi consueti con i quali i governi dei paesi del sud europa hanno affrontato la questione e cioè un aumento generalizzato delle tasse che va a colpire i redditi bassi e medi, accompagnato da un drastico taglio del sistema del welfare. Questo schema è, ad oggi, il tratto comune che distingue più di tutti, l'appartenenza all'Unione Europea dei paesi colpiti dalla crisi economica. Si tratta di un insieme di riforme finanziarie che hanno come scopo la riduzione del debito dello stato, andando a colpire la parte del tessuto sociale che vive di salari e pensioni, che vedono ridotto il loro potere d'acquisto e contemporaneamente diminuite le prestazioni socio assistenziali, per le quali pagherebbero le tasse. L'esecutivo di Lisbona, oltre al problema materiale del debito pubblico, ha un problema di scarso gradimento nei sondaggi, che spera di risollevare tramite il recupero del gradimento all'estero ed in special modo negli apparati comunitari, dove, per essere apprezzato, deve mantenere una linea di profondo rigore, tralasciando le ovvie conseguenze sociali. Passos Coelho, il capo del governo portoghese, ha affermato che non devierà dalla linea intrapresa per sanare il bilancio dello stato, restando indifferente alle critiche di chi, come l'ex Presidente della Repubblica Jorge Sampaio, ha intravisto nelle misure decise, un pericolo per l'ordinamento democratico, messo a dura prova da una austerità senza speranza. Dello stesso avviso anche il Presidente in carica, Aníbal Cavaco Silva, che non ritiene giusto perseguire a tutti i costi l'obiettivo della copertura del disavanzo. L'opposizione di sinistra, pur concordando sulla necessità dell'abbattimento del debito, non è d'accordo sui modi e sui tempi, in quest'ottica si inquadra la proposta di rinegoziare i termini del debito sovrano o, in alternativa, cambiare la durata degli interventi, per potere dilazionare i sacrifici imposti alla popolazione. Tuttavia anche l'esecutivo lusitano non vede il pericolo derivante dalla compressione del potere di acquisto, che va ad incidere, inevitabilmente, sia sulla circolazione di denaro e quindi sulla vendita delle merci, sia sul conseguente minore introito derivante dalla tassazione indiretta. Anche il Portogallo dovrà affrontare, come già Grecia, Spagna ed Italia, una diminuzione dei consumi che contrasta con i propositi di crescita che la riduzione del debito dovrebbe innescare. Risulta stupefacente come si continui ad applicare medesime ricette che portano ad eguali riscontri, senza apportare alcuna variazione capace di cambiare i risultati. Anche se non si vuole tenere conto della profonda ingiustizia sociale consistente nel fare pagare soltanto ad una determinata parte del tessuto della società, che è anche la meno colpevole, la responsabilità del debito accumulato, questa strategia, è ormai provato che non paga, perchè provoca una enorme contrazione della spesa, che provoca una decrescita economica, fenomeno che va nella direzione opposta di quello attraverso il quale si vorrebbe risollevare l'economia. I provvedimenti intrapresi dal governo del Portogallo hanno già scatenato manifestazioni e scioperi ed altri ne sono attesi e sono in preparazione, tutto il paese è attraversato da sentimenti contrari alle disposizioni decise, Lisbona si affianca quindi ad Atene, Madrid e Roma nel deterioramento della pace e della coesione sociale, facendo percepire l'Unione Europea e la Germania come i nuovi nemici delle popolazioni degli stati dell'Europa del sud: un sentimento sempre più diffuso e pericoloso.
mercoledì 10 ottobre 2012
L'attacco all'Iran è più vicino?
Due fatti, apparentemente scollegati, possono indicare che la strada verso un probabile attacco all'Iran si sta avvicinando. Nel primo caso il premier israeliano Netanyahu, ha annunciato l'intenzione di indire le elezioni anticipate, da effettuarsi nei primi mesi del 2013, quindi in un lasso di tempo ristretto, anzichè ad ottobre scadenza naturale della legislatura, ufficialmente per approvare un bilancio fortemente restrittivo, basato su misure di forte austerità, che sarebbe impossibile ottenesse il voto favorevole necessario con l'attuale composizione del parlamento. Tuttavia, sebbene la situazione economica israeliana risenta della crisi, come peraltro il resto del mondo, il guadagno di nove o dieci mesi, pare più funzionale ad impedire all'Iran di costruire la bomba, che mettere riparo ai problemi economici. Quella contro l'Iran è una lotta contro il tempo, ma l'assetto democratico di Israele non ha i margini di manovra così ampi come quelli del governo iraniano; nel tessuto sociale e politico israeliano il dibattito sull'opportunità di scatenare un attacco preventivo sta lacerando il paese ed il premier in carica vuole imprimere una svolta decisa, che legittimi la sua posizione. Quello che appare è però un paese in preda alla paura, dove i favorevoli all'attacco preventivo stanno crescendo, facendo crescere simultaneamente i consensi verso Netanyahu, come testimoniato dai sondaggi. A questo punto la strategia del governo in carica appare chiara: legittimare con un risultato elettorale che pare scontato, la volontà di attaccare l'Iran. Se ciò si verificherà, a prescindere dal candidato vincente nella competizione USA, sarà impossibile per il nuovo presidente USA, in special modo se sarà Obama, non tenere conto della volontà del popolo israeliano. La possibilità è ritenuta fortemente verificabile dagli USA, e qui si verifica il secondo fatto che diventa un indizio, che hanno infatti inviato, in forma segreta, ma non troppo, un contingente di 100 unità in Giordania per aiutare il paese medio orientale a fronteggiare il grande afflusso di profughi siriani in fuga dalla guerra civile. Secondo le indiscrezioni si tratterebbe di personale militare altamente specializzato, che sembra fuori ruolo nel compito ufficialmente affidatogli. La Giordania, nella regione, è l'unico alleato su cui può contare veramente Israele, sopratutto per il passaggio dei propri aerei da bombardamento, che potrebbero essere impiegati contro l'Iran. Quella americana, insomma pare una missione esplorativa, se non organizzativa di un qualcosa che potrebbe avvenire in tempi relativamente brevi. Il collegamento dei due fatti a questo punto è impossibile da non vedere, l'eventualità di un attacco all'Iran, nonostante le sincere intenzioni di Obama di scongiurarlo, è ormai ritenuta fortemente probabile. Politicamente, del resto, se si verificheranno le condizioni previste da Netanyahu, sopratutto in coincidenza dell'avvicinarsi dello scadere del tempo stimato affinchè l'Iran possa avere a disposizione l'ordigno nucleare, sarà ben difficile uno scenario differente da quello fortemente voluto dall'attuale governo israeliano. Anche per gli USA non pare esserci più grande margine di operatività, nonostante l'esito delle elezioni sia sembre più incerto, anzi una vittoria di Romney, che si è più volte dichiarato favorevole all'attacco all'Iran, probabilmente consentirebbe a Netanyahu una accelerata, che potrebbe permettergli di anticipare l'operazione militare ancora prima della consultazione elettorale, pensata in funzione di una vittoria di Obama.
martedì 9 ottobre 2012
L'Iran può avere l'atomica entro 14 mesi
Secondo le stime dell'Istituto per la Scienza e la Sicurezza Internazionale, un organismo indipendente statunitense, l'Iran potrebbe arrivare ad avere la bomba atomica in un periodo massimo di 14 mesi, così suddivisi: dai due ai quattro mesi per l'arricchimento della quantità necessaria alla costruzione dell'ordigno, stimata in circa venticinque chilogrammi di uranio altamente trattato, e dagli otto ai dieci mesi per la costruzione materiale della bomba. Il tempo stimato coincide praticamente con quanto affermato dal Segretario della Difesa USA, Leon Panetta, che ha valutato in circa dodici mesi il tempo necessario a Teheran per diventare una potenza nucleare, qualora la decisione presa dal governo dell'Iran andasse in quella direzione. Una volta in possesso della quantità necessaria di uranio arricchito, si ritiene che per i tecnici dell'AIEA, sarà impossibile rilevare i progressi e gli avanzamenti nella costruzione della bomba atomica del paese iraniano. A questo punto l'unica via per evitare una guerra preventiva, come più volte caldeggiato da Israele, e nello stesso tempo impedire la produzione dell'arma nucleare, è impedire a Teheran i rifornimenti di uranio. Tale soluzione, l'unica che può effettivamente scongiurare un conflitto, le cui conseguenze non sono immaginabili, pare però non facilmente praticabile: nonostante le restrizioni a cui è sottoposto il paese iraniano, da gran parte, ma non da tutta, la comunità internazionale, l'isolamento non è completo e Teheran può percorrere diverse vie che possono assicurargli le forniture della materia prima necessaria alla costruzione dell'ordigno. Verosimilmente, quindi, quella che si svilupperà, almeno nel breve periodo, sarà la guerra sotterranea e non dichiarata già in atto tra Israele ed Iran, che ha portato, attraverso numerosi attentati, all'eliminazione di diversi studiosi, da una parte, e l'esecuzione di atti terroristici dall'altra, in una continua rincorsa di ritorsioni. D'altra parte l'atteggiamento ufficiale iraniano è quello di sviluppare l'energia nucleare esclusivamente per scopi pacifici, anche se gli ostacoli frapposti alle ispezioni degli inviati dell'AIEA sono sempre stati di livello tale da impedire gli esami richiesti, comportamento che ha alimentato sospetti che hanno sconfinato nella certezza sulle reali intenzioni del paese scita. Se Mahmoud Ahmadinejad continua, comunque a mantenere la sua posizione che non prevede interruzione alcuna del programma nucleare iraniano, malgrado il grave crollo della moneta nazionale, principalmente dovuto agli effetti delle sanzioni economiche, resta però difficile capire il suo calcolo, che pone il paese in grave difficoltà economica, per la costruzione di un ordigno che può portare soltanto l'avversione delle potenze mondiali. Se il progetto è quello di diventare, attraverso il possesso dell'arma atomica, una potenza in grado di guidare quei paesi e gruppi contrari principalmente ad Israele ed all'occidente, tale schema pare sovradimensionato alle reali potenzialità del paese, sopratutto in relazione alle possibilità di riuscita; e se anche l'obiettivo fosse quello di tenere sotto pressione continua l'intera regione mettendone in pericolo l'equilibrio, in una prolungata guerra di nervi, anche questa opzione pare difficilmente percorribile per i timori di Tel Aviv, che difficilmente saranno ancora tenuti a bada a lungo dagli USA. Sicuramente questo rapporto non farà che confermare quanto già in mano al governo israeliano con il risultato di accelerare i preparativi del tanto annunciato attacco.
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