Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 14 novembre 2012
Israele minaccia gli accordi di Oslo
L'avvicinamento alla data delle elezioni israeliane rappresenta una occasione, per la parte attualmente al potere, di aumentare le tensioni con i palestinesi, scegliendo la via ritenuta più redditizia, in termini di raccolta di voti presso un corpo elettorale in preda al panico da accerchiamento. Pur non sembrando opportuna, relativamente all'attuale scenario internazionale, la tempistica della scelta di scagliarsi, alzando i toni, contro l'Autorità Nazionale Palestinese, rappresenta la via scelta dal governo in carica a Tel Aviv, già completamente calato nella competizione elettorale. Ad Abu Mazen viene contestata l'intenzione di ottenere il riconoscimento della Palestina, come paese osservatore, presso l'ONU. Ciò non rappresenta una novità, Israele non ha mai digerito l'appoggio a grande maggioranza che l'assemblea delle Nazioni Unite assicurerebbe alla richiesta dell'ANP, che rappresenta uno smacco a livello internazionale per la politica israeliana circa la questione palestinese. La messa in una luce pessima del governo di Israele sul piano mondiale, potrebbe ritorcersi conto al momento del voto, per evitare tale contraccolpo negativo, Tel Aviv arriva a mettere in discussione gli accordi di Oslo del 1993. La motivazione con cui gli accordi vengono minacciati è oltremodo pretestuosa e pone chiaramente Israele in una posizione tale da potere essere considerato protagonista di una azione deliberata per arrivare ad un punto di rottura, forse non sanabile, con i palestinesi. Il ministro degli esteri Liebermann parla apertamente di una violazione degli accordi con la presentazione all'ONU della richiesta di riconoscimento ed arriva a dire che Abu Mazen non è un interlocutore affidabile per il semplice fatto di non rappresentare sia la Cisgiordania che Gaza, cioè l'interezza dei palestinesi, dato che i due territori sarebbero, di fatto, due entità scollegate. Le ragioni addotte dal ministro degli esteri israeliano sono però chiaramente pretestuose, intanto perchè non godono del principio della reciprocità, in quanto non contemplano le continue violazioni di Israele, che con la politica degli insediamenti abusivi in Cisgiordania ha più volte violato i patti esistenti, poi perchè Abu Mazen è stato riconosciuto anche da Hamas, fino a nuove elezioni, come presidente palestinese. Anche Netanyahu e da sempre su queste posizioni, perchè incolpa ai palestinesi la mancata ripresa delle trattative, preferite alla tattica del riconoscimento all'ONU. Anche su questa posizione vi è un chiaro vizio sostanziale, dato che il rifiuto delle trattative da parte di Abu Mazen è dovuto alla politica sempre più spinta della pratica degli insediamenti nelle zone palestinesi. Il comportamento dei coloni israeliani, incoraggiato dal governo in carica, ha messo a dura prova la pace nel territorio cisgiordano e l'azione pacifica di Mazen, concretizzatasi con la richiesta dello status di osservatore all'ONU, appare di gran lunga più responsabile delle soluzioni praticate da Tel Aviv. Tuttavia, pur muovendosi in un solco già tracciato, l'accelerazione impressa da Netanyahu alla questione è un chiaro segnale dato al proprio elettorato: la delegittimazione dell'ANP potrebbe consentire una nuova espansione in Cisgiordania; è un atteggiamento, che sul piano internazionale non potrà non creare forti imbarazzi, specialmente al rieletto presidente USA, da sempre fautore della soluzione dei due stati, ma che permetterà al primo ministro israeliano di avere sicuramente dalla propria parte anche i settori più integralisti della destra. Ciò è ritenuto fondamentale per avere quella maggioranza, che tra i suoi fini potrà avere anche la facoltà di colpire l'Iran per non consentire al paese sciita il possesso dell'arma nucleare.
martedì 13 novembre 2012
Politica estera e politica militare della Cina
La crescita economica cinese non ha sostenuto soltanto lo sviluppo, seppure contrassegnato da profonde differenze e diseguaglianze, della popolazione, ma è stato ed è tuttora funzionale ad un disegno più complesso che riguarda l'ambizione di grande potenza, con tutto ciò che ne consegue in termini di influenza sul piano internazionale, che deve essere sostenuta da un adeguato investimento per potere disporre di una forza armata sempre più equipaggiata. Va detto che, per ora, le velleità di grande potenza, capace di influenzare i processi diplomatici mondiali, sono rimaste frustrate più che altro, dallo stesso atteggiamento cinese, che non ha derogato dal proprio principio di non ingerenza negli affari interni degli altri stati. Va detto,però, che questo principio è stato rispettato maggiormente per le grandi questioni, sopratutto quelle che hanno investito il Consiglio di sicurezza dell'ONU, dove Pechino, forte del proprio seggio permanente, ha sempre negato, insieme alla Russia, qualsiasi forma di intervento, anche per ragioni umanitarie, in quei paesi interessati da guerre civili. Soltanto nel caso libico, grazie alla propria astensione, la Cina ha permesso l'intervento armato che ha messo fine al regime di Gheddafi. Va però detto che Pechino si quasi da subito pentita di questa decisione, accusando l'occidente di averla ingannata con la scusa della guerra umanitaria, che in realtà è stata usata per rovesciare il rais di Tripoli. Ma se questo è l'atteggiamento ufficiale, una politica estera cinese continua ad esistere ed estendersi in maniera ramificata, proprio grazie alla proprie disponibilità economiche ed in funzione delle sue esigenze energetiche, la Cina ha intessuto una fitta rete di relazioni con paesi poveri, ma ricchi di risorse, specialmente nell'area africana. In questa diffusione della propria influenza non è mai stato necessaria una presenza militare, se non in forme quantitativamente piccole e sopratutto discrete, perchè si è sempre trattato di rapporti basati sull'economia, che prevedevano e prevedono tuttora, uno scambio concordato con i governi locali. Esistono però altri scenari che necessitano di una forza armata capace di affrontare sfide potenziali di ampio respiro. Nell'ultimo ventennio il budget militare della Repubblica Popolare Cinese ha registrato un incremento per anno a doppia cifra, raggiungendo, secondo i valori ufficiali, ben 84.000 milioni di euro, anche se gli analisti americani ritengono tale cifra sia soltanto la metà di quanto veramente investito. Va ricordato che l'esercito cinese, numericamente è il più grande del mondo con i suoi 2,2 milioni di effettivi. Inoltre la Cina si è dotata di una prima portaerei, cui dovrebbero seguirne altre, dispone di una flotta di sottomarini nucleari ed ha sviluppato aerei da combattimento invisibili a i radar. Negli armamenti aerospaziali Pechino sta colmando il gap con le altre potenze ed è ormai in grado di distruggere i satelliti in orbita. Nella guerra informatica la Cina è all'avanguardia, come dimostrato in diverse incursioni praticate da suoi hacker.
Tale dimensione e sviluppo enorme delle forze armate cinesi ha creato e sta creando in maniera sempre maggiore forti tensioni nell'area del Pacifico. La presenza cinese sta diventando sempre più ingombrante ed è fonte si preoccupazione per il suo possibile espansionismo, anche sollecitato dal continuo bisogno di approvigionamento a fonti di energia per sostenere la propria crescita industriale ed economica. La versione ufficiale, che Pechino continua a proporre, basata sulla crescita pacifica, non convince più nessuno e mette in allarme i paesi vicini, che sentono in pericolo la percorribilità delle grandi vie di comunicazione marina, percorsi fondamentali per il trasporto delle merci prodotte nella regione. Lo stato di tensione che si è venuto a creare con il Giappone, per l'arcipelago conteso, rischia di provocare un effetto a catena nell'area del Pacifico, dove la Cina intende affermare la propria supremazia e dove sono già coinvolti altri paesi; a fronte di questa situazione, che sta subendo un cambiamento in divenire, sopratutto a causa del mutato atteggiamento del colosso cinese, non è azzardato prevedere che la regione potrebbe subire periodi di grande instabilità, condizionata da continue situazioni al limite del confronto. Anche i numerosi missili puntati verso Taiwan, potrebbero segnalare la volontà della riapertura del confronto con una parte di territorio a cui la Cina non ha mai rinunciato. Tuttavia, per ora, la parte fondamentale e preponderante della politica cinese è rappresentato ancora dall'elemento economico, non sembra improbabile che Pechino continui, pure in una linea leggermente cambiata, a privilegiare i rapporti di scambio, tra cui fortunatamente, il Giappone è uno dei maggiori partner commerciali. Finchè questi rapporti saranno presenti le cannoniere saranno solo una presenza all'orizzonte.
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lunedì 12 novembre 2012
La Cina teme i gesti estremi dei tibetani
La strategia estrema dei tibetani sta creando non pochi problemi e molta irritazione alla Cina. La particolare attenzione mediatica mondiale, concentrata sullo svolgimento del Partito Comunista Cinese, offre una occasione ed una platea enorme per chi lotta per l'indipendenza tibetana. La forma di protesta è sempre tragicamente la stessa: immolarsi dandosi alle fiamme. Dall'inizio del congresso sono già stati sette i tibetani che si sono sacrificati contro l'oppressione cinese e per il ritorno del Dalai Lama. L'ultima vittima risale allo scorso sabato ed ha avuto come protagonista un ragazzo di appena diciotto anni, Gongo Tsering, bruciato di fronte ad un monastero nella provincia di Gansu. Il giorno prima nella provincia di Qinghai, le manifestazioni per la libertà del Tibet hanno assunto proporzioni forse mai raggiunte fino ad ora. Il governo tibetano in esilio, ha affermato che le proteste sono intensificate per inviare un esplicito messaggio alla nuova dirigenza cinese, che uscirà dal congresso, affinchè la questione tibetana sia trattata sotto una diversa ottica, che non contempli più la rigidità attuale. Le autorità cinesi si trovano sempre più spiazzate di fronte alle proteste non violente, se non verso se stessi, dei monaci tibetani, per l'eco che riescono a suscitare, sopratutto nell'opinione pubblica mondiale, in un momento in cui la Cina ha sempre più bisogno di consensi a livello internazionale. Molto temute sono le eventuali azioni dimostrative che potrebbero compiersi nel luogo simbolo della protesta cinese: Piazza Tiananmen, dove sono stati schierati stabilmente poliziotti dotati di estintori. Ma di fronte alla strategia dei tibetani, quasi settanta persone si sono immolate dandosi fuoco dal 2011, anche la potente Cina appare praticamente impotente e più di accusare il Dalai Lama di essere il fomentatore del fenomeno e di equiparare questi atti di ribellione ad azioni terroristiche Pechino non può fare. Tuttavia, se lo stato di disagio imposto dalla dominazione cinese obbliga a tali gesti estremi, la tanto invocata, dai burocrati del partito, armonia sociale, appare soltanto una formula priva di ogni significato. Nella scorsa settimana la Cina ha ricevuto una pesante valutazione ufficiale sul suo operato in Tibet: l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha parlato espressamente di "continua violenza perpetrata contro i tibetani che cercano di esercitare i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e di religione", chiedendo la presenza di esperti dell'ONU nella zona. Ma già il mese scorso l'ambasciatore USA, durante un viaggio nella provincia del Sichuan, in pieno Tibet, ha invitato la dirigenza cinese a riconsiderare la propria politica nella regione, caratterizzata da troppe restrizioni.
Pechino ha sempre reagito con rabbia a dichiarazioni di questo tenore, che, però, purtroppo non si discostano affatto da una realtà costituita da dominazione e repressione. Secondo il Dalai Lama, la massima autorità dei tibetani costretto a vivere in esilio, quello messo in atto dai cinesi è un vero e proprio genocidio culturale, praticato anche favorendo una emigrazione di altri gruppi etnici, con lo scopo di sgretolare l'identità e la cultura tibetana. Resta il fatto che spesso durante le sue visite all'estero il Dalai Lama sovente non è stato ricevuto dalle autorità locali, per non urtare Pechino e la sua grande forza economica, tacitamente avallando il comportamento cinese. Pare difficile che la Cina riesca ad avere ragione di un popolo così fiero, malgrado tutta la potenza messa in campo, sembrerebbe più ragionevole arrivare, tramite un nuovo atteggiamento, ad una situazione che sappia tenere conto delle esigenze dei tibetani senza insistere in questo processo di annessione perseguito con la ricerca della cancellazione delle tradizioni ed identità del paese. Ma senza una revisione globale che comprenda una maggiore apertura verso i diritti, questo auspicio resterà tale.
Per Israele può aprirsi un fronte siriano?
L'esercito israeliano è pronto ad attivare tutti i propri dispositivi di difesa e di offesa contro la Siria, se le truppe di Assad tenteranno ancora di colpire gli avamposti di Tel Aviv presenti nel Golan. Questo è quanto sostanzialmente dichiarato da fonti ufficiali israeliane, dopo il colpo di mortaio sparato dal territorio siriano a cui sono seguiti colpi di avvertimento dai militari della stella di David. Dopo la Turchia, tra l'altro di nuovo colpita, la Siria prova ad allargare i confini del proprio conflitto coinvolgendo il vicino più pericoloso. La speranza di Assad di trascinare tutta la regione in un gigantesco tutti contro tutti, gioca la carta più pesante: il coinvolgimento israeliano. Ma da qui potrebbe aprirsi una porta di servizio per il confronto, ancora più pesante, tra Israele ed Iran. Non è un mistero che truppe iraniane, insieme ad Hezbollah, sono impegnate a fianco di quelle fedeli ad Assad contro le forze ribelli e che, quindi, sono pericolosamente vicine alle forze armate israeliane. Assad sta conducendo una tattica spregiudicata e pericolosa, ma anche da ultima spiaggia, per sperare di sopravvivere come capo della Siria. L'allargamento del conflitto, fin qui scongiurato, da un comportamento irreprensibile, nonostante le provocazioni di cui sono state fatte oggetto la Turchia e lo stesso Israele, potrebbe verificarsi proprio per la necessità di sopravvivere di Assad, sempre più compromesso sul piano internazionale. Occorre però analizzare se questa volontà proviene dallo stesso presidente siriano o, specialmente nel caso delle provocazioni verso Israele, non sia attuata da altri. In questo caso non sarebbe difficile individuare chi sta dietro questa strategia se non l'Iran, che avrebbe tutto l'interesse a deconcentrare Tel Aviv dalla questione nucleare e dal possibile attacco contro Teheran, sempre nei pensieri dell'amministrazione israeliana. Questo diversivo permetterebbe a Teheran di guadagnare ulteriore tempo, il bene più prezioso nella contesa, per avanzare nei progressi della ricerca atomica. Difficilmente, dal punto logistico, ma anche politico, Tel Aviv potrebbe reggere due conflitti contemporaneamente, per cui l'Iran potrebbe sacrificare, in questa fase, l'alleato siriano, oramai difficilmente controllabile e, sopratutto, sul lungo periodo poco probabilmente ancora in mano ad Assad. Ma anche senza scatenare un confronto aperto con la Siria, Israele dovrà concentrare maggiore attenzione su quel versante della propria frontiera, anche se da più parti si tende a minimizzare sull'accaduto, attribuendo ad un errore il colpo di mortaio diretto in territorio israeliano. Tuttavia, già in precedenza erano caduti colpi di arma da fuoco nella zona controllata da Tel Aviv, ma nel governo israeliano, questi fatti, non avevano scatenato le minacce di questi giorni. L'avvertimento di Israele, teso ad evitare fatti analoghi, denota quindi, un certo nervosismo, che giustifica il timore dell'apertura di un fronte non certo gradito, sopratutto in forza di una stabilità, su quel lato della frontiera, che dura ormai da quasi quaranta anni.
venerdì 9 novembre 2012
Le prossime sfide internazionali di Obama
I prossimi quattro anni che attendono Obama saranno densi di problematiche internazionali, nelle quali gli USA saranno chiamati al ruolo da protagonista, volenti o nolenti. Mentre l'euforia per la rielezione del presidente degli Stati Uniti non è ancora smaltita, gli impegni dell'agenda internazionale già premono in un contesto che si annuncia da subito ancora più complicato da quando l'inquilino della Casa Bianca ha lasciato i suoi impegni internazionali in secondo piano per dedicarsi alla campagna elettorale. Difficile che Obama devii dalla rotta già tracciata nei quattro anni precedenti, contraddistinta da un attivismo meno in prima linea, rispetto alle amministrazioni precedenti, ma comunque con una presenza costante all'interno dello scenario internazionale. Gli USA si sono confermati potenza globale e sopratutto hanno mantenuto la leadership mondiale, ma con uno stile nuovo, di profilo più basso, ma soltanto in apparenza. In effetti, messo da parte il protagonismo, quasi muscolare delle presidenze dei Bush padre e figlio, Obama ha optato per un approccio più morbido, che facesse tramontare la visione imperialistica dell'America. Questo non ha significato però prese di posizione decise ed anche una certa attività, praticata però lontano dai riflettori. Barack Obama ha messo come prima opzione il dialogo e l'uso di strumenti alternativi all'uso della forza dei militari ed anche quando questi mezzi di dissuasione sono stati scelti si è privilegiato l'utilizzo di mezzi di nuova tecnologia che riducessero al minimo l'impiego umano diretto. Non ci sono ragioni che possano indurre a credere ad una deviazione di rotta, anche se le nuove sfide che si annunciano sul tappeto, potrebbero, almeno in parte, obbligare a cambiare questa impostazione. Dal punto di vista strettamente militare le due questioni principali sono il confronto Iran-Israele e l'annunciata svolta della Cina, che intende affermare la sua potenza sul mare. Per il primo caso la linea di Obama è quella di scongiurare un confronto militare dagli esiti incerti e con ovvie ricadute sugli indici dell'economia mondiale, l'impostazione data al problema, che ha previsto l'uso massiccio delle sanzioni, ha fiaccato l'economia iraniana, ma non ha permesso del tutto l'isolamento di Teheran, che si è impegnato molto, sul piano diplomatico, a cercare nuove sponde di contatto, percorrendo sopratutto la via religiosa e quella dell'antiamericanismo. Il nervosismo di Israele, in parte tenuto a bada dalla competizione elettorale statunitense, ora potrebbe riaffiorare, sopratutto se la vittoria nella prossima competizione elettorale vedesse una affermazione netta di Netanyahu. I due stati, USA ed Israele, hanno preso direzioni politiche diverse ed i due leader sono personaggi dalle opposte caratteristiche, ma sono anche legati a filo doppio da una alleanza molto stretta: la domanda è come si comporterebbero gli USA di fronte ad un attacco unilaterale e non concordato di Israele all'Iran? Obama sa che può essere trascinato su questa strada anche contrariamente alla propria volontà e che in quel caso non potrebbe negare l'aiuto a Tel Aviv, ma sarebbe appunto, l'unico modo per coinvolgere direttamente Washington in una guerra fortemente non voluta. Israele, a quel punto, sarebbe di fronte all'opinione pubblica internazionale, il solo vero responsabile di una tattica scellerata. In ogni caso gli USA non sono impreparati ad una evenienza del genere, i continui segnali di spostamento di armamenti americani nel Golfo Persico ed in Giordania, indicano che nonostante le elezioni, l'apparato ha continuato a preparare il terreno per un possibile conflitto. La questione del protagonismo cinese non dovrebbe avere costituito una sorpresa per gli USA, anche Pechino è in una fase di passaggio di potere, ma le aspirazioni cinesi sui mari e gli arcipelaghi della regione sono noti, come è noto il continuo processo di rinnovamento del suo arsenale militare, anche in funzione della notevole accresciuta potenza economica. In questa vicenda, che contiene degli elementi potenzialmente pericolosi, la variabile impazzita è costituita dal Giappone, che può essere seguito da Vietnam e Filippine, che ha riaperto un confronto silente da anni, probabilmente più per motivi interni che altro. Gli USA non hanno interesse ad uno scontro con la Cina, malgrado la competizione economica ed anche, in futuro, di leadership mondiale, i rapporti tra i due stati sono profondamente legati a causa della grande quantità di liquidità cinese impiegata negli Stati Uniti, entrambe le nazioni non hanno alcun interesse ad incrinare i loro rapporti diplomatici. In questo frangente la paziente abilità dell'amministrazione Obama nel campo delle relazioni internazionali, può arrivare ad un equilibrio, magari non del tutto stabile, nella regione, che consenta una coabitazione tra i vari attori coinvolti, senza che si vada oltre l'esibizione dei muscoli. Anche i rapporti con la Corea del Nord potrebbero essere normalizzati grazie ad una azione congiunta con Pechino, mentre la Russia ha appena tirato un sospiro di sollievo per la mancata elezione di Romney e si trova, quindi ben disposta a continuare i rapporti, tutto sommato buoni, con Washington. Nella lotta al terrorismo, sopratutto quello fondamentalista islamico, è inevitabile la continuazione della strategia vincente intrapresa a tutto campo per stroncare definitivamente Al Qaeda ed i gruppi seguaci. Non si può non credere che Obama si adopererà per una soluzione definitiva della questione palestinese, cercando di arrivare, finalmente, alla costituzione dello stato della Palestina; anche se in vista dell'appuntamento elettorale vi è stata una frenata, dettata dalla prudenza di non scontentare l'elettorato ebraico, l'intendimento del presidente USa è sempre stato quello di riuscire a pacificare la regione con la formula dei due stati, il compito non è facile per l'attività di contrasto operata da Tel Aviv, ma un maggiore coinvolgimento anche delle Organizzazioni Internazionali, per prima l'ONU, potrebbe dare una svolta alla questione. Del resto ciò è anche funzionale al progetto di allacciare nuovi rapporti con gli stati arabi, specialmente quelli usciti dalle primavere arabe, ed una argomento come la riuscita della creazione dello stato palestinese costituirebbe un argomento di sicuro apprezzamento da parte dei governanti arabi. Ma Obama in politica estera non dovrà affrontare soltanto questioni legate agli assetti geopolitici, ma anche di natura più prettamente economica; in particolare sugli sviluppi della questione dell'euro, sarà fondamentale l'apporto che gli Stati Uniti vorranno concedere per la salvezza della moneta unica europea, un aiuto certo interessato, perchè l'area rappresenta il mercato di maggior pregio del mondo ed una sua debolezza avrebbe ripercussioni sull'economia mondiale. Per affrontare tutti questi problemi sarà determinante la nomina del nuovo Segretario di Stato e la collaborazione che si potrà instaurare con il Partito Repubblicano, che, sopratutto, per le questioni delicate non potrà commettere l'errore di praticare ostruzionismo. Il primo viaggio per Obama da presidente rieletto avrà come destinazione la Birmania per incontrare i leader di quel paese e con la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi, in un tour che comprenderà anche la Thailandia e la Cambogia, nei giorni dal 17 al 20 novembre.
giovedì 8 novembre 2012
La necessità delle riforme al centro del congresso del Partito Comunista Cinese
Le riforme sono l'argomento al centro dell'attenzione del congresso del Partito Comunista Cinese. I dirigenti riuniti a Pechino sono consci che senza un cambio effettivo nell'esercizio del potere, l'impalcatura su cui si regge la nazione potrebbe cadere, nonostante i successi in campo economico, che hanno portato il paese a diventare la seconda potenza economica mondiale. Una delle vie per riformare lo stato è incrementare la la lotta alla corruzione, che si è rivelato il fenomeno maggiormente dannoso per la Cina. Gli scandali che hanno attraversato il partito e che sono stati troppo spesso fonti di scioperi e proteste, hanno avuto anche un costo economico tangibile, impedendo una redistribuzione adeguata delle risorse, fattore su cui si era basata la politica interna elaborata nel congresso precedente. L'idea era quella di diffondere il benessere nel maggior modo possibile all'interno dello stato, per evitare proteste di tipo politico, come era stata Tienanmen, una sorta di baratto con il popolo cinese, per permettere una vita tranquilla alla forma del partito unico. L'esplosione della ricchezza, derivante da una politica economica spregiudicata, che non ha mai tenuto conto delle istanze, e dei relativi costi, sindacali, senza l'adeguato controllo di un apparato statale impreparato, ha generato forme di concentrazione della ricchezza, che si sono venute a creare in modo anomalo, grazie alla diffusa corruzione presente nei centri di potere. Questa anomalia, non prevista dall'elaborazione politica di dieci anni prima, non ha permesso al Partito di godere di quella libertà attesa senza subire contestazioni e manifestazioni. Questa analisi dei burocrati cinesi è vera solo in parte, la mancata distribuzione del reddito, su grande scala, creato dal grande balzo dell'economia avrebbe potuto limitare solo in parte le proteste, che non sono state solo di natura economica ma anche politica, proprio perchè la crescita del popolo cinese, ha reso indivisibili i due argomenti. La richiesta di una maggiore diffusione dei diritti politici e relativi al lavoro, è cresciuta di pari passo con la massiccia industrializzazione e l'aumento della ricchezza, ancorchè diseguale, non è bastato ai cinesi. Sono istanze che non sono sconosciute ai delegati del Partito, che hanno iniziato a proporre un incremento del mercato interno, che segnalerebbe una maggiore redistribuzione delle risorse e la ricerca di metodi per aumentare il reddito pro capite. Ma se queste misure riguardano l'economia, nel campo della politica si intravedono novità che costituiscono segnali tendenti a proporre un rinnovamento, seppure ancora timido. La necessità di separare il ruolo del Partito da quello dello stato, indica l'individuazione della necessità di coinvolgere maggiormente il popolo nella scelta dei capi, ma non significa ancora l'apertura ad un sistema multipartitico. Piuttosto la preferenza dei vertici dell'apparato preferirebbe una formula sulla falsariga di quella in vigore a Singapore, dove esistono piccole formazioni politiche ammesse alla vita pubblica, con essenzialmente il ruolo di controllori dell'attività dello stato e del partito maggiore. Si tratta di una forma autoritaria attenuata che ha il merito, agli occhi dei delegati comunisti cinesi, di potere rappresentare una forma di transizione molto controllata dall'attuale verso il futuro e che può consentire anche un controllo inverso sulla composizione e sulle intenzioni di queste formazioni minori. Tuttavia si tratterebbe sempre di una piccola apertura che potrebbe rappresentare un passo avanti ed un segnale di accoglimento delle istanze che provengono da chi richiede maggiore democrazia. Quale sarà la decisione che verrà scelta è comunque un dato di fatto, che il sistema politico cinese si è reso conto della necessità di un maggiore coinvolgimento della popolazione nella vita pubblica e ciò costituisce la presa d'atto di un fenomeno che per lento che sia sarà ineludibile: il paese andrà incontro, probabilmente con i dovuti tempi, a forme di democrazia che cambieranno l'impianto attuale del potere.
Per la Cina le questioni marine diventeranno fondamentali
Se quello affermato nel discorso di apertura del diciottesimo congresso del partito Comunista Cinese dal presidente uscente Hu Jintao, corrisponderà al programma futuro della Cina, il mondo andrà incontro a tensioni sempre più forti, specialmente nell'area dei mari orientali. L'intendimento è di fare diventare il paese cinese una potenza di mare, tramite il rafforzamento dell'arsenale militare, sopratutto della marina, per salvaguardare i diritti e gli interessi del paese sul fronte marino, affinchè sia consentito lo sfruttamento delle risorse presenti sotto gli oceani. La dichiarazione arriva in un momento delicato, contraddistinto da forti tensioni con i paesi vicini per le questioni della sovranità circa diversi gruppi di isole contesi. Se il principale confronto diplomatico riguarda le relazioni con il Giappone, si stanno aprendo fronti molto delicati anche con il Vietnam e le Filippine, per il controllo di arcipelaghi contesi, sotto le cui acque sarebbero presenti ingenti giacimenti di petrolio e gas naturale. Il gigantismo dell'industria cinese e la sua necessità di espansione sempre ulteriore, ha fatto diventare il paese uno dei più grossi importatori di materie prime appartenenti al settore energetico, ma l'occasione di sfruttare direttamente riserve vicine alle proprie coste rappresenta una occasione troppo ghiotta per non essere sfruttata. A questo scopo il presidente ha annunciato che, sul fronte militare, la Cina compirà investimenti importanti, tali da accelerare la modernizzazione delle proprie forze armate, funzionale alla difesa nazionale, dove per tale espressione si pare volere intendere anche a quelle porzioni di territorio contese con altri stati. Il ruolo delle forze armate diventerà quindi, quello di assicurare la soddisfazione delle esigenze dello sviluppo nazionale, intesa come missione storica per il paese. Sono dichiarazioni che non nascondono velleità di dominio e sopratutto di scontro con quei paesi che vorranno opporsi ai programmi cinesi. Tali affermazioni arrivano anche, con una tempistica perfetta, dopo che Giappone ed USA, hanno varato le manovre militari congiunte nel mare di Okinawa, che non poco hanno irritato il governo di Pechino e sono, pertanto destinate ad irrigidimento ulteriore dei rapporti tra questi stati. Ma la questione non riguarda soltanto la sovranità e quindi lo sfruttamento degli arcipelaghi contesi, altrettanto importante è la questione della percorribilità delle vie marittime, solcate quotidianamente da navi cargo che trasportano merci destinate a tutto il mondo; ed anche non secondaria è la questione della pesca, spesso altrettanto occasione di scontri accesi. Difficile non leggere nelle parole del presidente cinese un avvertimento diretto sia ai paesi della regione, che agli Stati Uniti, di un mutamento di rotta di Pechino di fronte alle contese in corso; se finora, tutto sommato, l'atteggiamento ufficiale del governo non è mai andato aldilà di proteste ufficiali, più o meno dure, ma sempre nell'alveo del confronto diplomatico, l'intenzione che sembra prevalere pare quella di effettuare un gradino successivo per affrontare le questioni in sospeso. Se così sarà potrebbe essere l'avvio di una guerra fredda in versione orientale, che avrà preoccupanti ripercussioni sull'andamento dell'economia mondiale.
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