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venerdì 26 ottobre 2012

Londra potrebbe negare le proprie basi agli USA per l'attacco all'Iran

Con la situazione iraniana che non pare evolversi in un senso positivo e la continua pressione di Israele per un attacco preventivo, gli Stati Uniti, pur cercando di evitare l'escalation militare, si trova a dover programmare la logistica in funzione della possibilità che l'opzione bellica si concretizzi. A questo scopo il Pentagono ha contattato diversi stati per il permesso di sorvolo e l'utilizzo di alcune basi militari, che possano permettere il rifornimento e la manutenzione dei velivoli militari. In particolare sarebbero stati avviati contatti con l'alleato principale degli Stati Uniti, il Regno Unito, per ottenerne la collaborazione, attraverso l'uso delle installazioni situate nel suo territorio. Il Ministero della difesa britannico, consultandosi con il ministero della giustizia avrebbe negato l'accesso e quindi l'utilizzo alle proprie basi militari perchè ciò andrebbe a violare il diritto internazionale. In parole povere il governo britannico o teme, in ragione degli ordinamenti internazionali, una sanzione da parte delle Nazioni Unite oppure teme le ritorsioni iraniane. In tutti i casi la negazione delle basi britanniche alle forze armate USA, costituisce una maniera per esprimere forte disaccordo con la possibilità di un attacco all'Iran. Questo elemento rappresenta una novità assoluta, sia per i rapporti molto stretti tra i due stati, che per quanto riguarda il panorama internazionale occidentale, dove grazie alla compattezza sulle sanzioni contro la Repubblica islamica, non sono mai state messe in conto possibili defezioni. Ma un attacco militare alzerebbe il livello della ritorsione, che comporterebbe una responsabilità di gran lunga maggiore se paragonata a sanzioni economiche, di fronte ad un conflitto, che rischierebbe di allargarsi oltre i confini della regione e potrebbe avere implicazioni di una portata molto vasta per il possibile uso di armamenti nucleari. Il no britannico apre quindi una spaccatura di non poco conto nell'alleanza occidentale per la contrarietà alla scelta di attaccare l'Iran. Sarà facile che all'atteggiamento di Londra si accodino le altre capitali europee, non certo favorevoli ad essere coinvolte in una guerra non certo condivisa. Recenti simulazioni hanno previsto che l'Iran potrebbe arrivare a colpire addirittura l'Italia con i suoi missili. Non pare credibile quindi, che ne l'Unione Europea, ne i singoli stati, vogliano appoggiare Israele e gli USA in una azione militare della quale non possono prevedersi gli sviluppi, neppure con la sola concessione delle basi presenti sui loro territori. Se questa sarà la tendenza che si affermerà, per Israele sarà sempre più difficile contare sull'appoggio dei paesi occidentali, neppure mettendoli di fronte al fatto compiuto. L'impressione è che la questione, per le cancellerie occidentali, se arriverà al punto di rottura, non sarà considerata affare loro. Questa situazione lascia Tel Aviv in un isolamento pressochè totale sull'argomento, che, però, potrebbe significare ancora meno cautela, perchè getterebbe il paese in preda ad un terrore ancora maggiore e ad un senso di accerchiamento capace creare i presupposti per una azione mal ponderata. Anche gli USA vengono messi in difficoltà, oltre che venire a mancare l'appoggio materiale, la negazione delle basi significa anche il venire meno dell'appoggio morale e politico ad una eventuale azione di forza. Ma nell'immediato la sensazione americana deve essere di smarrimento totale di fronte al rifiuto britannico, l'alleato da sempre più fidato. Se questa situazione fa il gioco di Obama, che può mettere sul tavolo, oltre la propria contrarietà, anche quella degli occidentali ad un attacco militare contro l'Iran, per rafforzare ancora di più l'azione delle sanzioni, preoccupa le sfere militari alle prese con una gestione molto difficoltosa di un'azione, che, comunque, non è stata ancora scongiurata; ed inoltre mette nei guai Romney, nell'eventualità di una sua elezione, che deve tenere conto dell'importanza del rifiuto britannico prima di proseguire nella sua intenzione, più volte dichiarata di bombardare l'Iran. Se l'opinone pubblica era concentrata sulla scena contraddistinta dal dualismo Iran- Israele, con gli USA dietro le quinte, la variabile inattesa della decisione britannica, rischia di portare scompiglio nel teatro della contesa: chiamandosi fuori le spalle di Washington, benchè larghe, non sembrano sufficienti per portare il peso di una responsabilità così grande.

Elezioni USA: gli uomini bianchi non votano per Obama

All'avvicinarsi della data delle elezioni presidenziali americane, nelle pieghe dei sondaggi, è uscito un dato che non è stato abbastanza messo i rilievo dagli analisti. Barack Obama non ha il sostegno degli uomini bianchi americani. Se questa situazione era già presente alla vigilia delle passate consultazioni elettorali, ora il fenomeno si è acuito, con Romney in vantaggio, su questa parte della popolazione, di ben 23 punti percentuali. Sul perchè il presidente uscente non riesca a sfondare in questo segmento di elettorato pesano considerazioni e motivazioni differenti. Prime tra tutte sono la mancata identificazione con le idee ed i provvedimenti che stanno alla base di Obama. Gli Stati Uniti non sono New York, nell'America profonda è ancora valida l'idea della supremazia sociale della figura maschile bianca, la retorica del bianco, anglosassone e protestante, in effetti non è mai tramontata, e le leggi in favore delle minoranze, sia etniche che sessuali, non hanno mai fatto breccia in quella che è la classe dominante statunitense: l'uomo bianco, che detiene la maggiore percentuale di ricchezza del paese e si identifica con la legislazione liberista propria del partito repubblicano. Scalfire le convinzioni di questa figura sociale emblematica, che incarna il sogno americano delle origini, non è ancora socialmente possibile. In questo aspetto gli Stati Uniti, si rivelano ultra conservatori ed anche non al passo con i tempi. La politica repubblicana, infatti, dal punto di vista sociale si ostina a presentare una immagine della società ancora fondata su valori familiari tradizionali, che spesso non rispecchiano l'effettiva fotografia della composizione del tessuto sociale americano. Vi è poi una questione razziale difficile da scalfire, l'icona del presidente di colore, che è stata presentata al mondo come una conquista della parità, all'interno della nazione non ha avuto un tale ritorno di immagine ed anzi, per certi versi, anche grazie a notizie false che hanno alimentato campagne denigratorie contro Obama, in vasti settori di razza bianca, l'insediamento di un uomo di colore alla massima carica statunitense, e quindi del mondo, è stato vissuto come una autentica usurpazione. La parte sociale che ha avuto questi sentimenti è stata proprio quella composta dagli uomini bianchi, che però non possono tutti essere di ceto elevato, cioè non basta fare una discriminante del reddito per individuare le ragioni dei contrari ad Obama, occorre, invece, cercare motivi ulteriori, come quello razziale, per spiegare un fenomeno che sembra avere radici che sfiorano la psicopatologia di questa parte di elettorato. La mancata accettazione di un presidente di colore appare una presa di posizione che prescinde, in molti casi, dal suo operato effettivo, è, cioè, una scelta a priori che si fonda sulla convinzione, putroppo ancora presente, della supremazia dei bianchi sui neri e ciò risulta essere ben triste nel 2012 e dimostra come quella che è dichiarata la più grande democrazia del mondo sia, in realtà, ben lontana da raggiungere tale livello. Questo dato dei sondaggi, pone quindi l'accento su di una polarizzazione estrema della società americana che è tutt'altro che amalgamata come si crede all'estero, gli stereotipi dell'America del sud, sono purtroppo non solo luoghi comuni ma tristi realtà, che si ritrovano anche ad altre latitudini del paese. Lo stesso Obama è apparso rassegnato di fronte a questa realtà, concentrando i suoi sforzi in campagna elettorale verso l'elettorato di colore e quello ispanico, dove il vantaggio attribuito, potrà risultare fondamentale per il risultato finale. In ogni caso la riflessione finale non può che vertere sulla reale natura del paese che sempre si è identificato come quello delle opportunità e della realizzazione, dati come questo dimostrano quanto quella immagine da cartolina sia lontana.

giovedì 25 ottobre 2012

Berlusconi non si ricandiderà a capo del governo italiano

Con l'annuncio del ritiro dalla candidatura alla corsa elettorale nella veste di candidato premier, Silvio Berlusconi pone la fine alla sua era politica, durata diciotto anni. Pur non trattandosi di una uscita di scena politica totale e definitiva, l'intenzione è quella di rimanere dietro le quinte del suo partito come consigliere e padre nobile, la svolta per tutto il panorama politico italiano è cruciale. Sia da destra che da sinistra, si respira un'aria di scoramento, da una parte per l'assenza futura dall'impegno in prima persona e dall'altra per la mancanza dell'avversario storico di tanti anni, bersaglio costante e fattore di unificazione delle opposizioni. Nei fatti l'uscita di scena è stata una scelta obbligata da diversi fattori e non certo, come affermato, una scelta autonoma e responsabile. Per prima cosa hanno pesato i risultati fortemente negativi dell'economia italiana, condizionati dagli ultimi anni costellati da decisioni sbagliate, che hanno obbligato il Presidente della Repubblica, ha chiamare al governo un gruppo di tecnici, per raddrizzare, almeno nei numeri complessivi, bilanci disastrosi. Ma non meno decisiva è stata l'implosione del partito creato da Berlusconi, Il Popolo delle Libertà, con presupposti non in grado di legare le varie componenti, formate dalla destra estrema assemblata agli ultra liberisti; un partito di plastica, unito solo grazie al carisma del suo fondatore, che ha esercitato il ruolo di padre padrone, ma anche quello di parafulmine. Lo scarso controllo sull'apparato periferico, lasciato libero di proliferare grazie ad arricchimenti indebiti, che hanno provocato scandali di impatto pesantissimo sull'immagine complessiva della forza politica, ha, alla fine, determinato una sorta di tutti contro tutti, dove la vittima designata è stata proprio il partito stesso. Sceso nei sondaggi addirittura al terzo posto, superato anche da un movimento creato da un comico, il Partito della Libertà si stava dissolvendo nelle liti interne, condannato a scissioni che avrebbero ridimensionato drasticamente il peso politico degli autodefiniti moderati. La mossa di Berlusconi, per quanto obbligata, segnala una sensibilità politica ed una capacità operativa, che rappresentano le uniche possibilità di salvezza per il partito. Facendosi da parte da candidato premier, Berlusconi, può riacchiappare quei voti che la destra avrebbe consegnato all'astensionismo piuttosto che optare per il vecchio premier. Ma questa è solo la metà dell'opera, Berlusconi ha lanciato la sua successione con le primarie, il partito deve ora camminare da solo e l'interrogativo più difficile è vedere se resisterà unito senza il suo maggior fattore di amalgama. Il movimento appare tutt'altro che coeso e le candidature esprimono posizioni politiche molto distanti, la scadenza della consultazione per la successione è brevissima, le primarie sono previste per dicembre, e non è esclusa la fuoriuscita dal partito, come già accaduto con Tremonti, di pezzi del movimento per la formazione di nuovi schieramenti. Il quadro è quindi a tinte fosche, tuttavia dall'altro lato dello schieramento le cose non appaiono differenti. Il principale partito di opposizione dato vincente fino ad ora dai sondaggi, più per mancanza di concorrenza che per reali capacità, è altrettanto lacerato da un conflitto interno che, in apparenza pare contrapporre la nuova alla vecchia guardia, in realtà mette di fronte visioni diametralmente opposte del concetto di sinistra. Qui si è ancora più vicino alle consultazioni primarie per designare il candidato premier e le due correnti che possono ambire alla vittoria, la terza quella che si rifà a posizioni vicine all'ultra sinistra non ha alcuna possibilità di affermazione, rappresentano una la copia di un liberismo attenuato simile alle politiche di Blair, l'altra un confusionario compromesso tra il lavoro ed il capitale difficile da comprendere. Se con Berlusconi in campo anche una opposizione così sgangherata avrebbe vinto di sicuro, senza, la certezza viene meno, andando così a rendere determinante il tanto odiato avversario, che cancellandosi dalla competizione da un colpo non decisivo ma pesante, alle aspirazioni della sinistra di andare al governo. Ma l'unica certezza è che ancora una volta Berlusconi gioca un ruolo da protagonista, sebbene questa volta indiretto, della politica italiana. Le prossime tappe di avvicinamento alle elezioni di Aprile riserveranno ancora sorprese, rendendo sempre più incerto l'esito della competizione, da ora tutto è riaperto

mercoledì 24 ottobre 2012

Per Grecia, Portogallo e Spagna sciopero contemporaneo contro l'austerità

L'Europa comincia ad unirsi anche dal basso. Se finora a rendere sempre più vicini e collaborativi tra di loro i governi della UE erano i problemi economici, la cui soluzione è finora andata, in modo univoco, nella direzione di soddisfare i grandi capitali e le istituzioni bancarie e della finanza, il giorno 14 novembre andrà, per la prima volta in scena, uno sciopero generale contemporaneamente in tre paesi. Saranno infatti Grecia, Spagna e Portogallo, guarda caso le tre nazioni i cui popoli sono stati maggiormente colpiti dalle misure dei rispettivi governi, a manifestare contro il ricorso esagerato a politiche di austerità, che hanno compromesso il funzionamento dello stato sociale, peggiorando sensibilmente la qualità della vita dei ceti meno ricchi e più poveri e portato l'economia ad uno stato di sofferenza per la contrazione dei consumi. Protagonista di questa manifestazione è la Confederazione europea dei sindacati, organizzazione che riunisce 85 sindacati di 36 paesi, che inaugura con questa giornata di sciopero una strategia a più ampio raggio per ottenere una maggiore visibilità per cercare di contrastare le politiche recessive dei governi europei. Già in altre occasioni si erano ospitate delegazioni di paesi stranieri durante gli scioperi dichiarati in altre nazioni, fenomeno che ha posto l'accento sul bisogno di una strategia sindacale capace di riunire i sentimenti che sempre più accomunano i popoli europei, ma mai si era riuscito a proclamare una giornata di protesta lo stesso giorno in tre nazioni differenti. Il tema dello smantellamento del modello sociale europeo in favore dello spostamento di potere verso chi detiene la gran parte del capitale, per permettere alle aziende, con la scusa della crisi, l'attenuazione dei diritti dei lavoratori, è ormai un argomento che tocca la sensibilità di platee sempre più vaste. Il ricorso agli scioperi è ormai sempre più frequente ed in alcuni paesi la tensione sociale sta toccando picchi di difficile gestione, sia da parte delle forze politiche, che da quelle sindacali. I dati circa la disoccupazione in Europa dicono che più di 18 milioni di persone sono senza lavoro, di cui almeno un quarto nelle fasce giovanili e questo aumenta il fenomeno del precariato, spesso praticato con diritti sempre meno garantiti. I governi hanno scelto la strada di salvare le banche, addebitando il conto ai salariati ed ai pensionati, che oltre vedere ridotto il proprio potere d'acquisto hanno dovuto subire anche il taglio delle prestazioni sociali, misura che si aggrava ad ogni manovra finanziaria. Nella UE quello che viene individuato come vincente è il modello tedesco, tanto decantato per la sua capacità di esportare. Tuttavia le esportazioni della Germania sono dirette per il 60% della sua produzione all'interno del mercato dell'Unione Europea, quindi se la compressione della capacità di spesa delle altre nazioni europee andrà avanti, ad entrare in crisi sarà anche Berlino, che con i suoi prodotti non ha mai sfondato oltre i confini del vecchio continente. Questo dato deve fare riflettere i governanti europei, che si sono sottomessi alle misure volute essenzialmente dalla Germania, per la sua necessità di fare cassa subito. La locomotiva tedesca, infatti, appare forte con deboli ed il suo bisogno dell'euro è essenziale, una Germania con la propria valuta vedrebbe subito abbassarsi il proprio livello di esportazioni entrando in recessione. Se Berlino ha delle ragioni per pretendere bilanci rigorosi, ha ancora di più l'interesse ad ostacolare le imprese europee sue concorrenti, strangolandole dal lato finanziario, creando così la disoccupazione che attanaglia la maggior parte delle nazioni europee. Questo meccanismo sta diventando ben chiaro alle popolazioni europee dove l'avversione per la nazione tedesca si sta incrementando notevolemente, meno chiaro è come i governi accettino i diktat di Berlino praticamente senza obiettare alcunchè. Ma come vi è necessità di una unione politica paritaria per la sopravvivenza dell'Unione Europea, vi è altrettanta necessità di una unione sindacale, che sappia unire le diverse componenti nazionali e sappia creare una linea di difesa comune del lavoro e dello stato sociale con strategie in grado di rappresentare in modo globale le esigenze, sempre più frustrate, dei popoli europei. Questo passo dello sciopero comune in tre paesi è quindi un punto di partenza per dare una risposta alla continua violazione dei diritti e contro politiche economiche che offendono i ceti meno abbienti, ancora più importante perchè contiene in se il seme dell'unità dei lavoratori europei.

Israele sempre meno tollerante con gli arabi

La notizia che mette in risalto i risultati di un sondaggio in Israele, dove la popolazione ebraica si è espressa in maggioranza a favore della concessione di maggiori diritti ai cittadini di etnia ebrea rispetto ai cittadini israeliani di origine araba, che rappresentano il 20% della popolazione del paese, pone inquietanti interrogativi sulla tendenza del comune sentire dalla maggioranza della nazione e sulle possibili conseguenze sul tessuto sociale e della impronta politica futura del paese, alla vigilia delle elezioni. Anche perchè, tra le pieghe del sondaggio, è emersa anche l'opinione favorevole ad una annessione della Cisgiordania; se questa è una ipotesi remota, tale approvazione esprime però, in maniera chiara, l'appoggio alla politica del governo sulla espansione dei territori, provando che non vi è alcuna volontà di raggiungere un accordo con la controparte palestinese. La polarizzazione, sempre più spinta, della popolazione israeliana, con l'assenza di integrazione con la parte araba, rappresenta una società che tende sempre più ad isolarsi dal contesto mondiale fino a rinchiudersi in se stessa. Questa forma di auto isolamento, una quasi autosufficienza sociale, pone per il paese delle difficoltà pratiche ad un confronto sereno, sia sul piano internazionale in generale, sia su quello particolare della risoluzione del problema con i palestinesi; anzi per quest'ultimo caso, il risultato del sondaggio, rappresenta un chiaro rifiuto ad una soluzione condivisa, ma soltanto ad una risoluzione favorevole alla matrice ebraica del paese, che va, però, contro ogni buon senso. Se il 59% del sondaggio è a favore di privilegiare gli ebrei sugli arabi relativamente al lavoro nell'amministrazione dello stato, il 42%, è favorevole ad una sorta di apartheid, che separi materialmente le due etnie sia nelle scuole che nelle civili abitazioni ed esiste addirittura un 74% favorevole alla costruzione di strade separate, mentreil 69% sarebbe favorevole alla negazione dell'esercizio del diritto di voto alla minoranza araba, questi dati significano che il lavoro della maggioranza politica di destra ha trovato una coltura favorevole per potere imprimere in modo deciso le proprie idee. In effetti l'operato del governo in carica ha promosso una politica di forte discriminazione della minoranza araba tramite provvedimenti come quello che nega la cittadinanza israeliana al coniuge nato nei territori palestinesi o quello che favorisce l'acquisto di terreno per gli ebrei rispetto agli arabi. Sebbene a questo atteggiamento non corrisponda la totalità della popolazione ebrea, vi è stata indubbiamente una crescita dell'avversione ai concittadini arabi, che riflette la paura della società israeliana, una società che vede nemici ovunque e si sente accerchiata anche per le simpatie verso i palestinesi della maggior parte della opinione pubblica mondiale. In un contesto del genere è facile così pronosticare la vittoria, ancora più marcata, del governo in carica alle prossime elezioni. Un risultato elettorale che si quantifichi in una dote di voti consistente, permetterà, come è nelle intenzioni di Netanyahu, una ulteriore accelerata verso uno stato che tenderà ad una emarginazione ancora maggiore della minoranza araba, non cogliendo, invece, le opportunità e le potenzialità che una maggiore integrazione poteva fornire come contributo alla pacificazione dei due popoli ed alla risoluzione del problema annoso della mancanza di una patria per il popolo palestinese. Ma questa soluzione di buon senso, che toglierebbe, tra l'altro, uno degli alibi fondamentali per l'esistenza dell'estremismo islamico, non pare essere nei programmi di chi gestisce il potere a Tel Aviv, che, al contrario, pare perseguire l'intento di aumentare il più possibile la quota di territorio da annettersi e negare con scuse sempre nuove la possibilità della creazione di uno stato palestinese. In quest'ottica i risultati del sondaggio trovano la giusta collocazione, come espressione di un popolo che vuole concedere poco o niente ai suoi più prossimi vicini, con tutte le conseguenze del caso.

martedì 23 ottobre 2012

Le sfide del nuovo esecutivo cinese

L'esecutivo che uscirà dal congresso del Partito Comunista Cinese non riserverà sorprese: da marzo, come previsto la carica di segretario del partito e di Presidente del paese sarà ricoperta dall'attuale vice presidente Xi Jinping. Ben diverse, invece, saranno le problematiche che il nuovo esecutivo sarà chiamato a risolvere, in special modo sul lungo periodo. Se la diseguaglianza sociale, il pesante tasso di corruzione, la richiesta pressante di riforme politiche e le crescenti proteste tra la popolazione, rappresentano già sfide complicate, la possibilità della fine del modello cinese di sviluppo, incentrato sulle esportazioni e gli investimenti statali, rappresenterà il nodo cruciale dell'azione di governo per Pechino. Si tratta in realtà di argomenti legati l'un l'altro a filo doppio, tuttavia senza una strategia globale azzeccata che investa tutti i settori, principalmente quello economico e sociale, il rischio di implosione del paese è molto concreto. Tralasciando gli ovvii effetti e ricadute sul computo dell'economia globale del pianeta, per la Cina diventa fondamentale risolvere alcune questioni cruciali che stanno al proprio interno e che le soluzioni intraprese possono indirizzare il paese verso il fallimento, una sopravvivenza sotto gli attuali standard o un successo contraddistinto, però, da nuove condizioni interne. Resta difficile infatti, preconizzare un mantenimento degli attuali standard di crescita senza il supporto della soluzione delle contraddizioni del paese, fino ad ora mascherate da una crescita molto elevata. Il punto nodale della questione è proprio questo, la crisi mondiale ha compresso i valori a doppia cifra di crescita economica della Cina, necessari per mantenere ed incrementare lo sviluppo di un tessuto sociale enorme per quantità, a questa diminuzione Pechino si è opposto con interventi sempre più massicci dello stato, che è il vero motore economico, tuttavia, tali interventi sono diventati eccessivi ed hanno acuito gli effetti negativi di tali politiche. La diffusione sempre maggiore della corruzione, attraverso una organizzazione vetusta del partito, che nelle periferie dello stato ha ancora connotati feudali, ha generato la dispersione delle risorse, creando forti tensioni sociali a causa della grande disparità, sia tra centro e periferia, sia tra le stesse classi sociali di medesime zone. Tali fenomeni hanno mostrato tutti i limiti delle politiche sociali del partito, incentrate sulla negazione dei diritti sindacali e sul lavoro, favoriti per permettere una industrializzazione sempre più spinta; ma se tale politica dal punto di vista economico, non certo da quello sociale e legale, poteva essere giustificata nella prima fase di insediamento delle industrie e forse anche nel periodo immediatamente successivo, ora mostra tutta la sua anti economicità. La presa d'atto della necessità di migliori condizioni lavorative è sempre più spesso alla base delle tante proteste che attraversano la nazione. Sarà questo il primo problema da risolvere per potere risolvere gli altri: elaborare una politica che tuteli i diritti del lavoro che possa conciliarsi con l'assolutismo politico al quale il Partito Comunista Cinese non vuole rinunciare. Una delle strade per mantenere un tasso di sviluppo alto è sviluppare il mercato interno in maniera massiccia, si tratta di una mercato con ancora potenzialità enormi, ma che non decolla per la scarsa redistribuzione del reddito, ancora troppo concentrato in pochi settori di popolazione e zone geografiche particolari. Risulta paradossale come un paese che si dice comunista, soffra di problemi analoghi se non identici a quelli delle economie più capitaliste del pianeta. Secondo i sostenitori delle riforme i tassi di crescita previsti entro la fine del decennio saranno intorno al 5%, tale valore non può assicurare il miglioramento degli standard di vita che la gran parte della popolazione richiede a gran voce. L'unica strada per alzare il tasso di crescita è una riforma politica radicale che comprenda l'eliminazione dei privilegi delle aziende di stato, preveda di limitare i poteri dello stato nell'economia e sappia contenere l'influenza dei gruppi monopolistici attenuandone i privilegi fino alla loro completa eliminazione per consentire di aprire mercati concorrenziali in questi settori. Si tratta di esigenze ormai ben note, che richiedono, però, riforme radicali ed anche epocali in una organizzazione statale che da sempre ha usato la prudenza, entro la propria ottica, come termine di riferimento, ma senza le quali la transizione cinese non potrà compiersi.

lunedì 22 ottobre 2012

E se vince Romney? Il possibile cambiamento delle relazioni internazionali con gli USA

Secondo gli ultimi sondaggi sulle elezioni presidenziali USA, i due candidati sarebbero sostanzialmente alla pari, con un valore per entrambi di circa il 47% di gradimento. Se Obama pare favorito tra i grandi elettori, Romney dovrebbe, invece, godere, di un maggiore consenso popolare, questo fattore segnala che il comune sentire dell'elettorato americano si sta spostando verso quei valori fondanti dell'ideologia repubblicana, che mettono al centro, oltre al liberismo nel campo economico, la volontà di affermare la supremazia americana nel mondo. Questa incertezza profonda, che ha ribaltato l'andamento delle previsioni, rappresenta un problema per il mondo intero. La percezione nel resto del pianeta, infatti, è ancora per una vittoria di Obama, che resta favorito come lo era effettivamente qualche mese fa. Su questo dato si è fermata, sia la popolazione mondiale, che praticamente la totalità dei governi. Questo vuole dire che il mondo non è preparato ad una vittoria di Romney e che tutti i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti sono ancora impostati con Obama presidente. La politica estera di Obama, pur mantenendo alcuni tratti distintivi della politica estera di Washington, ha subito un cambiamento considerevole nell'impostazione dei rapporti tra gli stati, tramite una azione contraddistinta da una azione maggiormente improntata al dialogo e spesso di secondo piano, sopratutto in quelle crisi regionali che riguardavano paesi dove la bandiera a stelle e strisce non era del tutto ben accettata. Questo non ha voluto dire smarcarsi da un impegno sul campo anche considerevole ed oneroso (si pensi alla Libia), ma lasciando la prima fila ad alleati sicuri, gli Stati Uniti di Obama hanno evitato di alimentare polemiche che potessero avere ripercussioni dirette sull'operato di Washington. Si è trattato, insomma, di un approccio totalmente nuovo, dove la maggiore propensione al dialogo, come nel caso iraniano, anche aspro, ha preso il posto dell'interventismo che ha caratterizzato le presidenze repubblicane precedenti. L'uso di strumenti alternativi all'opzione militare, come la pressione delle sanzioni, ma anche un maggiore uso delle missioni diplomatiche, hanno creato una inversione di tendenza nella politica estera americana, che si è materializzata anche su questioni meno strettamente geopolitiche, ma di uguale importanza come la materia economica, dove con la Cina, non si è mai arrivati a manovre protezionistiche in grado di complicare il movimento delle merci, sebbene inquadrate in una dialettica forte sopratutto riguardo al reale valore della moneta cinese. Anche con la Russia, antico nemico di stagioni passate, pur un interlocutore non certo democratico, il rapporto, anche se spesso contrastato non è mai trasceso fino a sfiorare crisi internazionali. La politica estera e diplomatica dell'amministrazione che sta per scadere e potrebbe non essere rinnovata, lascia un sistema di relazioni incanalate su binari ben determinati, con le strutture statali atte ad interloquire con il sistema centrale di Washington, che sono impostate su di una base di fondo che prevede un confronto delimitato da confini certi e sicuri. Ma se vincesse Romney questa costruzione diplomatica faticosamente elaborata da quattro anni di governo Obama, sarebbe completamente stravolta. Anche se il candidato repubblicano ha superato, perchè abilmente guidato, le gaffes iniziali e si dimostra maggiormente, ma non ancora sufficientemente, preparato in politica estera, i suoi intendimenti sono chiari. Le dichiarazioni, che devono comunque essere adeguatamente soppesate, vanno nella direzione opposta da quanto fatto fin qui da Obama. La volontà più volte ribadita di bombardare l'Iran e di assecondare la politica espansionistica americana, le provocazioni più volte dirette contro la Russia e l'atteggiamento minaccioso contro l'economia cinese, rivelano che la stagione del dialogo avrebbe la sua fine con l'elezione di Romney, il quale, anche se limitato dai diplomatici professionisti, che non gradiscono senz'altro questo tipo di approccio, pare indirizzare la sua politica estera verso una ripresa del protagonismo assoluto degli USA. Il ragionamento si basa sulla volontà di affermare la potenza, anche militare, americana, ma non tiene conto che negli ultimi quattro anni il mondo è profondamente cambiato ed Obama, che è meno progressista di quello che vuole fare credere, si è soltanto adattato al nuovo scenario. Se Romney non comprende, come pare, questo cambiamento si dovrà assistere ad una serie continua di tensioni diplomatiche, che potranno mettere a dura prova le relazioni degli Stati Uniti, indirizzando sforzi verso obiettivi anacronistici e di difficile realizzazione. Tuttavia, ciò che preoccupa è se le cancellerie mondiali saranno attrezzate a sufficienza per ammortizzare questa nuova possibile tendenza. L'impreparazione potrebbe generare reazioni di conseguente difficile gestione, che potrebbero andare a paralizzare diverse relazioni bilaterali con gli USA, creando ricadute sopratutto nell'economia e nella finanza che potrebbero ripercuotersi sul bilancio generale di un mondo sempre più globalizzato, dove gli effeti di un atto compiuto ad una latitudine si propagano alle altre con una velocità imbarazzante. Mancano soltanto poco più di due settimane alle elezioni ed è augurabile che tutti, ma proprio tutti gli stati, elaborino strategie alternative al rapporto con gli USA.