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martedì 6 novembre 2012

La Cina irritata con il Commissariato ONU per i diritti umani per le denuncia sul trattamento dei tibetani

Dopo le dichiarazioni del Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, che hanno espressamente denunciato il governo cinese per la ripetuta e sistematica violazione di tali diritti, ai danni del popolo tibetano, la reazione di Pechino non si è fatta attendere. Complice l'attenzione mediatica a cui la Cina è sottoposta per la celebrazione del congresso del Partito Comunista Cinese, l'accusa del Commissariato ONU, ha assunto una rilevanza ancora maggiore, che è stata accusata molto dai dirigenti cinesi, come si comprende dal tono della risposta. Infatti Pechino ha opposto la più ferma opposizione, esprimendo delusione profonda per le accuse rivoltegli, affermando che la comunità tibetana gode di tutta la libertà politica, religiosa, culturale ed economica, come il resto dei cinesi. Se in altre occasioni sulle accuse rivolte all'azione repressiva sul popolo tibetano, Pechino ha, in molti casi, glissato o usato frasi di circostanza, tendenti a limitare la propria reazione per fare cadere la questione, la reazione di questi giorni è il sintomo di un nervosismo crescente tra le fila del governo, dovute, in parte all'attenzione rivolta da tutto il mondo alla transizione di potere ed in parte dovute al sempre più crescente interesse sulla questione tibetana, che rischia di essere la prima spina nel fianco della nuova dirigenza. Tuttavia lo schema difensivo ricalca quello classico usato da sempre: addossare la colpa delle dimostrazioni suicide dei monaci tibetani all'azione politica del Dalai Lama, il quale viene accusato di uso spregevole della vita altrui. Se la Cina crede di avere ragione sul suo comportamento in Tibet, risulta incredibile come possa difendersi con argomenti così poco convincenti, è chiaro che le dimostrazioni dei monaci stanno ottenendo una attenzione al problema tibetano, che Pechino ha troppo a lungo sottovalutato, sia dal punto di vista interno, che da quello esterno. La continua negazione dei diritti civili poteva essere attenuata con forme di riconoscimento della cultura tibetana, che potessero portare ad un compromesso sostenibile di convivenza per entrambe le parti, ma il rigido atteggiamento cinese ha portato all'esasperazione i tibetani, che, pur tra una censura molto ferrea ed impermeabile al passaggio delle notizie, hanno messo in pratica una protesta tremenda e tradizionale, capace di sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale, già di per se molto attenta al problema, grazie all'azione incessante e pacifica del Dalai Lama. La politica che uscirà dal Congresso del Partito Comunista in corso dovrà per forza misurarsi e confrontarsi con la questione tibetana, che potrà essere anche un termine di paragone molto probante per valutare il grado di apertura che il nuovo direttivo vorrà concedere a tutte le popolazioni e minoranze etniche presenti sul suolo cinese. In presenza di una continuità contraddistinta da una rigidità come l'attuale, la Cina è destinata ad avere grossi problemi, se, viceversa, verrà attuata una politica di aperture, certo graduali, per Pechino sarà più agevole amministrare la questione dei diritti umani; ma ciò non vale soltanto per i popoli di etnia differente, ma deve essere esteso a tutta la platea del popolo cinese e non può non essere esteso al mondo del lavoro, dove, finora, i diritti sono stati calpestati in nome della produttività. Il Tibet non sarà l'unico fronte per i nuovi dirigenti cinesi, gli scioperi e le dimostrazioni per ottenere migliori condizioni di vita, sono in costante aumento e segnalano la volontà delle classi più povere di avere un miglioramento delle loro condizioni di vita. Questi aspetti, etnico, economico e della rivendicazione dei diritti, non sono slegati perchè fino ad ora hanno subito un trattamento analogo improntato alla negazione ed alla repressione, ma l'evoluzione delle coscenze dei cinesi non permetterà più a lungo uno stato di eterna sudditanza.

lunedì 5 novembre 2012

Giappone ed USA iniziano le esercitazioni militari, nonostante la tensione con la Cina

Sono iniziate le esercitazioni militari congiunte, che vedono impegnate le forze armate giapponesi e statunitensi, presso le isole di Okinawa, sotto cui ricade l'amministrazione dell'arcipelago delle isole di Senkaku o Diaoyu, per la Cina, fonte di disaccordo diplomatico profondo tra Tokyo e Pechino. Le manovre si svolgeranno fino alla metà del mese ed inizialmente dovevano anche includere un atterraggio di aerei militari su una delle isole di Okinawa, che è stato cancellato per non aumentare tensione con la Cina. Malgrado la consapevolezza giapponese che queste esercitazioni potranno aumentare i difficili rapporti con Pechino, Tokyo ha deciso di volere riaffermare la sua sovranità sulle isole contese, rafforzando la difesa delle sue isole meridionali e coinvolgendo in prima persona il suo principale alleato: gli Stati Uniti. Washington ha aderito alle manovre, incurante dell'esplicito avvertimento cinese, di qualche tempo prima, di restare al di fuori della questione, atteggiamento che alla conclusione del congresso del Partito Comunista Cinese, dovrà rendere conto a Pechino. Il dispiegamento delle forze appare imponente per affermare la sovranità su di un territorio di appena sette chilometri quadrati, infatti sono stati impegnati 37.000 effettivi dell'esercito nipponico su di cinque navi militari, coadiuvati da 10.000 soldati ed una portaerei americana, segnale eloquente per il paese cinese, al momento concentrato sul passaggio di potere dei vertici del partito. Tuttavia la scelta di effettuare le esercitazioni senza ammettere la presenza dei media, tradisce un certo nervosismo da parte dei nipponici, che intendono dare pubblicità alla cosa soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali. Non si comprende se ciò è dovuto a ragioni di riserbo di natura diplomatica o militare, ma è sintomatico che tale dispiegamento di forza, segua le esercitazioni cinesi effettuate a metà ottobre nel Mar Cinese Orientale, che hanno visto la partecipazione di undici navi da guerra e quattro aerei delle forze armate di Pechino. Questa altalena di manifestazioni di esibizione di forza militare, stanno portando la regione sempre più sull'orlo di una pericolosa instabilità, che si deve inquadrare nello sviluppo delle situazioni politiche interne dei paesi coinvolti. Se, come pare probabile, il Giappone, ma anche la Cina, che pure rinnoverà il suo gruppo dirigente, non cambieranno atteggiamento sulla contesa, diventerà fondamentale l'atteggiamento che vorrà tenere il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Qualora alla volontà di mediazione di Obama, dovesse subentrare il meno attendista, secondo quanto da lui stesso dichiarato, Romney, la situazione potrebbe avere uno sviluppo deleterio. Se appare difficile un confronto armato tale da proporre scenari da guerra navale, un irrigidimento della questione potrebbe dare il via ad embarghi e blocchi sulle rotte dei mari orientali, tali da mettere in crisi più di un settore economico; inoltre gli USA non potrebbero che seguire il Giappone ed il confronto tra le due più grandi potenze mondiali potrebbe acuirsi su quei temi le cui rispettive posizioni sono di forte contrasto: come l'economia ed il commercio con l'estero. La soluzione miglore sarebbe ricorrere ad un arbitrato, o almeno una mediazione, delle Nazioni Unite che arrivasse alla decisione di porre in una sorta di neutralità, mediante una amministrazione diretta del Palazzo di vetro, le isole contese, con lo scopo di congelare una situazione che sta aumentando sempre di più il suo potenziale esplosivo. Tuttavia nella contesa il soggetto maggiormente rigido è rappresentato dal Giappone, che, interessi materiali a parte, con il suo governo pare deviare, mediante la focalizzazione su questioni internazionali come questa, la propria pochezza. Attraverso la naturale predisposizione nazionalistica della maggior parte del popolo nipponico, Tokyo ha avuto finora buon gioco a raccogliere i favori della sua azione nell'opinione pubblica; resta da vedere se la situazione dovesse aggravarsi quale sarà la risposta ed il gradimento della popolazione.

Un intervento militare in Mali è questione di tempo

Il timore della comunità internazionale, per un avanzamento dell'estremismo islamico nel nord del Mali, spingono la diplomazia ad accelerare la strategia di pressione sul gruppo tuareg Ansar Dine affinchè rompa la sua alleanza con Al Qaeda. La situazione nella parte settentrionale del Mali è caratterizzata da gruppi armati che applicano in modo integrale la Sharia e quello che viene temuto è un'espansione dell'influenza di questi gruppi nei paesi confinanti: Algeria e Burkina Faso. Proprio nei giorni scorsi in Burkina faso ci sarebbe stato un vertice con i leader di Ansar Dine, con il chiaro scopo di allontanarli, tramite la rottura con le organizzazioni jihadiste, AQIM (Al Qaeda nel Maghreb islamico) ed il Movimento per l'unità e la jihad in Africa occidentale, dall'influenza di Al Qaeda e raffreddare, così la tensione della regione. Inoltre colloqui si sarebbero svolti anche ad Algeri, con i rappresentanti di Ansar Dine, che avrebbero sottolineato la loro indipendenza dalle volontà dei movimenti legati ad Al Qaeda. Se queste premesse possono fare sperare in un isolamento di Al Qaeda, dalla contesa, eliminando una potenziale alleanza pericolosa, non scongiurano la possibilità di un intervento militare, a lungo studiato e preparato dai paesi dell'Africa occidentale con il sostegno logistico di USA e Francia, finalizzato a restaurare l'autorità della capitale del Mali, Bamako, sul proprio territorio e sopratutto infliggere un colpo definitivo all'estremismo islamico presente nel paese attraverso le formazioni legate ad Al Qaeda. Per l'occidente questo fronte sta diventando importante, perchè eliminare la presenza qaedista da questi territori, che non sono facilmente controllabili, significa eliminare basi logistiche e di addestramento per i terroristi islamici e, sopratutto, impedire uno sviluppo dell'influenza, anche politica e non solo militare, di Al Qaeda, che potrebbe, in un futuro prossimo, diventare punto di riferimento di un progetto più ampio della diffusione dell'estremismo islamico. Per Al Qaeda al contrario, dopo le ripetute sconfitte ricevute, l'affermazione, sotto forma di sovranità, in un territorio fisico determinato può significare un punto da cui ripartire per la propria riorganizzazione. Ma la strategia dei sostenitori dell'azione militare non può basarsi su interventi isolati, ma deve essere costruita attraverso la creazione di una rete di alleati locali ben radicati sul territorio, in modo da garantire che gli effetti dell'intervento siano durevoli nel tempo, ripristinando le condizioni di sicurezza che impediscano la rinascita di Al Qaeda nella regione. In quest'ottica è così da inquadrare la trattativa con il movimento Ansar Dine ed il suo leader Iyad ag Ghaly. Tuttavia un attore fondamentale nel teatro in cui si svolge la questione, l'Algeria, non è mai stato favorevole ad un intervento militare immediato, ciò riduce i margini di manovra dei piani occidentali, giacchè senza Algeri, od anche senza il suo appoggio più convinto, la riuscita di una azione bellica sarebbe fortemente compromessa, perchè verrebbe a mancare l'esperienza dell'esercito algerino e la conoscenza della sua diplomazia, che ha gestito in precedenza i complicati rapporti con il Gruppo Islamico Armato, formazione da cui è derivata Al Qaeda nel Maghreb. Algeri, infatti, propende, in una prima fase, per un maggiore coinvolgimento dei Tuareg più nell'azione politica che in quella militare, in maniera di isolare i gruppi terroristici, da colpire in una seconda fase. Risulta chiaro che l'elemento fondamentale è però il tempo, gli occidentali stimano che la situazione richieda una risoluzione più rapida, perchè temono che il contagio dell'estremismo si propaghi ad una velocità superiore a quella necessaria per risolvere la questione con gli intendimenti algerini. Su di questa divergenza si giocherà il futuro, immediato e no, della zona del Mali ora sottomessa alla sharia.

venerdì 2 novembre 2012

Londra sempre più lontana dalla UE: per Bruxelles è tempo di prendere una decisione

La crisi in cui si trova il governo britannico del conservatore Cameron, relativa al voto contrario del parlamento di Londra sul bilancio dell'Unione Europea, potrebbe portare la sesta economia mondiale fuori da Bruxelles. Attualmente l'effetto immediato generato dal voto contrario è di avere acuito l'isolamento in cui il Regno Unito sta patendo dentro la UE, una condizione di emarginazione voluta dagli stessi britannici poco disposti a cedere quote di sovranità, in nome dell'unificazione finanziaria e politica del vecchio continente. E' una posizione, di fatto, voluta dal premier in carica, Cameron, che con il suo atteggiamento chiaramente euroscettico, ha tenuto una condotta tale da prendere i vantaggi dell'appartenenza all'Unione, rifiutandone le scelte scomode che hanno cominciato ad essere sempre più frequenti per combattere la crisi. Infatti se questo comportamento era ancora sostenibile dagli altri membri e dal complesso dell'Unione Europea in assenza delle problematiche legate al sopraggiungere della crisi, con il peggioramento dell'economia mondiale ed in particolare dell'area dell'euro, la condotta britannica, troppo staccata dalle politiche comuni sempre più pressanti, non pare essere più sostenibile da Bruxelles. Del resto anche il comportamento dello stesso Cameron ha più volte evidenziato la ricerca di spazi liberi per attrarre capitali a discapito degli alleati, riempiendo gli spazi che si erano venuti a creare in maniera scorretta, che hanno sottoscritto regole e politiche economiche più severe. L'eccessiva protezione della finanza londinese, teatro di grandi speculazioni che hanno contribuito alla crisi della moneta unica europea, il rifiuto dell'applicazione, conseguente, della Tobin tax e l'isolazionismo monetario hanno decretato per il Regno Unito la patente di inaffidabilità alla causa europea, già prima di questa ultima votazione negativa. Tuttavia sembra di essere vicini ad un punto di non ritorno, lo stesso premier, appare preoccupato per le conseguenze del rifiuto del bilancio europeo e negli stessi euroscettici, la prospettiva di essere fatti uscire dall'Unione Europea, è vista con timore. I motivi espressi per giustificare l'ennesimo rifiuto all'Europa, paiono scuse di facciata, che non possono fornire adeguate spiegazioni ad una eventuale richiesta da parte di Bruxelles. Affermare che la ragione principale del voto contrario è la difesa del contribuente britannico sembra, oltre che una banale scusa, una visione troppo a corto raggio della situazione e sopratutto della sua evoluzione, tanto che, insieme a chi è realmente convinto di questa motivazione, vi è anche chi stato preso in contropiede da un risultato denso di troppe incognite. Se per Londra il bilancio europeo è fonte di spese esagerate, ed inoltre ciò rappresenta soltanto l'ultima politica economica europea con cui si è in pressochè totale disaccordo, deve essere coerente con la sua idea, prendere atto che la maggioranza degli stati membri della UE ha deciso in una direzione opposta ed uscire dall'Unione Europea. Bruxelles non ha ancora espresso una posizione ufficiale, ma Londra risulta ancora più lontana con il verificarsi di questo episodio, che però non desta sorpresa e si colloca in un solco già abbondantemente segnato proprio dal Regno Unito. Piuttosto sarebbe da prendere in considerazione la possibilità di una esclusione dalla UE del paese britannico su impulso del Parlamento Europeo, quale atto politico fondante di una unione basata sulla piena condivisione ed accettazione di regole comuni capaci di fornire quella unità politica ormai irrinunciabile. Per lo scetticismo di Londra, nella casa comune europea, non deve esserci posto, la velocità della crisi impone scelte, che possono sembrare dolorose, ma che appaiono necessarie e funzionali per il raggiungimento dell'obiettivo dell'unificazione. Una tale scelta avrebbe implicazioni negative da ambo i lati, potrebbe cadere la libera circolazione di persone e merci ed i flussi di denaro che sono andati anche verso l'isola a nord della Francia cesserebbero di prendere quella direzione. Probabilmente Londra non ha valutato bene, specialmente sul lungo periodo, gli effetti di una esclusione dalla UE, anche se il timore che si respira negli ambienti politici ed economici londinesi pare prendere sempre più coscienza di un evoluzione portatrice più di aspetti negativi. Con la rottura vicina, però il governo lascia aperto uno spiraglio per cercare di convincere il partito di maggioranza, lo stesso del governo, a cambiare atteggiamento: ma sarebbe il momento giusto per Bruxelles per fare un atto clamoroso, capace di presentare la UE come protagonista al mondo intero e decidere l'esclusione del Regno Unito, provvedimento che servirebbe come monito ad altri campioni dello scetticismo europeo.

mercoledì 31 ottobre 2012

Il Sudan accusa Israele di avere bombardato una sua fabbrica di armi

Un nuovo scenario, parallelo a quello principale, si apre nella contesa tra Iran ed Israele. Il bombardamento di una fabbrica di armi nello stato del Sudan, che Khartoum attribuisce all'aviazione militare dello stato israeliano, ha determinato la presenza di due navi da guerra iraniane nella città di Port Sudan, località del Mar Rosso, in segno di sostegno ed amicizia, come dichiarato da fonti del governo sudanese, al paese africano. La fabbrica di armi sarebbe stata colpita perchè costruiva armamenti per Teheran, circostanza peraltro smentita dal governo di Omar al Bashir; la stessa fonte uffciale ha, però, collegato questa ipotesi nel motivo che ha causato l'azione militare, nella quale hanno perso la vita due persone. Se Israele ufficialmente tace, forse per non incorrere nella censura internazionale per avere condotto una azione bellica su territorio straniero senza le necessarie procedure di dichiarazione di guerra previste dal diritto internazionale, l'Iran non perso l'occasione per intensificare la sua presenza in una regione che sembra sempre più attirare gli interessi della repubblica islamica. L'Iran ha, infatti, aperto quattro nuove missioni diplomatiche in Africa: in Somalia, a Gibuti, nel Sud Sudan e nel Camerun, con il chiaro scopo di rompere l'isolamento delle sanzioni occidentali ed affermarsi come paese protagonista nella regione attraverso consistenti aiuti alle popolazioni in difficoltà; notevole, in questo senso, è stato lo sforzo economico di Teheran che ha donato 43 milioni di dollari per combattere la carestia nel Corno d'Africa. Ma il sostegno non è disinteressato, un rapporto dell'ONU, già risalente a cinque anni fa, accusava Teheran di sostenere finanziariamente e militarmente le Corti Islamiche somale, da cui è nata Al Shabab, organizzazione estremista islamica, di matrice scita, colpevole di avere frenato gli aiuti delle organizzazioni umanitarie per la carestia alimentare che ha colpito la regione e protagonista di azioni anche entro i confini del Kenya. I due paesi, Iran ed Israele, insomma continuano a praticare una guerra non dichiarata che si sta allargando a regioni già martoriate, nel silenzio più assoluto delle Nazioni Unite. Se il bombardamento in Sudan fosse stato realmente effettuato da Israele, saremmo di fronte ad una azione che si può definire soltanto come terrorismo di stato, essendo un attacco praticato da forze regolari ad un paese straniero al di fuori della prassi del diritto internazionale ed andrebbe a costituire un segnale di pericolo allarmante per la pace mondiale, del resto anche l'azione iraniana non pare esente da colpe, per la politica spregiudicata portata avanti fino ad ora, entrambi i paesi meritano una censura, almeno a livello formale: che l'ONU salvi almeno la faccia.

martedì 30 ottobre 2012

La Clinton nei Balcani, con l'incognita serba.

La visita diplomatica di Hillary Clinton, che si sta svolgendo nei paesi dell'ex Jugoslavia, sta affrontando alcune questioni interne che hanno una ripercussione sui rapporti internazionali, in special modo sulle questioni inerenti all'ingresso in organizzazioni internazionali come la UE e la NATO. La dissoluzione jugoslava ha dato corso ad una guerra sanguinosa nel cuore dell'Europa, che ha lasciato pesanti strascichi, tuttora il conflitto etnico risulta essere un ostacolo sia allo sviluppo, che alle relazioni tra i vari popoli della regione, che spesso ricorrono ancora alla violenza per regolare i conflitti. L'interesse della NATO e della UE, seppure per ragioni ed angolature differenti, è che la regione balcanica trovi un assetto stabile ed un equilibrio tale che ne consenta il pieno ingresso nelle loro organizzazioni. Tuttavia la reciproca diffidenza ed i sempre vivi sentimenti nazionalisti non sono un buon viatico per favorire i processi di integrazione, che a parole, gli governi dei paesi della ex Jugoslavia richiedono. I maggiori problemi risiedono in Bosnia, a Belgrado e nel Kossovo. La questione bosniaca continua ad essere segnata da conflitti serrati tra le comunità serbe, croate e musulmane; gli accordi di Dayton, seguiti alla guerra che ha martoriato il paese dal 1992 al 1995, prevedevano un assetto composto da un'entità serba ed una croata musulmana, che, mediante un complicato meccanismo fatto di regole tese a garantire entrambe le comunità, dovevano poi condividere un governo centrale. Ma la parte serba rifiuta ripetutamente questa soluzione ed ha minacciato più volte la proclamazione dell'indipendenza. Questo stato di agitazione permanente è contrario alle intenzioni della diplomazia internazionale che non vuole deragliare dagli accordi di Dayton, faticosamente raggiunti, che rappresentano un punto fermo oltre il quale, si teme, una recrudescenza degli eventi violenti e destabilizzanti. L'unica condizione che può richiamare all'ordine i leader bosniaci, sopratutto quelli serbi, è che proprio il mancato rispetto degli accordi di Dayton impedirebbe l'ingresso nella NATO e nella UE, occasioni viste dai bosniaci per risollevare un'economia stagnante. Nella questione del Kosovo, a Belgrado verrà richiesto, nella visita di giovedì prossimo dei diplomatici USA, di riprendere i contatti con Pristina; la Serbia rifiuta di riconoscere l'indipendenza proclamata in maniera unilaterale dal paese kosovaro a maggioranza albanese, e la vittoria elettorale dello scorso maggio dei nazionalisti serbi ha aggravato le reciproche posizioni. Ufficialmente l'atteggiamento del governo di Belgrado è quella di trovare un'intesa basata su concessioni reciproche da concordare tra Serbia e Kosovo. Ma ciò contrasta con i sentimenti di una opinione pubblica sempre più condizionata da un nazionalismo esasperato ed appare, quindi, meno reale ma strumentale per convincere la UE e la NATO ad accoglierle entro i loro aderenti. Nonostante tutti i tentativi fatti la Serbia appare ancora inaffidabile per l'ingresso in organizzazioni sovranazionali che richiedono standard elevati ai loro associati, l'estremismo nazionalista, spesso accompagnato da razzismo risulta ancora troppo diffuso per concedere la libera circolazione dei cittadini serbi in Europa e così i sentimenti di anti americanismo, dovuti alla posizione della NATO durante le guerre seguite al crollo della Jugoslavia, ostacolano ancora il processo di inclusione nell'Alleanza Atlantica. Senz'altro più agevole sarà il proseguimento del tour diplomatico della Clinton in Croazia ed Albania, paese in cui si chiuderà la trasferta del Segretario di stato americano.

lunedì 29 ottobre 2012

Il modello cinese in crisi, tra fuga di capitali e delocalizzazioni

Tra i problemi che attanagliano l'economia cinese vi è quello della fuga di capitali, che sta innescando ulteriori problematiche per Pechino. Soltanto nel corso dello scorso anno ben 472.000 miliardi di dollari, somma che corrisponde all'otto virgola tre per cento del PIL cinese, ha lasciato in maniera illegale il paese. Anche per i numeri enormi della Cina, si tratta di cifre capaci di creare danni al sistema economico e di aggravare la già precaria stabilità sociale, andando ad acuire l'enorme differenza tra poveri e ricchi. Il fenomeno non è comunque nuovo, ma l'incremento registrato fin dal 2000 sta assumendo proporzioni capaci di incidere sulla politica dello stato. Questi flussi finanziari illeciti vengono deviati su conti presenti in paradisi fiscali, ma una parte considerevole viene fatta rientrare in patria sotto forma di investimento straniero, godendo così delle agevolazioni fiscali e degli aiuti di stato previsti per i finanziatori esteri. Questa prassi assomma così un doppio reato che si traduce in una doppia perdita per lo stato cinese. Si capisce chiaramente come tale sistema alimenti il malaffare, la corruzione e crei gravi scompensi sociali, che contribuiscono ad alimentare il clima difficile presente sia nei conglomerati urbani, che nelle periferie del paese. Inoltre la concentrazione di tale ricchezza in una parte piccola della società, crea uno squilibrio di potere pericoloso per lo stesso apparato. Non è un caso che le lotte intestine in seno al comitato centrale si sono svolte proprio tra membri del partito comunista cinese, che più potevano disporre di ingenti patrimoni, la cui provenienza non è mai stata del tutto chiara. Malgrado il controllo ferreo del partito, applicato, per la verità, in maniera molto rigida agli strati più bassi della popolazione, il problema della corruzione è stato implicitamente riconosciuto anche da fonti ufficiali, che hanno avvertito da tempo l'influenza negativa di forme eccessive di arricchimento, capaci di regalare quote consistente di potere, specialmente nelle zone più remote dello stato. Dietro ai numerosi casi di scioperi e rivolte provocate dal malgoverno degli apparati locali, vi è sempre una volontà di maggiore arricchimento del potente di turno, che reinveste capitali di provenienza sovente poco chiara, in imprese che vanno a ledere la dignità dei popoli locali spesso vittime di espropri di forzati, sia di terra che di tradizioni. Ma ciò è conseguenza della politica cinese intrapresa negli ultimi anni che ha creato un'etica comunista del lavoro, capace di valorizzarsi con l'arricchimento personale, inteso come misura del successo dell'impresa. Una tale visione sociale, nata e cresciuta in un contesto di assenza di regole e diritti ha finito per favorire quelle forme di accumulo di capitale capaci di sfuggire al controllo dello stato, che hanno contribuito, allo stesso tempo, sia alla fortuna, che alla deviazione del sistema. Il fatto è collegato alla crisi del lavoro cinese, che si sta concretizzando drammaticamente in una fuga dei maggiori marchi in altre nazioni dove le condizioni della vita dei lavoratori ed il minor costo del lavoro, che comprende anche i costi sostenuti dalle imprese per fare fronte alla corruzione, hanno un impatto, anche emotivo, di maggior favore per i consumatori. Del resto il fenomeno riguarda anche marchi cinesi ormai affermati, che iniziano a praticare la delocalizzazione al pari dei produttori occidentali. In questo modo interi distretti industriali si stanno svuotando, creando disoccupazione e tensioni sociali sempre più pesanti. Tutti questi fattori contribuiscono a fornire l'idea che il modello cinese, stia entrando in crisi perchè avvitato su se stesso e non in grado di aggiornare la sua struttura apparentemente granitica, ma in realtà sorpassata dai tempi e sopratutto dai fatti.