Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 30 ottobre 2012
La Clinton nei Balcani, con l'incognita serba.
La visita diplomatica di Hillary Clinton, che si sta svolgendo nei paesi dell'ex Jugoslavia, sta affrontando alcune questioni interne che hanno una ripercussione sui rapporti internazionali, in special modo sulle questioni inerenti all'ingresso in organizzazioni internazionali come la UE e la NATO. La dissoluzione jugoslava ha dato corso ad una guerra sanguinosa nel cuore dell'Europa, che ha lasciato pesanti strascichi, tuttora il conflitto etnico risulta essere un ostacolo sia allo sviluppo, che alle relazioni tra i vari popoli della regione, che spesso ricorrono ancora alla violenza per regolare i conflitti. L'interesse della NATO e della UE, seppure per ragioni ed angolature differenti, è che la regione balcanica trovi un assetto stabile ed un equilibrio tale che ne consenta il pieno ingresso nelle loro organizzazioni. Tuttavia la reciproca diffidenza ed i sempre vivi sentimenti nazionalisti non sono un buon viatico per favorire i processi di integrazione, che a parole, gli governi dei paesi della ex Jugoslavia richiedono. I maggiori problemi risiedono in Bosnia, a Belgrado e nel Kossovo. La questione bosniaca continua ad essere segnata da conflitti serrati tra le comunità serbe, croate e musulmane; gli accordi di Dayton, seguiti alla guerra che ha martoriato il paese dal 1992 al 1995, prevedevano un assetto composto da un'entità serba ed una croata musulmana, che, mediante un complicato meccanismo fatto di regole tese a garantire entrambe le comunità, dovevano poi condividere un governo centrale. Ma la parte serba rifiuta ripetutamente questa soluzione ed ha minacciato più volte la proclamazione dell'indipendenza. Questo stato di agitazione permanente è contrario alle intenzioni della diplomazia internazionale che non vuole deragliare dagli accordi di Dayton, faticosamente raggiunti, che rappresentano un punto fermo oltre il quale, si teme, una recrudescenza degli eventi violenti e destabilizzanti. L'unica condizione che può richiamare all'ordine i leader bosniaci, sopratutto quelli serbi, è che proprio il mancato rispetto degli accordi di Dayton impedirebbe l'ingresso nella NATO e nella UE, occasioni viste dai bosniaci per risollevare un'economia stagnante. Nella questione del Kosovo, a Belgrado verrà richiesto, nella visita di giovedì prossimo dei diplomatici USA, di riprendere i contatti con Pristina; la Serbia rifiuta di riconoscere l'indipendenza proclamata in maniera unilaterale dal paese kosovaro a maggioranza albanese, e la vittoria elettorale dello scorso maggio dei nazionalisti serbi ha aggravato le reciproche posizioni. Ufficialmente l'atteggiamento del governo di Belgrado è quella di trovare un'intesa basata su concessioni reciproche da concordare tra Serbia e Kosovo. Ma ciò contrasta con i sentimenti di una opinione pubblica sempre più condizionata da un nazionalismo esasperato ed appare, quindi, meno reale ma strumentale per convincere la UE e la NATO ad accoglierle entro i loro aderenti. Nonostante tutti i tentativi fatti la Serbia appare ancora inaffidabile per l'ingresso in organizzazioni sovranazionali che richiedono standard elevati ai loro associati, l'estremismo nazionalista, spesso accompagnato da razzismo risulta ancora troppo diffuso per concedere la libera circolazione dei cittadini serbi in Europa e così i sentimenti di anti americanismo, dovuti alla posizione della NATO durante le guerre seguite al crollo della Jugoslavia, ostacolano ancora il processo di inclusione nell'Alleanza Atlantica. Senz'altro più agevole sarà il proseguimento del tour diplomatico della Clinton in Croazia ed Albania, paese in cui si chiuderà la trasferta del Segretario di stato americano.
lunedì 29 ottobre 2012
Il modello cinese in crisi, tra fuga di capitali e delocalizzazioni
Tra i problemi che attanagliano l'economia cinese vi è quello della fuga di capitali, che sta innescando ulteriori problematiche per Pechino. Soltanto nel corso dello scorso anno ben 472.000 miliardi di dollari, somma che corrisponde all'otto virgola tre per cento del PIL cinese, ha lasciato in maniera illegale il paese. Anche per i numeri enormi della Cina, si tratta di cifre capaci di creare danni al sistema economico e di aggravare la già precaria stabilità sociale, andando ad acuire l'enorme differenza tra poveri e ricchi. Il fenomeno non è comunque nuovo, ma l'incremento registrato fin dal 2000 sta assumendo proporzioni capaci di incidere sulla politica dello stato. Questi flussi finanziari illeciti vengono deviati su conti presenti in paradisi fiscali, ma una parte considerevole viene fatta rientrare in patria sotto forma di investimento straniero, godendo così delle agevolazioni fiscali e degli aiuti di stato previsti per i finanziatori esteri. Questa prassi assomma così un doppio reato che si traduce in una doppia perdita per lo stato cinese. Si capisce chiaramente come tale sistema alimenti il malaffare, la corruzione e crei gravi scompensi sociali, che contribuiscono ad alimentare il clima difficile presente sia nei conglomerati urbani, che nelle periferie del paese. Inoltre la concentrazione di tale ricchezza in una parte piccola della società, crea uno squilibrio di potere pericoloso per lo stesso apparato. Non è un caso che le lotte intestine in seno al comitato centrale si sono svolte proprio tra membri del partito comunista cinese, che più potevano disporre di ingenti patrimoni, la cui provenienza non è mai stata del tutto chiara. Malgrado il controllo ferreo del partito, applicato, per la verità, in maniera molto rigida agli strati più bassi della popolazione, il problema della corruzione è stato implicitamente riconosciuto anche da fonti ufficiali, che hanno avvertito da tempo l'influenza negativa di forme eccessive di arricchimento, capaci di regalare quote consistente di potere, specialmente nelle zone più remote dello stato. Dietro ai numerosi casi di scioperi e rivolte provocate dal malgoverno degli apparati locali, vi è sempre una volontà di maggiore arricchimento del potente di turno, che reinveste capitali di provenienza sovente poco chiara, in imprese che vanno a ledere la dignità dei popoli locali spesso vittime di espropri di forzati, sia di terra che di tradizioni. Ma ciò è conseguenza della politica cinese intrapresa negli ultimi anni che ha creato un'etica comunista del lavoro, capace di valorizzarsi con l'arricchimento personale, inteso come misura del successo dell'impresa. Una tale visione sociale, nata e cresciuta in un contesto di assenza di regole e diritti ha finito per favorire quelle forme di accumulo di capitale capaci di sfuggire al controllo dello stato, che hanno contribuito, allo stesso tempo, sia alla fortuna, che alla deviazione del sistema. Il fatto è collegato alla crisi del lavoro cinese, che si sta concretizzando drammaticamente in una fuga dei maggiori marchi in altre nazioni dove le condizioni della vita dei lavoratori ed il minor costo del lavoro, che comprende anche i costi sostenuti dalle imprese per fare fronte alla corruzione, hanno un impatto, anche emotivo, di maggior favore per i consumatori. Del resto il fenomeno riguarda anche marchi cinesi ormai affermati, che iniziano a praticare la delocalizzazione al pari dei produttori occidentali. In questo modo interi distretti industriali si stanno svuotando, creando disoccupazione e tensioni sociali sempre più pesanti. Tutti questi fattori contribuiscono a fornire l'idea che il modello cinese, stia entrando in crisi perchè avvitato su se stesso e non in grado di aggiornare la sua struttura apparentemente granitica, ma in realtà sorpassata dai tempi e sopratutto dai fatti.
venerdì 26 ottobre 2012
Londra potrebbe negare le proprie basi agli USA per l'attacco all'Iran
Con la situazione iraniana che non pare evolversi in un senso positivo e la continua pressione di Israele per un attacco preventivo, gli Stati Uniti, pur cercando di evitare l'escalation militare, si trova a dover programmare la logistica in funzione della possibilità che l'opzione bellica si concretizzi. A questo scopo il Pentagono ha contattato diversi stati per il permesso di sorvolo e l'utilizzo di alcune basi militari, che possano permettere il rifornimento e la manutenzione dei velivoli militari. In particolare sarebbero stati avviati contatti con l'alleato principale degli Stati Uniti, il Regno Unito, per ottenerne la collaborazione, attraverso l'uso delle installazioni situate nel suo territorio. Il Ministero della difesa britannico, consultandosi con il ministero della giustizia avrebbe negato l'accesso e quindi l'utilizzo alle proprie basi militari perchè ciò andrebbe a violare il diritto internazionale. In parole povere il governo britannico o teme, in ragione degli ordinamenti internazionali, una sanzione da parte delle Nazioni Unite oppure teme le ritorsioni iraniane. In tutti i casi la negazione delle basi britanniche alle forze armate USA, costituisce una maniera per esprimere forte disaccordo con la possibilità di un attacco all'Iran. Questo elemento rappresenta una novità assoluta, sia per i rapporti molto stretti tra i due stati, che per quanto riguarda il panorama internazionale occidentale, dove grazie alla compattezza sulle sanzioni contro la Repubblica islamica, non sono mai state messe in conto possibili defezioni. Ma un attacco militare alzerebbe il livello della ritorsione, che comporterebbe una responsabilità di gran lunga maggiore se paragonata a sanzioni economiche, di fronte ad un conflitto, che rischierebbe di allargarsi oltre i confini della regione e potrebbe avere implicazioni di una portata molto vasta per il possibile uso di armamenti nucleari. Il no britannico apre quindi una spaccatura di non poco conto nell'alleanza occidentale per la contrarietà alla scelta di attaccare l'Iran. Sarà facile che all'atteggiamento di Londra si accodino le altre capitali europee, non certo favorevoli ad essere coinvolte in una guerra non certo condivisa. Recenti simulazioni hanno previsto che l'Iran potrebbe arrivare a colpire addirittura l'Italia con i suoi missili. Non pare credibile quindi, che ne l'Unione Europea, ne i singoli stati, vogliano appoggiare Israele e gli USA in una azione militare della quale non possono prevedersi gli sviluppi, neppure con la sola concessione delle basi presenti sui loro territori. Se questa sarà la tendenza che si affermerà, per Israele sarà sempre più difficile contare sull'appoggio dei paesi occidentali, neppure mettendoli di fronte al fatto compiuto. L'impressione è che la questione, per le cancellerie occidentali, se arriverà al punto di rottura, non sarà considerata affare loro. Questa situazione lascia Tel Aviv in un isolamento pressochè totale sull'argomento, che, però, potrebbe significare ancora meno cautela, perchè getterebbe il paese in preda ad un terrore ancora maggiore e ad un senso di accerchiamento capace creare i presupposti per una azione mal ponderata. Anche gli USA vengono messi in difficoltà, oltre che venire a mancare l'appoggio materiale, la negazione delle basi significa anche il venire meno dell'appoggio morale e politico ad una eventuale azione di forza. Ma nell'immediato la sensazione americana deve essere di smarrimento totale di fronte al rifiuto britannico, l'alleato da sempre più fidato. Se questa situazione fa il gioco di Obama, che può mettere sul tavolo, oltre la propria contrarietà, anche quella degli occidentali ad un attacco militare contro l'Iran, per rafforzare ancora di più l'azione delle sanzioni, preoccupa le sfere militari alle prese con una gestione molto difficoltosa di un'azione, che, comunque, non è stata ancora scongiurata; ed inoltre mette nei guai Romney, nell'eventualità di una sua elezione, che deve tenere conto dell'importanza del rifiuto britannico prima di proseguire nella sua intenzione, più volte dichiarata di bombardare l'Iran. Se l'opinone pubblica era concentrata sulla scena contraddistinta dal dualismo Iran- Israele, con gli USA dietro le quinte, la variabile inattesa della decisione britannica, rischia di portare scompiglio nel teatro della contesa: chiamandosi fuori le spalle di Washington, benchè larghe, non sembrano sufficienti per portare il peso di una responsabilità così grande.
Elezioni USA: gli uomini bianchi non votano per Obama
All'avvicinarsi della data delle elezioni presidenziali americane, nelle pieghe dei sondaggi, è uscito un dato che non è stato abbastanza messo i rilievo dagli analisti. Barack Obama non ha il sostegno degli uomini bianchi americani. Se questa situazione era già presente alla vigilia delle passate consultazioni elettorali, ora il fenomeno si è acuito, con Romney in vantaggio, su questa parte della popolazione, di ben 23 punti percentuali. Sul perchè il presidente uscente non riesca a sfondare in questo segmento di elettorato pesano considerazioni e motivazioni differenti. Prime tra tutte sono la mancata identificazione con le idee ed i provvedimenti che stanno alla base di Obama. Gli Stati Uniti non sono New York, nell'America profonda è ancora valida l'idea della supremazia sociale della figura maschile bianca, la retorica del bianco, anglosassone e protestante, in effetti non è mai tramontata, e le leggi in favore delle minoranze, sia etniche che sessuali, non hanno mai fatto breccia in quella che è la classe dominante statunitense: l'uomo bianco, che detiene la maggiore percentuale di ricchezza del paese e si identifica con la legislazione liberista propria del partito repubblicano. Scalfire le convinzioni di questa figura sociale emblematica, che incarna il sogno americano delle origini, non è ancora socialmente possibile. In questo aspetto gli Stati Uniti, si rivelano ultra conservatori ed anche non al passo con i tempi. La politica repubblicana, infatti, dal punto di vista sociale si ostina a presentare una immagine della società ancora fondata su valori familiari tradizionali, che spesso non rispecchiano l'effettiva fotografia della composizione del tessuto sociale americano. Vi è poi una questione razziale difficile da scalfire, l'icona del presidente di colore, che è stata presentata al mondo come una conquista della parità, all'interno della nazione non ha avuto un tale ritorno di immagine ed anzi, per certi versi, anche grazie a notizie false che hanno alimentato campagne denigratorie contro Obama, in vasti settori di razza bianca, l'insediamento di un uomo di colore alla massima carica statunitense, e quindi del mondo, è stato vissuto come una autentica usurpazione. La parte sociale che ha avuto questi sentimenti è stata proprio quella composta dagli uomini bianchi, che però non possono tutti essere di ceto elevato, cioè non basta fare una discriminante del reddito per individuare le ragioni dei contrari ad Obama, occorre, invece, cercare motivi ulteriori, come quello razziale, per spiegare un fenomeno che sembra avere radici che sfiorano la psicopatologia di questa parte di elettorato. La mancata accettazione di un presidente di colore appare una presa di posizione che prescinde, in molti casi, dal suo operato effettivo, è, cioè, una scelta a priori che si fonda sulla convinzione, putroppo ancora presente, della supremazia dei bianchi sui neri e ciò risulta essere ben triste nel 2012 e dimostra come quella che è dichiarata la più grande democrazia del mondo sia, in realtà, ben lontana da raggiungere tale livello. Questo dato dei sondaggi, pone quindi l'accento su di una polarizzazione estrema della società americana che è tutt'altro che amalgamata come si crede all'estero, gli stereotipi dell'America del sud, sono purtroppo non solo luoghi comuni ma tristi realtà, che si ritrovano anche ad altre latitudini del paese. Lo stesso Obama è apparso rassegnato di fronte a questa realtà, concentrando i suoi sforzi in campagna elettorale verso l'elettorato di colore e quello ispanico, dove il vantaggio attribuito, potrà risultare fondamentale per il risultato finale. In ogni caso la riflessione finale non può che vertere sulla reale natura del paese che sempre si è identificato come quello delle opportunità e della realizzazione, dati come questo dimostrano quanto quella immagine da cartolina sia lontana.
giovedì 25 ottobre 2012
Berlusconi non si ricandiderà a capo del governo italiano
Con l'annuncio del ritiro dalla candidatura alla corsa elettorale nella veste di candidato premier, Silvio Berlusconi pone la fine alla sua era politica, durata diciotto anni. Pur non trattandosi di una uscita di scena politica totale e definitiva, l'intenzione è quella di rimanere dietro le quinte del suo partito come consigliere e padre nobile, la svolta per tutto il panorama politico italiano è cruciale. Sia da destra che da sinistra, si respira un'aria di scoramento, da una parte per l'assenza futura dall'impegno in prima persona e dall'altra per la mancanza dell'avversario storico di tanti anni, bersaglio costante e fattore di unificazione delle opposizioni. Nei fatti l'uscita di scena è stata una scelta obbligata da diversi fattori e non certo, come affermato, una scelta autonoma e responsabile. Per prima cosa hanno pesato i risultati fortemente negativi dell'economia italiana, condizionati dagli ultimi anni costellati da decisioni sbagliate, che hanno obbligato il Presidente della Repubblica, ha chiamare al governo un gruppo di tecnici, per raddrizzare, almeno nei numeri complessivi, bilanci disastrosi. Ma non meno decisiva è stata l'implosione del partito creato da Berlusconi, Il Popolo delle Libertà, con presupposti non in grado di legare le varie componenti, formate dalla destra estrema assemblata agli ultra liberisti; un partito di plastica, unito solo grazie al carisma del suo fondatore, che ha esercitato il ruolo di padre padrone, ma anche quello di parafulmine. Lo scarso controllo sull'apparato periferico, lasciato libero di proliferare grazie ad arricchimenti indebiti, che hanno provocato scandali di impatto pesantissimo sull'immagine complessiva della forza politica, ha, alla fine, determinato una sorta di tutti contro tutti, dove la vittima designata è stata proprio il partito stesso. Sceso nei sondaggi addirittura al terzo posto, superato anche da un movimento creato da un comico, il Partito della Libertà si stava dissolvendo nelle liti interne, condannato a scissioni che avrebbero ridimensionato drasticamente il peso politico degli autodefiniti moderati. La mossa di Berlusconi, per quanto obbligata, segnala una sensibilità politica ed una capacità operativa, che rappresentano le uniche possibilità di salvezza per il partito. Facendosi da parte da candidato premier, Berlusconi, può riacchiappare quei voti che la destra avrebbe consegnato all'astensionismo piuttosto che optare per il vecchio premier. Ma questa è solo la metà dell'opera, Berlusconi ha lanciato la sua successione con le primarie, il partito deve ora camminare da solo e l'interrogativo più difficile è vedere se resisterà unito senza il suo maggior fattore di amalgama. Il movimento appare tutt'altro che coeso e le candidature esprimono posizioni politiche molto distanti, la scadenza della consultazione per la successione è brevissima, le primarie sono previste per dicembre, e non è esclusa la fuoriuscita dal partito, come già accaduto con Tremonti, di pezzi del movimento per la formazione di nuovi schieramenti. Il quadro è quindi a tinte fosche, tuttavia dall'altro lato dello schieramento le cose non appaiono differenti. Il principale partito di opposizione dato vincente fino ad ora dai sondaggi, più per mancanza di concorrenza che per reali capacità, è altrettanto lacerato da un conflitto interno che, in apparenza pare contrapporre la nuova alla vecchia guardia, in realtà mette di fronte visioni diametralmente opposte del concetto di sinistra. Qui si è ancora più vicino alle consultazioni primarie per designare il candidato premier e le due correnti che possono ambire alla vittoria, la terza quella che si rifà a posizioni vicine all'ultra sinistra non ha alcuna possibilità di affermazione, rappresentano una la copia di un liberismo attenuato simile alle politiche di Blair, l'altra un confusionario compromesso tra il lavoro ed il capitale difficile da comprendere. Se con Berlusconi in campo anche una opposizione così sgangherata avrebbe vinto di sicuro, senza, la certezza viene meno, andando così a rendere determinante il tanto odiato avversario, che cancellandosi dalla competizione da un colpo non decisivo ma pesante, alle aspirazioni della sinistra di andare al governo. Ma l'unica certezza è che ancora una volta Berlusconi gioca un ruolo da protagonista, sebbene questa volta indiretto, della politica italiana. Le prossime tappe di avvicinamento alle elezioni di Aprile riserveranno ancora sorprese, rendendo sempre più incerto l'esito della competizione, da ora tutto è riaperto
mercoledì 24 ottobre 2012
Per Grecia, Portogallo e Spagna sciopero contemporaneo contro l'austerità
L'Europa comincia ad unirsi anche dal basso. Se finora a rendere sempre più vicini e collaborativi tra di loro i governi della UE erano i problemi economici, la cui soluzione è finora andata, in modo univoco, nella direzione di soddisfare i grandi capitali e le istituzioni bancarie e della finanza, il giorno 14 novembre andrà, per la prima volta in scena, uno sciopero generale contemporaneamente in tre paesi. Saranno infatti Grecia, Spagna e Portogallo, guarda caso le tre nazioni i cui popoli sono stati maggiormente colpiti dalle misure dei rispettivi governi, a manifestare contro il ricorso esagerato a politiche di austerità, che hanno compromesso il funzionamento dello stato sociale, peggiorando sensibilmente la qualità della vita dei ceti meno ricchi e più poveri e portato l'economia ad uno stato di sofferenza per la contrazione dei consumi. Protagonista di questa manifestazione è la Confederazione europea dei sindacati, organizzazione che riunisce 85 sindacati di 36 paesi, che inaugura con questa giornata di sciopero una strategia a più ampio raggio per ottenere una maggiore visibilità per cercare di contrastare le politiche recessive dei governi europei. Già in altre occasioni si erano ospitate delegazioni di paesi stranieri durante gli scioperi dichiarati in altre nazioni, fenomeno che ha posto l'accento sul bisogno di una strategia sindacale capace di riunire i sentimenti che sempre più accomunano i popoli europei, ma mai si era riuscito a proclamare una giornata di protesta lo stesso giorno in tre nazioni differenti. Il tema dello smantellamento del modello sociale europeo in favore dello spostamento di potere verso chi detiene la gran parte del capitale, per permettere alle aziende, con la scusa della crisi, l'attenuazione dei diritti dei lavoratori, è ormai un argomento che tocca la sensibilità di platee sempre più vaste. Il ricorso agli scioperi è ormai sempre più frequente ed in alcuni paesi la tensione sociale sta toccando picchi di difficile gestione, sia da parte delle forze politiche, che da quelle sindacali. I dati circa la disoccupazione in Europa dicono che più di 18 milioni di persone sono senza lavoro, di cui almeno un quarto nelle fasce giovanili e questo aumenta il fenomeno del precariato, spesso praticato con diritti sempre meno garantiti. I governi hanno scelto la strada di salvare le banche, addebitando il conto ai salariati ed ai pensionati, che oltre vedere ridotto il proprio potere d'acquisto hanno dovuto subire anche il taglio delle prestazioni sociali, misura che si aggrava ad ogni manovra finanziaria. Nella UE quello che viene individuato come vincente è il modello tedesco, tanto decantato per la sua capacità di esportare. Tuttavia le esportazioni della Germania sono dirette per il 60% della sua produzione all'interno del mercato dell'Unione Europea, quindi se la compressione della capacità di spesa delle altre nazioni europee andrà avanti, ad entrare in crisi sarà anche Berlino, che con i suoi prodotti non ha mai sfondato oltre i confini del vecchio continente. Questo dato deve fare riflettere i governanti europei, che si sono sottomessi alle misure volute essenzialmente dalla Germania, per la sua necessità di fare cassa subito. La locomotiva tedesca, infatti, appare forte con deboli ed il suo bisogno dell'euro è essenziale, una Germania con la propria valuta vedrebbe subito abbassarsi il proprio livello di esportazioni entrando in recessione. Se Berlino ha delle ragioni per pretendere bilanci rigorosi, ha ancora di più l'interesse ad ostacolare le imprese europee sue concorrenti, strangolandole dal lato finanziario, creando così la disoccupazione che attanaglia la maggior parte delle nazioni europee. Questo meccanismo sta diventando ben chiaro alle popolazioni europee dove l'avversione per la nazione tedesca si sta incrementando notevolemente, meno chiaro è come i governi accettino i diktat di Berlino praticamente senza obiettare alcunchè. Ma come vi è necessità di una unione politica paritaria per la sopravvivenza dell'Unione Europea, vi è altrettanta necessità di una unione sindacale, che sappia unire le diverse componenti nazionali e sappia creare una linea di difesa comune del lavoro e dello stato sociale con strategie in grado di rappresentare in modo globale le esigenze, sempre più frustrate, dei popoli europei. Questo passo dello sciopero comune in tre paesi è quindi un punto di partenza per dare una risposta alla continua violazione dei diritti e contro politiche economiche che offendono i ceti meno abbienti, ancora più importante perchè contiene in se il seme dell'unità dei lavoratori europei.
Israele sempre meno tollerante con gli arabi
La notizia che mette in risalto i risultati di un sondaggio in Israele, dove la popolazione ebraica si è espressa in maggioranza a favore della concessione di maggiori diritti ai cittadini di etnia ebrea rispetto ai cittadini israeliani di origine araba, che rappresentano il 20% della popolazione del paese, pone inquietanti interrogativi sulla tendenza del comune sentire dalla maggioranza della nazione e sulle possibili conseguenze sul tessuto sociale e della impronta politica futura del paese, alla vigilia delle elezioni. Anche perchè, tra le pieghe del sondaggio, è emersa anche l'opinione favorevole ad una annessione della Cisgiordania; se questa è una ipotesi remota, tale approvazione esprime però, in maniera chiara, l'appoggio alla politica del governo sulla espansione dei territori, provando che non vi è alcuna volontà di raggiungere un accordo con la controparte palestinese. La polarizzazione, sempre più spinta, della popolazione israeliana, con l'assenza di integrazione con la parte araba, rappresenta una società che tende sempre più ad isolarsi dal contesto mondiale fino a rinchiudersi in se stessa. Questa forma di auto isolamento, una quasi autosufficienza sociale, pone per il paese delle difficoltà pratiche ad un confronto sereno, sia sul piano internazionale in generale, sia su quello particolare della risoluzione del problema con i palestinesi; anzi per quest'ultimo caso, il risultato del sondaggio, rappresenta un chiaro rifiuto ad una soluzione condivisa, ma soltanto ad una risoluzione favorevole alla matrice ebraica del paese, che va, però, contro ogni buon senso. Se il 59% del sondaggio è a favore di privilegiare gli ebrei sugli arabi relativamente al lavoro nell'amministrazione dello stato, il 42%, è favorevole ad una sorta di apartheid, che separi materialmente le due etnie sia nelle scuole che nelle civili abitazioni ed esiste addirittura un 74% favorevole alla costruzione di strade separate, mentreil 69% sarebbe favorevole alla negazione dell'esercizio del diritto di voto alla minoranza araba, questi dati significano che il lavoro della maggioranza politica di destra ha trovato una coltura favorevole per potere imprimere in modo deciso le proprie idee. In effetti l'operato del governo in carica ha promosso una politica di forte discriminazione della minoranza araba tramite provvedimenti come quello che nega la cittadinanza israeliana al coniuge nato nei territori palestinesi o quello che favorisce l'acquisto di terreno per gli ebrei rispetto agli arabi. Sebbene a questo atteggiamento non corrisponda la totalità della popolazione ebrea, vi è stata indubbiamente una crescita dell'avversione ai concittadini arabi, che riflette la paura della società israeliana, una società che vede nemici ovunque e si sente accerchiata anche per le simpatie verso i palestinesi della maggior parte della opinione pubblica mondiale. In un contesto del genere è facile così pronosticare la vittoria, ancora più marcata, del governo in carica alle prossime elezioni. Un risultato elettorale che si quantifichi in una dote di voti consistente, permetterà, come è nelle intenzioni di Netanyahu, una ulteriore accelerata verso uno stato che tenderà ad una emarginazione ancora maggiore della minoranza araba, non cogliendo, invece, le opportunità e le potenzialità che una maggiore integrazione poteva fornire come contributo alla pacificazione dei due popoli ed alla risoluzione del problema annoso della mancanza di una patria per il popolo palestinese. Ma questa soluzione di buon senso, che toglierebbe, tra l'altro, uno degli alibi fondamentali per l'esistenza dell'estremismo islamico, non pare essere nei programmi di chi gestisce il potere a Tel Aviv, che, al contrario, pare perseguire l'intento di aumentare il più possibile la quota di territorio da annettersi e negare con scuse sempre nuove la possibilità della creazione di uno stato palestinese. In quest'ottica i risultati del sondaggio trovano la giusta collocazione, come espressione di un popolo che vuole concedere poco o niente ai suoi più prossimi vicini, con tutte le conseguenze del caso.
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