Politica Internazionale

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mercoledì 24 ottobre 2012

Israele sempre meno tollerante con gli arabi

La notizia che mette in risalto i risultati di un sondaggio in Israele, dove la popolazione ebraica si è espressa in maggioranza a favore della concessione di maggiori diritti ai cittadini di etnia ebrea rispetto ai cittadini israeliani di origine araba, che rappresentano il 20% della popolazione del paese, pone inquietanti interrogativi sulla tendenza del comune sentire dalla maggioranza della nazione e sulle possibili conseguenze sul tessuto sociale e della impronta politica futura del paese, alla vigilia delle elezioni. Anche perchè, tra le pieghe del sondaggio, è emersa anche l'opinione favorevole ad una annessione della Cisgiordania; se questa è una ipotesi remota, tale approvazione esprime però, in maniera chiara, l'appoggio alla politica del governo sulla espansione dei territori, provando che non vi è alcuna volontà di raggiungere un accordo con la controparte palestinese. La polarizzazione, sempre più spinta, della popolazione israeliana, con l'assenza di integrazione con la parte araba, rappresenta una società che tende sempre più ad isolarsi dal contesto mondiale fino a rinchiudersi in se stessa. Questa forma di auto isolamento, una quasi autosufficienza sociale, pone per il paese delle difficoltà pratiche ad un confronto sereno, sia sul piano internazionale in generale, sia su quello particolare della risoluzione del problema con i palestinesi; anzi per quest'ultimo caso, il risultato del sondaggio, rappresenta un chiaro rifiuto ad una soluzione condivisa, ma soltanto ad una risoluzione favorevole alla matrice ebraica del paese, che va, però, contro ogni buon senso. Se il 59% del sondaggio è a favore di privilegiare gli ebrei sugli arabi relativamente al lavoro nell'amministrazione dello stato, il 42%, è favorevole ad una sorta di apartheid, che separi materialmente le due etnie sia nelle scuole che nelle civili abitazioni ed esiste addirittura un 74% favorevole alla costruzione di strade separate, mentreil 69% sarebbe favorevole alla negazione dell'esercizio del diritto di voto alla minoranza araba, questi dati significano che il lavoro della maggioranza politica di destra ha trovato una coltura favorevole per potere imprimere in modo deciso le proprie idee. In effetti l'operato del governo in carica ha promosso una politica di forte discriminazione della minoranza araba tramite provvedimenti come quello che nega la cittadinanza israeliana al coniuge nato nei territori palestinesi o quello che favorisce l'acquisto di terreno per gli ebrei rispetto agli arabi. Sebbene a questo atteggiamento non corrisponda la totalità della popolazione ebrea, vi è stata indubbiamente una crescita dell'avversione ai concittadini arabi, che riflette la paura della società israeliana, una società che vede nemici ovunque e si sente accerchiata anche per le simpatie verso i palestinesi della maggior parte della opinione pubblica mondiale. In un contesto del genere è facile così pronosticare la vittoria, ancora più marcata, del governo in carica alle prossime elezioni. Un risultato elettorale che si quantifichi in una dote di voti consistente, permetterà, come è nelle intenzioni di Netanyahu, una ulteriore accelerata verso uno stato che tenderà ad una emarginazione ancora maggiore della minoranza araba, non cogliendo, invece, le opportunità e le potenzialità che una maggiore integrazione poteva fornire come contributo alla pacificazione dei due popoli ed alla risoluzione del problema annoso della mancanza di una patria per il popolo palestinese. Ma questa soluzione di buon senso, che toglierebbe, tra l'altro, uno degli alibi fondamentali per l'esistenza dell'estremismo islamico, non pare essere nei programmi di chi gestisce il potere a Tel Aviv, che, al contrario, pare perseguire l'intento di aumentare il più possibile la quota di territorio da annettersi e negare con scuse sempre nuove la possibilità della creazione di uno stato palestinese. In quest'ottica i risultati del sondaggio trovano la giusta collocazione, come espressione di un popolo che vuole concedere poco o niente ai suoi più prossimi vicini, con tutte le conseguenze del caso.

martedì 23 ottobre 2012

Le sfide del nuovo esecutivo cinese

L'esecutivo che uscirà dal congresso del Partito Comunista Cinese non riserverà sorprese: da marzo, come previsto la carica di segretario del partito e di Presidente del paese sarà ricoperta dall'attuale vice presidente Xi Jinping. Ben diverse, invece, saranno le problematiche che il nuovo esecutivo sarà chiamato a risolvere, in special modo sul lungo periodo. Se la diseguaglianza sociale, il pesante tasso di corruzione, la richiesta pressante di riforme politiche e le crescenti proteste tra la popolazione, rappresentano già sfide complicate, la possibilità della fine del modello cinese di sviluppo, incentrato sulle esportazioni e gli investimenti statali, rappresenterà il nodo cruciale dell'azione di governo per Pechino. Si tratta in realtà di argomenti legati l'un l'altro a filo doppio, tuttavia senza una strategia globale azzeccata che investa tutti i settori, principalmente quello economico e sociale, il rischio di implosione del paese è molto concreto. Tralasciando gli ovvii effetti e ricadute sul computo dell'economia globale del pianeta, per la Cina diventa fondamentale risolvere alcune questioni cruciali che stanno al proprio interno e che le soluzioni intraprese possono indirizzare il paese verso il fallimento, una sopravvivenza sotto gli attuali standard o un successo contraddistinto, però, da nuove condizioni interne. Resta difficile infatti, preconizzare un mantenimento degli attuali standard di crescita senza il supporto della soluzione delle contraddizioni del paese, fino ad ora mascherate da una crescita molto elevata. Il punto nodale della questione è proprio questo, la crisi mondiale ha compresso i valori a doppia cifra di crescita economica della Cina, necessari per mantenere ed incrementare lo sviluppo di un tessuto sociale enorme per quantità, a questa diminuzione Pechino si è opposto con interventi sempre più massicci dello stato, che è il vero motore economico, tuttavia, tali interventi sono diventati eccessivi ed hanno acuito gli effetti negativi di tali politiche. La diffusione sempre maggiore della corruzione, attraverso una organizzazione vetusta del partito, che nelle periferie dello stato ha ancora connotati feudali, ha generato la dispersione delle risorse, creando forti tensioni sociali a causa della grande disparità, sia tra centro e periferia, sia tra le stesse classi sociali di medesime zone. Tali fenomeni hanno mostrato tutti i limiti delle politiche sociali del partito, incentrate sulla negazione dei diritti sindacali e sul lavoro, favoriti per permettere una industrializzazione sempre più spinta; ma se tale politica dal punto di vista economico, non certo da quello sociale e legale, poteva essere giustificata nella prima fase di insediamento delle industrie e forse anche nel periodo immediatamente successivo, ora mostra tutta la sua anti economicità. La presa d'atto della necessità di migliori condizioni lavorative è sempre più spesso alla base delle tante proteste che attraversano la nazione. Sarà questo il primo problema da risolvere per potere risolvere gli altri: elaborare una politica che tuteli i diritti del lavoro che possa conciliarsi con l'assolutismo politico al quale il Partito Comunista Cinese non vuole rinunciare. Una delle strade per mantenere un tasso di sviluppo alto è sviluppare il mercato interno in maniera massiccia, si tratta di una mercato con ancora potenzialità enormi, ma che non decolla per la scarsa redistribuzione del reddito, ancora troppo concentrato in pochi settori di popolazione e zone geografiche particolari. Risulta paradossale come un paese che si dice comunista, soffra di problemi analoghi se non identici a quelli delle economie più capitaliste del pianeta. Secondo i sostenitori delle riforme i tassi di crescita previsti entro la fine del decennio saranno intorno al 5%, tale valore non può assicurare il miglioramento degli standard di vita che la gran parte della popolazione richiede a gran voce. L'unica strada per alzare il tasso di crescita è una riforma politica radicale che comprenda l'eliminazione dei privilegi delle aziende di stato, preveda di limitare i poteri dello stato nell'economia e sappia contenere l'influenza dei gruppi monopolistici attenuandone i privilegi fino alla loro completa eliminazione per consentire di aprire mercati concorrenziali in questi settori. Si tratta di esigenze ormai ben note, che richiedono, però, riforme radicali ed anche epocali in una organizzazione statale che da sempre ha usato la prudenza, entro la propria ottica, come termine di riferimento, ma senza le quali la transizione cinese non potrà compiersi.

lunedì 22 ottobre 2012

E se vince Romney? Il possibile cambiamento delle relazioni internazionali con gli USA

Secondo gli ultimi sondaggi sulle elezioni presidenziali USA, i due candidati sarebbero sostanzialmente alla pari, con un valore per entrambi di circa il 47% di gradimento. Se Obama pare favorito tra i grandi elettori, Romney dovrebbe, invece, godere, di un maggiore consenso popolare, questo fattore segnala che il comune sentire dell'elettorato americano si sta spostando verso quei valori fondanti dell'ideologia repubblicana, che mettono al centro, oltre al liberismo nel campo economico, la volontà di affermare la supremazia americana nel mondo. Questa incertezza profonda, che ha ribaltato l'andamento delle previsioni, rappresenta un problema per il mondo intero. La percezione nel resto del pianeta, infatti, è ancora per una vittoria di Obama, che resta favorito come lo era effettivamente qualche mese fa. Su questo dato si è fermata, sia la popolazione mondiale, che praticamente la totalità dei governi. Questo vuole dire che il mondo non è preparato ad una vittoria di Romney e che tutti i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti sono ancora impostati con Obama presidente. La politica estera di Obama, pur mantenendo alcuni tratti distintivi della politica estera di Washington, ha subito un cambiamento considerevole nell'impostazione dei rapporti tra gli stati, tramite una azione contraddistinta da una azione maggiormente improntata al dialogo e spesso di secondo piano, sopratutto in quelle crisi regionali che riguardavano paesi dove la bandiera a stelle e strisce non era del tutto ben accettata. Questo non ha voluto dire smarcarsi da un impegno sul campo anche considerevole ed oneroso (si pensi alla Libia), ma lasciando la prima fila ad alleati sicuri, gli Stati Uniti di Obama hanno evitato di alimentare polemiche che potessero avere ripercussioni dirette sull'operato di Washington. Si è trattato, insomma, di un approccio totalmente nuovo, dove la maggiore propensione al dialogo, come nel caso iraniano, anche aspro, ha preso il posto dell'interventismo che ha caratterizzato le presidenze repubblicane precedenti. L'uso di strumenti alternativi all'opzione militare, come la pressione delle sanzioni, ma anche un maggiore uso delle missioni diplomatiche, hanno creato una inversione di tendenza nella politica estera americana, che si è materializzata anche su questioni meno strettamente geopolitiche, ma di uguale importanza come la materia economica, dove con la Cina, non si è mai arrivati a manovre protezionistiche in grado di complicare il movimento delle merci, sebbene inquadrate in una dialettica forte sopratutto riguardo al reale valore della moneta cinese. Anche con la Russia, antico nemico di stagioni passate, pur un interlocutore non certo democratico, il rapporto, anche se spesso contrastato non è mai trasceso fino a sfiorare crisi internazionali. La politica estera e diplomatica dell'amministrazione che sta per scadere e potrebbe non essere rinnovata, lascia un sistema di relazioni incanalate su binari ben determinati, con le strutture statali atte ad interloquire con il sistema centrale di Washington, che sono impostate su di una base di fondo che prevede un confronto delimitato da confini certi e sicuri. Ma se vincesse Romney questa costruzione diplomatica faticosamente elaborata da quattro anni di governo Obama, sarebbe completamente stravolta. Anche se il candidato repubblicano ha superato, perchè abilmente guidato, le gaffes iniziali e si dimostra maggiormente, ma non ancora sufficientemente, preparato in politica estera, i suoi intendimenti sono chiari. Le dichiarazioni, che devono comunque essere adeguatamente soppesate, vanno nella direzione opposta da quanto fatto fin qui da Obama. La volontà più volte ribadita di bombardare l'Iran e di assecondare la politica espansionistica americana, le provocazioni più volte dirette contro la Russia e l'atteggiamento minaccioso contro l'economia cinese, rivelano che la stagione del dialogo avrebbe la sua fine con l'elezione di Romney, il quale, anche se limitato dai diplomatici professionisti, che non gradiscono senz'altro questo tipo di approccio, pare indirizzare la sua politica estera verso una ripresa del protagonismo assoluto degli USA. Il ragionamento si basa sulla volontà di affermare la potenza, anche militare, americana, ma non tiene conto che negli ultimi quattro anni il mondo è profondamente cambiato ed Obama, che è meno progressista di quello che vuole fare credere, si è soltanto adattato al nuovo scenario. Se Romney non comprende, come pare, questo cambiamento si dovrà assistere ad una serie continua di tensioni diplomatiche, che potranno mettere a dura prova le relazioni degli Stati Uniti, indirizzando sforzi verso obiettivi anacronistici e di difficile realizzazione. Tuttavia, ciò che preoccupa è se le cancellerie mondiali saranno attrezzate a sufficienza per ammortizzare questa nuova possibile tendenza. L'impreparazione potrebbe generare reazioni di conseguente difficile gestione, che potrebbero andare a paralizzare diverse relazioni bilaterali con gli USA, creando ricadute sopratutto nell'economia e nella finanza che potrebbero ripercuotersi sul bilancio generale di un mondo sempre più globalizzato, dove gli effeti di un atto compiuto ad una latitudine si propagano alle altre con una velocità imbarazzante. Mancano soltanto poco più di due settimane alle elezioni ed è augurabile che tutti, ma proprio tutti gli stati, elaborino strategie alternative al rapporto con gli USA.

giovedì 18 ottobre 2012

Per una lotta alla fame senza gli OGM

Il problema della fame nel mondo sta andando di pari passo con lo sforzo dei produttori di OGM di determinare il successo dei loro prodotti e della loro tecnologia. Sul dibattito della diffusione degli OGM vi sono tendenze contrarie e favorevoli, che da un lato sono fortemente negative a tale scelta per l'impatto sull'ecosistema, mentre dall'altro lato gli assertori di tali tecniche crecano di promuoverle in nome di una maggiore sicurezza e diffusione dei prodotti agricoli, che verrebbero più facilmente coltivati. Il gran numero di persone ancora alle prese con problemi di nutrizione offre a chi è favorevole agli OGM un appiglio non di poco conto, sopratutto se messo in relazione con la scarsità delle risorse alimentari. Tuttavia non è questa l'ottica corretta da cui guardare il problema, perchè un'analisi globale indica che più che la quantità di cibo disponile, il vero ostacolo per una maggiore nutrizione è l'accesso alle risorse alimentari. Certamente se ci si vuole limitare a prendere in esame i singoli territori dove il problema della fame è più pressante, si ha anche a che fare con gli scarsi quantitativi di produzione, legati, peraltro, ad una serie di fattori che si possono slegare dal mancato impiego degli OGM e che vanno dalle condizioni climatiche, alle scarse conoscenze tecniche, fino all'arretratezza dei mezzi di produzione. Su questi aspetti l'impegno dei governi dei paesi in questione deve essere stimolato attraverso aiuti internazionali, che possano permettere di raggiungere l'autosufficienza alimentare; ma ciò è possibile senza impiegare gli OGM, che, se in un primo momento potrebbero facilitare la produzione in quantitativi maggiori, successivamente porterebbero squilibri agli ecosistemi, tali da ripresentare la situazione di partenza. Nella fase di immediata urgenza sarebbe preferibile, invece, spostare le derrate alimentari in modo da favorirne l'accesso; ciò avrebbe ricadute positive, dal punto di vista dell'ambiente anche nelle regioni ricche. Le statistiche dicono, infatti, che la quantità globale di cibo prodotta è già sufficiente ad eliminare il problema della denutrizione. Attualmente vi sono l'equivalente di 4.972 calorie al giorno a testa prodotte nel mondo sotto forma di colture, ma soltanto 2.468 sono utilizzate per l'alimentazione, la parte restante è impiegata per l'allevamento intensivo del bestiame, che tra l'altro produce grossi quantitativi di anidride carbonica, per la produzione di idrocarburi, che dopo alcuni cicli di coltura rendono i terreni praticamente sterili, ed infine vi è lo spreco dei prodotti invenduti e quindi trasformati in rifiuti a causa delle errate politiche di acquisto delle grandi catene alimentari. Queste considerazioni portano direttamente alla necessità di una razionalizzazione dei sistemi di produzione e di distribuzione, che possano favorire nei paesi ricchi, attraverso un consumo più consapevole e possibilmente a chilometri zero, un miglioramento dell'ambiente e nei paesi poveri un indirizzamento della produzione in eccesso a prezzi calmierati, capace di portare alla risoluzione definitiva il problema della denutrizione, in attesa dell'indipendenza alimentare, che deve essere perseguita di pari passo. Ma il problema OGM non è soltanto in relazione alla denutrizione, come i produttori di queste tecnologie vogliono fare credere: la spinta della ricerca del maggior guadagno possibile non ha lasciato immune il settore agricolo, che, a seguito dell'industrializzazione sempre maggiore del settore, sta ricercando in maniera spasmodica rese sempre più alte dalle coltivazioni impiantate. Ma il punto debole è proprio nell'eccessiva industrializzazione del settore, non tanto nella componente meccanica, quanto nell'uso ormai sfrenato della chimica, che ha determinato l'abbandono di quegli usi consuetudinari dei contadini, che però assicuravano la bontà del raccolto. Preferire l'uso dei pesticidi e dei concimi chimici, anzichè optare per l'impiego di fertilizzanti biologici e praticare la successione delle colture, che permettono di mantenere inalterate le proprietà del suolo, si sono rivelate, nel lungo periodo scelte dissennate, dopo che nel breve periodo avevano permesso guadagni più elevati. Queste considerazioni vanno ad innestarsi direttamente sulle politiche di sviluppo delle zone povere, dove l'agricoltura deve essere il primo settore per importanza nel raggiungimento dell'autosufficienza alimentare. Tali tecniche, quelle tradizionali, necessitano di maggiore investimento e sopratutto di una maggiore attesa in termini di tempo in relazione al risultato, perciò è importante sviluppare un accesso al credito che preveda forme agevolate e facilitate, capaci di creare un'autonomia finanziaria che abbia il requisito della solidità per le aziende agricole dei paesi in via di sviluppo. Pur essendo diverse le caratteristiche necessarie a sviluppare una agricoltura senza OGM, i vantaggi per le collettività coinvolte sono senza dubbio maggiori: una maggiore sostenibilità per l'ambiente, nel lungo periodo produzioni agrarie assicurate e prodotti non modificati. Risulta ovvio che questi concetti devono essere condivisi, sia a livello statale che sovrastatale, i soggetti coinvolti sono molteplici, ma i risultati potenzialmente ottenibili sono di gran lunga un obiettivo sempre più essenziale da iscrivere al bilancio socio economico del pianeta.

mercoledì 17 ottobre 2012

Netanyahu vuole legalizzare gli insediamenti in Cisgiordania

Nonostante il parere contrario del ministro della difesa Ehud Barak, Netanyahu, con l'approssimarsi della fine della legislatura, cerca di regolarizzare gli insediamenti dei coloni costruiti in Cisgiordania. La manovra ha un senso politico, il primo ministro uscente e capo del Likud, che ha deciso di anticipare le elezioni, forte di sondaggi favorevoli, non vuole correre alcun rischio e punta con il provvedimento che ha intenzione di approvare, ad avere il pieno appoggio dell'estrema destra nazionalista. Secondo Netanyahu, il provvedimento avrebbe basi legali, grazie alla favorevole relazione redatta da una commissione di giuristi, guidati dall'ex giudice della Corte Suprema Edmond Levy, che respinge l'illegalità delle colonie. La manovra di avvicinamento per portare a termine il contrastato obiettivo, parte dalla necessità di migliorare la vita degli abitanti delle colonie, ma contiene gli strumenti per rendere maggiormente flessibili i requisiti amministrativi e legali, che possano facilitare la costruzione di altri insediamenti grazie ad un iter burocratico più veloce. Il timore di ripercussioni sui già difficili, proprio per questi argomenti, rapporti con la comunità internazionale, hanno determinato le dichiarazioni del Ministro dei Trasporti e leader del Likud, Israel Katz, che ha affermato, che la misura non è una dichiarazione di sovranità su queste porzioni di territorio e neppure una annessione della popolazione palestinese; tuttavia ciò appare in chiaro contrasto con quella che sembra la volontà, sopratutto politica, del provvedimento. Il dato più evidente è però la mancanza di una linea comune anche all'interno dello stesso governo di Tel Aviv: se da una parte il ministro della difesa, per cercare di riavviare il dialogo con i palestinesi, si sbilancia con il capo dell'ANP su di un possibile ritiro dalla Cisgiordania, il provvedimento caldeggiato da Netanyahu va nella direzione opposta. Questi segnali di contrasto erano già emersi in più occasioni relativamente alla necessità di attaccare l'Iran, ma parevano divergenze su ragioni di opportunità più che di merito, in questo caso, invece, le linee di condotta dei rispettivi membri del governo paiono divergere completamente. Se Netanyahu agisce in nome di esigenze contingenti, come le elezioni sempre più prossime, Barak pare avere una visuale più ampia, che tiene conto, cioè, dell'impatto di un tale provvedimento sulle relazioni diplomatiche di Israele, destinate a deteriorarsi ulteriormente ed ha rendere il paese ancora più isolato. Una condizione non proprio ottimale per una nazione che potrebbe scatenare una guerra con conseguenze sicuramente nefaste, ma anche imprevedibili, data la posta in gioco. L'opposizione israeliana si attesta su questa linea e ritiene dannoso per il paese regolarizzare le enclaves illegali. Vi è poi la questione della giustificazione legale adotta su cui si vuole basare il provvedimento e che praticamente invalida gli accordi del 1967. La tesi è che prima di quell'anno l'unica nazione riconosciuta ad avere sovranità su quei territori era Israele, dopo quella data nessuna nazione ha esercitato la sovranità sulla Cisgiordania e quindi la continuità temporale dell'esercizio della sovranità giustifica l'esistenza delle colonie. Questo argomento contorto e privo di sussistenza giuridica rischia di diventare un valido argomento per gli estremisti di entrambe le parti, ed il suo uso indiscriminato ed irragionevole non può essere accolto dalla comunità internazionale. Israele ancora una volta, conta sul silenzio colpevole delle Nazioni Unite, che dovrebbero reagire immediatemente con tutti gli strumenti legali a loro disposizione contro Tel Aviv, per impedire una tale violazione, che può portare a sviluppi molto pericolosi ed anche gli Stati Uniti, principale alleato degli israeliani, dovrebbe adoperarsi per scongiurare l'applicazione di una tale volontà. La reazione dei palestinesi è stata scontata quanto, fino ad ora, composta. L'ANP ha ribadito l'inesistenza di alcun fondamento delle pretese israeliane sui territori della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, definendo ridicolo il provvedimento promosso da Netanyahu.

L'Iran potrebbe inquinare lo stretto di Hormuz

L'Iran potrebbe usare il terrorismo ecologico per cercare di attenuare le sanzioni di cui è oggetto da parte dei paesi occidentali, per la questione della bomba atomica. Il piano, che sarebbe stato messo a punto dal capo della Guardia rivoluzionaria dell'Iran, Ali Jafari Mohammed, prevederebbe di inquinare lo stretto di Hormuz mediante una immissione di greggio, che dovrebbe portare alla chiusura della navigazione. L'attuazione del piano si dovrebbe concretizzare con lo schianto di una nave cisterna contro una determinata zona rocciosa dello stretto, accessibile soltanto alle autorità iraniane. La messa in pratica di tale piano costituirebbe una sanzione diretta dell'Iran all'economia mondiale, in quanto il blocco del transito delle cisterne dei paesi arabi affacciati sul Golfo Persico, andrebbe a costituire un ostacolo molto rilevante all'economia globale con ovvie ricadute sui prezzi del greggio. Ma, insieme a questo obiettivo, l'Iran ne può conseguire contemporaneamente anche altri. Il primo è proprio quello di danneggiare le economie petrolifere dei paesi arabi ostili all'Iran, per prima l'Arabia Saudita, il secondo è quello di costringere l'occidente ad attenuare le sanzioni per potere materialmente operare, anche insieme ad organizzazioni iraniane, alla ripulitura dei tratti di mare inquinati. La strategia iraniana gioca, insomma, su più fronti per cercare di attenuare gli effetti delle sanzioni, che malgrado alcune eccezioni, stanno incominciando a mettere in seria difficoltà il regime. Questo piano, per la verità non è nuovo, ed è stato minacciato più volte nel caso si verificasse l'ipotesi dell'attacco da parte di Israele ed USA, ma l'intenzione di metterlo in atto a prescindere dalla messa in pratica delle minacce di Tel Aviv, può soltanto significare che Teheran potrebbe tentare una mossa della disperazione per attenuare gli effetti economici delle sanzioni sul paese. Tuttavia un tale azzardo esporrebbe l'Iran a misure ancora più pesanti ed aggiungerebbe nuove motivazioni per una azione militare, su cui potrebbero convergere anche altre potenze. Sono, probabilmente, queste valutazioni, che hanno impedito, al leader supremo iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, di dare il via, per ora, all'operazione di ecoterrorismo.

martedì 16 ottobre 2012

Autorità Palestinese e Israele tornano ad incontrarsi

Una riunione riservata, avvenuta in Giordania, tra il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ed il ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, avrebbe riguardato la possibilità di riallacciare i contatti tra le due parti, in vista di una possibile ripresa dei colloqui di Pace. E' dal settembre 2010, che i colloqui ufficiali sono sospesi a causa del rifiuto di Tel Aviv di bloccare gli insediamenti dei coloni israeliani sui territori della Cisgiordania. Ai colloqui avrebbe assistito il Re di Giordania, che avrebbe anche ricoperto il ruolo di mediatore. La Giordania è ormai l'unico paese arabo ad avere contatti formali con Israele ed è ritenuto da questi praticamente un alleato, tanto da pensare al coinvolgimento della nazione giordana nella strategia di un possibile attacco all'Iran, che dovrebbe comprendere il benestare per il sorvolo dello spazio aereo giordano all'aviazione militare di Tel Aviv, diretta a colpire gli obiettivi sensibili iraniani. Ma la Giordania è anche un alleato americano, ritenuto di fondamentale importanza strategica per la sua posizione. Queste due certezze potrebbero delineare che dietro l'incontro tra ANP ed Israele, non ci sia soltanto la volontà di pacificare l'area da parte del monarca giordano, ma qualcosa di più. La necessità di chiudere o perlomeno di sistemare in modo sostanziale la questione palestinese, almeno per la parte inerente alla Cisgiordania, potrebbe essere una necessità di natura politica ormai improcrastinabile per Israele, se l'attacco all'Iran fosse ormai imminente. Quella proposta ad Abbas è una soluzione che prevede il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania da parte di Israele, tuttavia senza la definizione chiara e certa dei confini tra i due stati. E' proprio questo che non convince il Presidente dell'Autorità palestinese, che punta al riconoscimento del proprio stato con una delimitazione fissata e riconosciuta da Tel Aviv. In effetti la proposta israeliana, sebbene contenga elementi di novità, che segnerebbero, se attuati, passi avanti di indubbio valore nel processo di pace, proprio per la sua non completa certezza sulla definizione dei confini, lascia adito a sostanziosi dubbi sulla reale intenzione di definire la questione, quanto piuttosto sia tesa a soddisfare una volontà contingente dello stato israeliano, derivante dalla necessità di dimostrare ai governi arabi, una intenzione di dare una soluzione al problema palestinese. La ragione politica che sta dietro a questa mossa è quella di fornire ai vari governi di matrice sunnita, ma pur sempre arabi, una argomentazione che possa attenuare le reazioni popolari ad un attacco contro Teheran. Se pubblicamente, infatti, stati come l'Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo Persico, non possono appoggiare un'azione militare contro l'Iran, stato pur sempre musulmano, da parte israeliana, la possibilità di danneggiare il maggiore regime teocratico scita è una eventualità che giocherebbe tutta a loro favore.