Politica Internazionale

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mercoledì 22 febbraio 2012

Le implicazioni delle rinnovate relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita ed Iraq

Importante riavvicinamento diplomatico nel mondo arabo: Arabia Saudita ed Iraq riprendono, infatti, le relazioni diplomatiche interrotte da ventidue anni, quando Saddam Hussein invase il Kuwait e Riyadh accusò Baghdad di volere usare il paese del Golfo Persico, come testa di ponte per attaccare l'Arabia. La notizia rappresenta una volontà di distensione tra i due paesi composti da differenti maggioranze religiose, nella composizione delle rispettive popolazioni. Ma rappresenta anche un investimento dell'Arabia Saudita affinchè l'Iraq non cada nella zona di influenza iraniana, come più volte tentato dalla politica di Teheran; il governo della Repubblica Islamica ha messo al centro della propria politica estera una azione di avvicinamento verso quei paesi a maggioranza scita. In Iraq la pacificazione tra sciti, la maggioranza, e sunniti, la minoranza che con Saddam ricopriva però i ruoli chiave del paese, è ancora lontana dall'essere raggiunta. Su questi contrasti ha fatto leva l'azione iraniana, cercando appoggio negli sciti e portando così ulteriore scompiglio nella già difficile situazione del paese. Per gli USA la divisione dell'Iraq in due o più stati, considerando anche il problema curdo, non ha mai rappresentato una soluzione da condividere, anche se forse sarebbe stata la più logica ed avrebbe evitato i numerosi episodi di violenza accaduti e che purtroppo ancora accadranno. Ma una tale divisione avrebbe significato che la parte destinata agli sciti sarebbe ricaduta completamente sotto l'influenza di Teheran, regalando agli iraniani una zona strategica della regione. La mossa dell'Arabia Saudita va inquadrata, probabilmente anche in questa esigenza dell'alleato americano, che preferisce non agire più in prima persona nelle zone conflittuali islamiche, anche dal punto di vista diplomatico, per non turbare i delicati equilibri presenti. Tuttavia anche per l'Arabia Saudita esistono interessi da tutelare al di fuori di logiche diplomatiche più ampie, come la protezione della minoranza sunnita in Iraq. Quella di proteggere in generale la popolazione sunnita è diventata un fulcro della azione di Riyadh ed è speculare a ciò che Teheran opera per gli sciti; queste politiche uguali e contrarie contribuiscono ad innalzare la tensione tra i due paesi tradizionalmente avversari per la supremazia religiosa e quindi anche politica nell'Islam. Tuttavia la riapertura di una sede diplomatica a Baghdad ha anche il significato della ricerca di una distensione con l'Iraq da parte dell'Arabia Saudita, che non ha mai visto favorevolmente il governo di Al-Maliki, proprio perchè composto in maggioranza da sciti; l'azione, cioè, vuole superare le differenze religiose dando predominanza agli accordi tra gli stati. Tale punto non è secondario perchè arriva a ridosso del prossimo vertice della Lega Araba, che si terrà proprio a Baghdad alla fine di marzo e che si presenta cruciale dopo i rinvii causati dal conflitto siriano e dalla repressione degli sciti in Bahrain. L'intenzione dell'Arabia Saudita sarà probabilmente di assumere un ruolo di guida, all'interno della Lega, che possa portare a risoluzione sopratutto la questione siriana, impedendo sia una deriva in senso favorevole all'Iran, sia che vada in un senso capace di dare un assetto democratico al paese, con il pericolo che tale fatto crei un contagio capace di allargarsi verso i paesi del Golfo, fatto, che forse, per il momento non conviene neppure agli Stati Uniti, che necessitano nella regione di una forte stabilità che ne garantisca la posizione la presenza, sopratutto militare, in vista di un possibile confronto bellico tra Israele ed Iran.

martedì 21 febbraio 2012

L'Iran fa le manovre militari

Le forze armate messe in campo dall'Iran per le proprie esercitazioni militari hanno più di un significato. Intanto la prima ipotesi è che la Repubblica islamica, si prepari materialmente ad un attacco israeliano, non a caso la maggiore concentrazione di forze armate in esercitazione è nel sud del paese, dove vi sarebbero i siti nucleari, potenzialmente gli obiettivi più concreti per un attacco.Ma la coincidenza dell'arrivo degli ispettori delle Nazioni Unite, segnala, insieme, la volontà di esibire la propria forza agli inviati dell'ONU, ma anche vuole essere una concreta preparazione in vista di un possibile rapporto negativo e quindi un sostanziale via libera ai timori israeliani, che stanno dietro il possibile confronto bellico tra i due stati. Va specificato che il trattamento riservato agli ispettori inviati per monitorare le centrali nucleari iraniane, non è stato dei migliori: infatti il personale in visita si è dovuto districare tra divieti vari che non faranno che vanificare la missione. In questo caso il regime delle sanzioni sarà confermato, se non inasprito e per l'Iran ci saranno problemi sia economici, che, purtroppo, militari. Nonostante tutte queste premesse il governo di Teheran non pare arretrare di un millimetro e lo sfoggio delle manovre militari ne rappresenta una sostanziale conferma. Anche se si può ipotizzare che tale esibizione di forza sia legata anche ad aspetti interni, dove è necessario mostrare la fermezza del paese in campo internazionale per non indulgere sul piano interno, dove cova una ribellione della società sempre pronta ad esplodere. In quest'ottica si ritiene che un attacco israeliano rischierebbe di aumentare il consenso verso il regime, in una sorta di risveglio nazionalistico che andrebbe a rinforzare il governo iraniano. Questo rilievo non è secondario per quelle potenze che credono ancora possibile rovesciare Ahmadinejad e portare il paese ad una transizione democratica. Tuttavia, malgrado il lavoro sotterraneo, la presa del regime sulla società iraniana è ferrea, grazie ad un controllo costante e capillare, che in questo momento rende quasi impossibile questa ipotesi. Se questa analisi è giusta diminuiscono sempre di più le possibilità di contenere gli israeliani, che, peraltro, non vedono gran risultati dall'imposizione delle sanzioni, sui progressi nucleari degli Ayatollah. La globalizzazione economica ha avuto ricadute anche sui rapporti geopolitici e la chiusura di alcuni mercati può essere facilmente compensata con l'apertura di altri, anche a costo di qualche sacrificio economico. Proprio per queste ragioni la minaccia della chiusura dello stretto di Hormuz appare una sfida che ha soltanto lo scopo di innalzare la tensione, forse, anche in questo caso, più per il fronte interno e dei paesi o movimenti con i quali l'Iran intrattiene rapporti più stretti. La strategia iraniana nei confronti dell'occidente è quindi quella di procedere con minacce ed esibizione di forza per il solo scopo di guadagnare tempo nella corsa all'atomica; nel contempo continua la guerra, fatta di attentati e spionaggio tra Iran ed Israele, con gli USA a rinforzo. I recenti attentati a diplomatici israeliani, malgrado le smentite, sono serviti come rappresaglia alle morti sospette di scienziati nucleari iraniani, di cui Israele ha negato di essere implicato. Si tratta di segnali concreti di come la tensione stia raggiungendo il livello di guardia, solo una azione convinta della diplomazia mondiale può, forse, ancora mettere un freno alla degenerazione della situazione, sempre che non sia troppo tardi.

venerdì 17 febbraio 2012

Esplode in Vietnam il problema legato alla terra

In Vietnam il problema della espropriazione dei terreni agricoli è da anni fonte di forte tensione, ma in questi giorni il livello dello scontro si è notevolmente surriscaldato. Partendo da un episodio di singola ribellione, dove un contadino si è barricato nella propria casa in armi, il tragico fenomeno, figlio di una corruzione imperante, è tornato alla ribalta, tanto da sollecitare il primo ministro, il comunista Nguyen Tan Dung, ha promettere azioni concrete contro i funzionari dello stato che operano attraverso la corruzione. La situazione del Vietnam è emblematica di quei paesi ex comunisti o anche che ancora si dichiarano tali, che hanno intrapreso il passaggio ad una economia di mercato. Il dato comune risulta appunto essere una presenza asfissiante di un ceto di burocrati, triste retaggio dei regimi comunisti, che cerca di aumentare i propri guadagni, sfruttando la propria posizione privilegiata nella, di solito, abnorme, macchina burocratica. La transizione economica vietnamita inaugurata alla fine degli anni ottanta, ha visto nel 1993 l'istituzione del diritto di acquisizione dell'utilizzazione dei terreni, rimasti comunque proprietà dello stato. Con l'avvicinarsi della scadenza del termine dei vent'anni, che avverrà nel 2013, il governo centrale teme una serie di rivolte popolari in nome del diritto alla terra, capace di sconvolgere l'assetto sociale del paese. Anche perchè, proprio in vista della fatidica scadenza, sono aumentati in modo esponenziale i reclami contro le autorità periferiche del paese, già bersagliate su altri fronti; i reclami presentati per le questioni inerenti ai terreni sono stimate già nel settanta per cento del totale. Inoltre si registra anche l'aumento di casi di violenza contro i luoghi delle istituzioni, con palazzi governativi e posti di polizia dati alle fiamme. La questione, insomma è vitale per la stessa sopravvivenza del regime, tanto che è allo studio la legalizzazione della proprietà privata o almeno una revisione del diritto fondiario. Tuttavia ciò non pare potere accadere in tempi brevi a causa delle resistenze sia all'interno del partito comunista, che degli stessi organismi burocratici. Ma la crescente organizzazione di manifestazioni a sostegno della privatizzazione della terra, preoccupa non poco il governo centrale, che nella peggiore delle ipotesi può vedere attuata addirittura una spaccatura decisiva all'interno del paese, a causa dell'esasperazione dei contadini. Malgrado le prospettive di crescita a due zeri, legate ad una industrializzazione che si sta progressivamente affermando e che si ritiene possa replicare i successi di altri paesi asiatici, che hanno avuto condizioni analoghe di partenza, l'importanza dell'agricoltura resta centrale sia nel quadro economico nazionale, sia, sopratutto, in quello sociale. In questo momento storico il Vietnam non può permettersi una crisi interna, di alcun tipo, ma sopratutto proveniente dal mondo contadino, capace ancora di catalizzare attorno alle proprie istanze un pesante consenso.

mercoledì 15 febbraio 2012

Siria: presenza di combattenti stranieri ed aperture sospette di Assad

Nella difficile situazione siriana vi è un aspetto che contribuisce ad alimentare la destabilizzazione e la confusione nel conflitto. Sarebbe, infatti, stata registrata la presenza di combattenti stranieri sia da una parte che dall'altra. Già all'inizio degli scontri gli insorti segnalavano la presenza di uomini in uniforme nera, organizzati militarmente, che combattevano al fianco delle truppe regolari, questi irregolari sarebbero stati individuati come facenti parte dei guardiani della rivoluzione iraniani, fatto smentito dal governo di Teheran, che tuttavia, resta il più probabile dei mandanti per le sue dichiarazioni in appoggio alla repressione di Assad. Attualmente esisterebbero anche combattenti stranieri schierati contro il governo ed inviati da Al Qaeda per avviare il paese alla jihad ed indirizzarlo così verso una deriva di islamismo radicale. Questo fatto giustifica il governo a parlare, come in effetti accade, di complotto terroristico internazionale e trovare così una sorta di giustificazione per la repressione in atto. I movimenti democratici, che invece, lottano per un cambiamento verso un passaggio da una forma di governo autoritaria ad una democratica, nono gradiscono questa intromissione in quella che ormai è diventata una vera e propria guerra civile e temono, che con una possibile affermazione dei combattenti radicali, vada ad affermarsi un'altro regime autoritario, questa volta fondato su principi teocratici. Per la sua posizione geografica la Siria è appetita sia dai paesi confinanti che dai movimenti estremisti, entrambi con la volontà di impedire al paese un percorso verso la democrazia che venga a creare uno stato laico ed indipendente, in una posizone chiave della regione. Al confine con il Libano vi sono gli Hezbollah, che sono tradizionalmente alleati dell'Iran, intenzionato a che il paese siriano, resti proprio alleato, o ancora meglio, entri maggiormente nella sua area di influenza. Questo pericolo ha allertato l'Arabia Saudita, che teme Damasco in mano agli sciti, quindi Ryiad conduce la propria battaglia su due tavoli: uno alla luce del sole nella sede della Lega Araba, dove è fautrice di un intervento di pacificazione nazionale mediante l'invio di truppe ONU, ma nell'altro incoraggiando i suoi movimenti radicali ad andare a combattere sul suolo siriano. Nel conflitto hanno poi un ruolo fondamentale le truppe che hanno disertato dalle forze armate regolari e fedeli ad Assad; si parla di intere divisioni che sono dotate di armi e preparazione militare, ma che in caso di vittoria non è chiaro quale indirizzo vogliano dare al paese . Si sta insomma creando un clima da tutti contro tutti, dove le alleanze non sono ben chiare, perchè sono gli stessi contendenti che non sono pienamente definiti.
Frattanto Assad annuncia un referendum da tenersi il 26 febbraio su di una nuova costituzione che mette fine al monopolio del partito Bath ed apre al multipartitismo attraverso il voto, ma vieta la costituzione di partiti religiosi, bilanciando la norma con l'affermazione che la religione islamica è religione di stato e che dalla giurisprudenza islamica debbano derivare le leggi dello stato. La mossa appare da subito ambigua perchè vuole accontentare tutti non accontentando nessuno e sopratutto perchè, di fatto, darebbe la possibilità al presidente in carica, lo stesso Assad, di rimanervi ancora per sedici anni, mantenendo lo status quo. Più che per il fronte interno l'annuncio sembra per quello esterno e pare un chiaro tentativo di guadagnare tempo nei confronti di un'opinione pubblica internazionale e diplomatica che mette al centro la vicenda siriana di una discussione sempre più ampia, anche se non con opinioni uniformi. La sensazione è che, proprio grazie a queste divergenze sui modi di affrontare la crisi, il regime siriano guadagni tempo prezioso per vincere le ostilità e confezioni queste finte aperture democratiche, che costituiscono prove di buona volontà, ad uso e consumo di quei paesi come la Russia, che con il loro atteggiamento, hanno materialmente aiutato alla continuazione dei massacri.

Il nuovo attivismo della politica estera dell'India

Nella questione iraniana irrompe l'India. La logica che muove Nuova Delhi pare basarsi su criteri innanzitutto mercantili, ma non solo, mascherati da criteri di opportunità diplomatica. Il paese indiano, infatti, rivendica una propria autonomia dalle sanzioni imposte da USA e UE, ritenendoli soggetti non adeguati a promulgare misure coercitive contro l'Iran senza l'avvallo dell'ONU. E' uno schema che ricalca la posizione cinese, con l'aggravante ipocrita che l'India non ha il diritto di veto di Pechino e quindi si attiene in maniera pilatesca, ad una situazione che va tutta a proprio vantaggio a costo zero. La presenza economica indiana nel paese degli ayatollah, già consistente grazie a diverse collaborazioni con Teheran, mira all'aggiustamento della bilancia commerciale, che ora pende a favore dell'Iran. Grazie alle sanzioni applicate sul petrolio iraniano l'India ha potuto sostituirsi agli acquirenti europei, diventando il primo paese importatore di greggio, per la considerevole cifra di 9.000 milioni di euro a fronte di una esportazione verso Teheran di 2.000 milioni di euro. L'evento delle sanzioni rappresenta quindi una occasione da sfruttare andando a colmare i vuoti lasciati dalle imprese occidentali in settori molto redditizi quali ad esempio le infrastrutture. L'atteggiamento indiano di fronte alla minaccia nucleare iraniana costituisce una sorpresa, sopratutto per gli Stati Uniti, tradizionali alleati, ma significa anche, che nel mondo diplomatico la situazione non è più statica come un tempo ed i cambiamenti possono oramai avvenire in tempi più veloci. Occorre infatti considerare diverse variabili per comprendere la posizione di Nuova Delhi, aldilà delle pur importanti ragioni economiche. Per la propria considerevole crescita, l'India costituisce uno dei più temibili avversari per Pechino, ma rispetto alla Cina, per ora, non ha le velleità di grande potenza globale, che sembrano assillare il governo cinese, questo non vuole dire che non abbia mire sui mercati emergenti e tenda a sviluppare una propria politica estera completamente slegata dalla nuova polarizzazione occidente (USA e UE), oriente (Cina). Sopratutto sulla base regionale, dato il sempre problematico rapporto con il Pakistan, che ha stretto sempre più vincoli con la Cina, l'India è obbligata a cercare nuovi partner e l'Iran rappresenta, per la propria posizione geografica, la nazione ideale con il quale sviluppare legami. Vi è da considerare che a favore di questa strategia gioca anche il progressivo allontanamento di Pechino da Teheran, che pur nel quadro del mantenimento del veto alle sanzioni, ha già ridotto la propria collaborazione con Ahmadinejad, avvenuta sia per ragioni di propria opportunità (non è gradita la presenza di una nuova potenza nucleare ai propri confini), sia per adempiere al sempre crescente ruolo di potenza globale che si è auto imposta. Anche rispetto all'Afghanistan, sopratutto in chiave futura con lo scenario che si presenterà nel paese con il ritiro della gran parte delle truppe USA ora presenti, vi è un attivismo che mira a rafforzare gli accordi con Karzai, facendo leva sull'antagonismo di Kabul con Islamabad, maturato con la presenza delle basi talebane in Pakistan. Qui l'interesse è duplice, oltre a contrastare la politica estera pachistana in Afghanistan, all'India interessa circoscrivere il movimento talebano all'interno della sua attuale zona di operazioni ed impedire che il fenomeno si allarghi entro i propri confini. Come si vede ci si muove in una situazione diplomatica molto fluida che deve tenere conto di diverse variabili e prospettive, ma dove per l'Occidente pare obiettivamente difficile districarsi, per portare a proprio vantaggio le rivalità e le alleanze che si stanno sviluppando. Tuttavia, sopratutto per gli USA, rimane importante mantenere l'amicizia del paese indiano, che resta un punto geopolitico strategico, anche se le mutate condizioni imposte dalla globalizzazione obbligano i governi delle nazioni più potenti ad avere a che fare con paesi sempre più capaci ed intenzionati ad avere una maggiore autonomia nel campo della politica estera.

martedì 14 febbraio 2012

Xi Jinping in visita negli Stati Uniti

L'incontro di questi giorni tra le due super potenze mondiali USA e Cina, secondo gli annunci, verterà su temi cruciali per il futuro del mondo, quali l'equilibrio militare e le reciproche relazioni economiche. Per la Cina il protagonista sarà il vicepresidente Xi Jinping destinato ad assumere la guida di Pechino a Marzo e quindi a diventare una delle persone più potenti del panorama internazionale. Le relazioni tra i due paesi hanno attraversato momenti difficili, sia dal punto di vista delle questioni geopolitiche, su tutte il problema militare nel Pacifico, con Washington alleata di Giappone e Sud Corea, che hanno avuto diversi motivi di attrito con la Cina, sia dal punto di vista economico, con il cruciale aspetto della sopra valutazione della moneta cinese, lo yuan, ritenuta causa di concorrenza sleale dagli Stati Uniti nei confronti dei propri prodotti. Nonostante il rilievo di questi temi sarà tuttavia impossibile che gli incontri bilaterali non tocchino i pesanti problemi presenti sullo scacchiere internazionale, dalla questione iraniana a quella siriana, senza tralasciare la recessione economica che ha colpito l'Europa, mercato privilegiato di entrambi. La visita cinese, in questo dato momento, ha un particolare significato perchè si svolge in un periodo di grande turbolenza, che necessita di un'azione comune da parte degli stati più potenti, che hanno il comune interesse affinchè sia presente una situazione più stabile. A tal fine un risultato apprezzabile potrà essere, per entrambe le nazioni, se i rispettivi rappresentanti riusciranno a smussare le differenze, sopratutto nella visione della politica estera, per superare gli ostacoli che determinano la stasi di fronte, oltre che a singole situazioni, come attualmente è la Siria, alla possibile azione complessiva intesa come fronte comune davanti ad emergenze di grande respiro. In questa ottica è impossibile non pensare al ruolo delle Nazioni Unite, che gli USA vorrebbero più attive, che, invece, risultano sempre più frequentemente bloccate dai veti cinese e russo. Se Washington riuscirà a scardinare il blindato atteggiamento di Pechino, Mosca non potrà restare da sola ad utilizzare un potere di veto ormai anacronistico. Ma è altresì vero che gli stessi Stati Uniti, beneficiano di questo vantaggio in Consiglio di sicurezza, l'augurio è che si trovi una sintesi che possa sbloccare la situazione a favore degli interessi della pace. I due stati devono trovare la più ampia intesa possibile, che permetta di trarre vantaggio ad entrambi. L'attenzione degli USA sul tema dei diritti umani, che aveva caratterizzato la prima parte della presidenza Obama, sembra scemata a favore di un più pragmatico silenzio a causa della gran quantità di debito pubblico americano presente nel portafogli cinese, ma è impensabile che negli incontri non venga trattato il tema del Tibet sempre più al centro di proteste clamorose contro il governo centrale; ma è difficile che la Cina cambi il proprio atteggiamento, che potrebbe favorire l'allargamento della protesta in altre regioni del paese. Piuttosto, il colosso cinese, dovrà concedere qualcosa sul piano dell'economia, dove la divisa nazionale dovrà subire un ritocco verso l'alto del suo apprezzamento, come più volte chiesto dalla Casa Bianca, in cambio di un atteggiamento doganale diverso da parte di Washington. L'Europa pare l'argomento sul quale i due governi paiono trovare maggiore accordo, entrambi infatti hanno bisogno di una politica espansiva da parte del vecchio continente, in grado di alimentare le loro esportazioni, non sono quindi da escludere azioni congiunte di sostegno alle disastrate casse dei paesi della UE, con finanziamenti capaci di aumentarne le capacità di spesa. In conclusione non si dovrebbe assistere ad un incontro epocale capace di portare novità sostanziali nel rapporto tra i due paesi, che abbiano una ricaduta sul resto del mondo, dovrebbe trattarsi, piuttosto, di piccoli aggiustamenti che possano permettere una convivenza pacifica tra i due colossi, volti a smorzare le tensioni, per la verità più che altro alimentate dagli alleati o da situazioni al di fuori del controllo diretto dei due paesi. La Cina ha sempre più la necessità di accreditarsi sul piano internazionale come paese affidabile, per compiere il proprio percorso di grande potenza, finora debole al di fuori dei propri confini, se non nell'aspetto economico ed allacciare sempre più stringenti rapporti con gli Stati Uniti è il passo obbligatorio da espletare per completare questa strada.

lunedì 13 febbraio 2012

Siria: la miopia della Russia, l'iniziativa della Lega Araba e la questione libanese

Ormai l'isolamento di Cina e Russia sulla questione siriana, sta assumendo proporzioni sempre maggiori, che potranno alterare i rapporti diplomatici esistenti, sopratutto tra i due paesi e le nazioni aderenti alla Lega Araba; infatti la richiesta esplicita da parte di quest'ultima, avvenuta in maniera ufficiale, dell'invio di una truppa di pace sotto l'egida dell'ONU, con lo scopo di fermare i massacri imputati ad Assad, rischia, se continuerà a permanere il veto in Consiglio di sicurezza da parte di Mosca e Pechino, di alterare in modo significativo le relazioni con i paesi arabi, con ricadute ovvie sugli aspetti economici legati al rifornimento del petrolio. Al tema è particolarmente sensibile la Cina, che necessità di sempre maggiori forniture di greggio per sostenere il proprio sistema produttivo ed è infatti il paese meno rigido sulla possibilità di trovare un accordo. Più difficile da scalfire la posizione di Mosca, che è legata alla Siria attuale, da una serie di accordi ritenuti vitali per Mosca, che riguardano la cooperazione militare, diplomatica ed economica. Il governo russo ha cercato di fare passare, davanti al panorama internazionale, un proprio attivismo, slegato dall'azione comune di ONU, UE e Lega Araba, per convincere Assad a posizioni più morbide, che ne permettano una difesa di fronte all'opinione pubblica internazionale. Ma, per ora, il regime di Damasco è rimasto sordo alle suppliche russe ed anzi, ha intensificato la repressione con azioni ancora più violente e spettacolari, che hanno peggiorato l'immagine di fronte al mondo intero. Il fallimento russo dimostra che Assad è conscio di potere godere dell'alleanza con Mosca, nonostante tutto; ciò, di fatto, va a peggiorare la posizione della Russia che pur non avendo più scusanti per difendere la Siria, continua imperterrita ad esercitare il proprio diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. Ma l'azione della Lega Araba obbligherà Mosca ad una decisione, qualunque essa sia, che determinerà conseguenze decisive per il ruolo della politica estera futura della Russia. Infatti se continuerà a prevalere la posizione contraria ad un intervento volto a fermare le violenze in Siria, per Mosca si tratterà di un declassamento diplomatico, per manifesta incapacità di vedere la situazione a lungo termine, che andrà a precludere, con l'ovvia caduta di Assad, anche la propria posizione nel paese, motivo ultimo del veto in Consiglio. Su Mosca ricadrà la colpa della mancata azione, con il conseguente tragico bilancio dela contabilità dei morti e probabilmente un paese in uno stato instabile che potrà essere un pericolo per tutta la regione. Proprio per questo motivo la preoccupazione della Lega Araba ha inasprito le sanzioni e tagliato tutti i contatti diplomatici con il regime siriano. La Lega Araba non vuole una destabilizzazione che può allargarsi a macchia d'olio e che comincia a presentare i propri effetti in quella bomba ad orologeria che è da sempre il Libano. La presenza massiccia in questo paese delle formazioni Hezbollah, di matrice scita e da sempre sostenuti da Assad, costituisce infatti un pericolo potenziale elevato e fonte di innalzamento della tensione. Più volte Assad ha usato provocare conflitti nelle zone limitrofe per distogliere l'attenzione mediatica dai propri problemi interni, fin dall'inizio della crisi. Il pericolo di un nuovo conflitto libanese è ora concreto, se inquadrato in una strategia di Damasco volta a creare caos nella regione. Il paese dei cedri sta vivendo un periodo relativamente stabile di pace, assicurato dalla presenza del contingente UNIFIL, ma neanche le forze armate straniere presenti nel paese, potrebbero fermare una ripresa delle ostilità su grande scala istigata dall'esterno. Ad aggravare la situazione vi è la questione del possibile conflitto Israele-Iran, che potrebbe creare tensioni molto forti alla frontiera tra Libano ed Israele, per l'azione Hezbollah, tradizionali alleati di Teheran. Come si vede una situazione esplosiva, più di quanto trapeli dai pur continui resoconti della stampa. Ci si trova di fronte a più motivi e cause che, prese insieme o anche singole, potrebbero innescare conflitti armati capaci di sovvertire l'ordine mondiale. E' questo il quadro in cui potrebbero concretizzarsi i peggiori timori della Lega Araba ed a ruota di USA e UE. La situazione, pur gravissima per le condizioni cui è sottoposta la popolazione della Siria, potrebbe avere un peggioramento sostanziale che andrebbe ad impattare sull'intera condizione mondiale, con peggioramento della situazione delle relazioni internazionali, degli equilibri militari e le ovvie ripercussioni economiche. La soluzione proposta ora dalla Lega Araba, ma caldeggiata ancora prima da USA e UE, pare ormai l'unica che possa bloccare questa deriva, dato che le sanzioni, pur fiaccando il regime, non hanno ottenuto risultati degni di nota. E' una via da percorrere senza alternative, anche a costo di superare la stessa ONU e passando così il veto di Cina e Russia. E' chiaro che ciò sancirebbe definitivamente la fine dell'assetto attuale delle Nazioni Unite, accelerando la necessaria riforma per cambiare uno schema uscito e rimasto immutato dalla fine della seconda guerra mondiale e non più adatto ai radicali cambiamenti avvenuti negli ultimi sessanta anni.