Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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giovedì 30 giugno 2011
Cina: 90 anni di Partito Comunista
La Cina festeggia i primi novanta anni del Partito Comunista. Fondato a Shangai nel 1921 il Partito Comunista cinese guida la nazione più popolosa del mondo dal primo ottobre 1949, quando Mao Tse-Tung proclama la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Nel periodo della sua vita il partito comunista più grande del mondo, attualmente sono circa ottanta milioni i cittadini cinesi con la sua tessera in tasca, ha mantenuto il potere in virtù di una ferrea censura interna e senza indulgere alle posizioni più critiche, stroncandole con metodica violenza. Il dominio sulla società ha assicurato l'esercizio di un potere decisionale totale, che sta alla base della crescita a due cifre del paese. Nonostante le sue dimensioni gigantesche, il partito è comunque una elite in un paese di un miliardo e trecento milioni di persone, ed il suo incremento si aggira sui tre milioni di nuovi tesseramenti annuali a fronte di ventuno milioni di domande d'ammissione. Dato il grande potere di indirizzo del partito, l'ingresso al suo interno è visto attualmente come ascensore sociale in un contesto che richiede la benedizione della casta dominante anche in questo momento di industrializzazione spinta. E' questo l'aspetto più rilevante del panorama internazionale ed anche storico: una contraddizione in termini, dove il partito che più dovrebbe difendere i diritti dei lavoratori è invece lo strumento che ne garantisce la maggiore oppressione in nome di un processo di crescita nazionale sbilanciato a sfavore della manodopera. Lo sfruttamento della forza lavoro è maturato in un contesto di censura ma anche di corruzione, il male che più affligge il partito. Sopratutto nelle province più lontane dell'impero cinese, il potere dell'organizzazione partitica fa sentire ancora maggiormente il suo peso con indirizzi arbitrari e speculativi, che generano proteste e disordini spesso soffocati nel sangue, oltre che nel silenzio. Per i dirigenti cinesi questo anniversario è l'occasione di enfatizzare al massimo l'evento per mettere a tacere l'opposizione interna e fare apparire all'esterno un paese coeso, capace di marciare come un solo uomo. Tuttavia l'organizzazione parallela alle feste ed alle parate, ha preso le misure contro possibili manifestazioni di dissenso, blindando intere zone, come il Tibet, all'ingresso degli occidentali. La Cina, più volte ripresa da altre nazioni ed organizzazioni internazionali, vuole dimostrare con questi festeggiamenti l'unità nazionale, rivendicando la legittimità dei propri ordinamenti, ma essendo ben conscia di non potere sfondare sul piano internazionale senza assicurare quella dose minima di diritti di base al proprio popolo. Allora l'autocelebrazione del partito cinese serve a fortificare quella coscienza interna che giustifica l'autoreferenzialità del potere di fronte alla massa intera del popolo. In realtà dimostra anche la propria debolezza e l'incapacità di reagire, se non con mezzi antiquati, al vento modernizzatore che da tempo striscia nel paese, sebbene alimentato ancora da una minoranza.
martedì 28 giugno 2011
Le sfide della presidenza polacca
Sul tavolo delle questioni chiave che accompagneranno la presidenza polacca alla UE vi sono la ricerca di unitarietà nell'azione diplomatica, che sarà messa a dura prova a settembre con la questione del riconoscimento dello stato palestinese, e la necessità di una forza armata europea capace di sostenere, nei casi necessari, l'azione diplomatica. La questione militare non è nuova ed è all'origine del dibattito fra i fautori della necessità di una struttura militare sovranazionale per adempiere alle necessità comunitarie ed i sostenitori dell'esclusivo monopolio della forza da parte delle singole nazioni, perchè con funzioni esclusivamente difensive. Questa interpretazione parte da ragioni totalmente condivisibili, ma pensate in tempi differenti da quelli attuali, caratterizzati da minore velocità dello scorrere degli eventi, sostanzialmente con posizioni più cristallizzate. La mutazione dello scenario internazionale, con emergenze dilaganti impone un ripesamento dell'impostazione della difesa europea e del suo ruolo. Non occorre dire che alcun esercito straniero tenterà di invadere la UE o singoli stati suoi componenti, ma l'importanza del fattore diplomatico, peraltro da sempre rivendicato dall'Europa, appare zoppo senza il sostegno della gamba rappresentata dalla forza militare. Si tratta di creare una forza armata sovranazionale capace di operare in ambito umanitario, innazitutto una forza di primo intervento capace di interporsi tra fazioni in combattimento per tutelare la popolazione civile ed intanto permettere alla diplomazia di lavorare alle soluzioni più adatte. Senza questo sostegno l'azione diplomatica, per i casi necessari, risulta notevolmente più difficoltosa ed oltremodo lenta. Ma l'azione diplomatica ha anche la necessità di essere univoca e non ambigua, presa in contropiede dall'incalzare degli avvenimenti la politica estera europea è apparsa divisa e frammentata, con azioni spesso in contrasto prese dai singoli stati. E' invece necessario dare unitarietà per acquisire autorevolezza di fronte al mondo, la UE non è più una etichetta di garanzia, che basta da sola per garantire il prodotto diplomatico sulla scena internazionale, ma necessità di un indirizzo univoco, sostenuto da una chiara azione di politica estera. Settembre srà un banco di prova fondamentale per l'indirizzo che verrà assunto di fronte alla questione palestinese, ma da subito la presidenza polacca dovrà sapere dare unitarietà davanti alla guerra libica, alla questione siriana oltre che sapere dare tutto il sostegno necessario allo sviluppo democratico in Tunisia ed Egitto. L'augurio è che si sia preso coscenza della necessità per la UE di ritornare protagonista, senza ripetere gli errori più recenti.
lunedì 27 giugno 2011
Polonia presidente di turno della UE
Dal primo luglio prossimo, il quarto paese ex comunista, la Polonia, assumerà la presidenza della UE. Il momento di avvicendamento alla spenta presidenza ungherese è particolarmente difficile perchè deve affrontare situazione contingenti particolarmente gravose. L'agenda presidenziale polacca dovrà affrontare, sul piano interno, la questione economica, con particolare attenzione alla crisi greca, cercando di preservare al massimo l'unità continentale, sollecitata in maniera dura dalle spinte localistiche, legate proprio alla difficile gestione della prolungata crisi economico finanziaria. Ma non basterà gestire l'emergenza, compito di per se già arduo, giacchè occorrerà pensare a politiche di sviluppo nuove, che permettano, cioè, di ricostruire e rivitalizzare il tessuto connettivo dell'unione. Il presidente Tusk intende accelerare ed incrementare la libera circolazione delle merci, puntando sulle nuove tecnologie, come motore propulsivo del commercio comunitario. Particolare attenzione verrà senz'altro data allo sviluppo commerciale verso i paesi ex URSS, che possono già vantare notevoli collaborazioni con la UE. Sul piano internazionale l'Europa dovrà riconquistare la sua primaria importanza nel contesto diplomatico, impegnandosi ad una maggiore incisività e sopratutto velocità negli interventi non militari, per favorire vie d'uscita non cruente dalle difficili situazioni in corso. Puntare sull'abilità diplomatica ed ottenere successi tangibili, potrà consentire alla UE di trattare da posizioni di ritrovata forza. E' chiaro che il ruolo preminente della presidenza polacca sarà di cercare la massima unitarietà, sia dal punto di vista politico, che normativo, rendendo più snelle le procedure decisionali, sopratutto in tema di politica estera. I recenti tentennamenti sulla crisi libica, hanno depotenziato la forza dell'apparato diplomatico europeo, che va senz'altro rivisto in un'ottica di maggiore coinvolgimento nelle vicende internazionali. La sensazione di apparente distacco e trattamento burocratico delle crisi internazionali, va rivista in maniera da consentire al mondo la percezione di un coinvolgimento fattivo e di grande livello risolutivo. In questo quadro la creazione di una fondazione europea per la democrazia, come caldeggiato da Tusk, può essere solo il primo passo per muoersi nella giusta direzione.
Hezbollah trasferisce i suoi arsenali dalla Siria
Nonostante la repressione e la mancanza di notizie dovuta alla censura di Damasco, si è presentato un elemento nuovo, che può dare una indicazione di come procede la rivolta siriana. Sono infatti iniziate grandi manovre per spostare in Libano i depositi degli arsenali di armamenti convenzionali e missilistici, presenti sul suolo siriano, appartenenti alla milizia scita Hezbollah. La fornitura di questi armamenti proviene esclusivamente dall'Iran, che ha sempre usato, con il beneplacito del governo di Assad, la Siria come piattaforma logistica per rifornire e stoccare gli arsenali per Hezbollah, nel quadro della lotta allo stato di Israele. Il fatto che sia iniziato il trasferimento delle armi, tra cui missili di importanza strategica, non può che significare il fatto, che sia Hezbollah, ma sopratutto l'Iran, temano concretemente la fine del regime di Assad. Intanto continua la feroce repressione che ha visto ancora una volta i cecchini governativi sparare sulla folla, ma questo è l'ennesimo segnale della mancanza di una soluzione alla crisi interna. Quello che filtra è che la nazione è in preda all'instabilità e fino ad ora a nulla è valsa l'insistita azione militare, messa in campo da Assad per riprendere in mano la situazione. Quello che si presenta è un ventaglio di possibilità molto ampio, ma la manovra di Hezbollah contempla la reale possibilità che il regime perda il potere. In quest'ottica apparirebbe reale l'azione sottotraccia di potenze occidentali, non come innesco della rivolta, ma come aiuto successivo per portare al potere in Siria le forze di opposizione. La reale posizione chiave della Siria, guadagnata all'occidente, o almeno più vicina alla Turchia, membro NATO, sarebbe un colpo mortale per la strategia iraniana nella regione e porterebbe il movimento Hezbollah al totale isolamento: in un colpo l'assetto geostrategico della regione cambierebbe a favore dll'occidente, permettendo di affrontare la questione palestinese, sopratutto per gli USA, con maggiore calma e con minore assillo per la difesa militare di Israele. L'occasione pare unica per lasciarla sfuggire, ma è necessaria una operazione diplomatica sul filo del rasoio per ricucire i rapporti compromessi tra Ankara e Tel Aviv; il ragionamento pare, però possibile, solo su tempi medi perchè richiede l'avverarsi di una serie di condizioni che solo potenzialmente sono in divenire. Tuttavia il segnale del trasferimento degli arsenali militari di Hezbollah sembra essere motivo di accelerazione verso la definizione della situazione.
sabato 25 giugno 2011
Considerazioni sul ritorno delle frontiere interne della UE
Con la reintroduzione del controllo interno di frontiera nei pesi dell'area di Schengen, la UE compie un passo indietro nel processo unificatore che dovrebbe portare al compimento degli Stati Uniti d'Europa. E' bastata l'emergenza libica per fare crollare quello che era un castello di carte, fondato sull'acquisto, in moneta sonante, della collaborazione dei dittatori della sponda sud del Mediterraneo, che assicuravano il contingentamento dell'emigrazione, con metodi spesso violenti. Alla fine la politica europea sul problema migratorio era tutta così condensata: un puzzle non organizzato di misure tampone, costruito indipendentemente stato per stato, con modalità spesso in contrasto. Quello che è emerso è tragico per le legittime speranza dei popoli europei, che hanno governi nazionali incompetenti e strutture sovranazionali inette. Se un colosso come l'Europa non riesce a trovare un piano di intesa, che non sia la chiusura e l'irrigidimento, per un problema epocale come l'emigrazione vuole dire che ha i piedi d'argilla. Ma il problema costituisce un segnale che va ancora oltre perchè significa che si sta affermando sempre più la tendenza frammentatrice su quella aggregatrice e ciò, se non vuole dire fine sicura, va nella direzione di una profonda diminuzione della spinta unificatrice europea. Quello che sta succedendo è l'apertura di una breccia, che se non sarà subito richiusa, può provocare un diverso atteggiamento su altri temi cruciali per la vita dell'Europa. Ma questo è anche un risultato figlio delle tendenze politiche localistiche e xenofobe, che stanno condizionando le nazioni europee, non è un caso, infatti, che il provvedimento sia partito da Francia ed Italia, paesi in eterna vigilia elettorale, dove il partito di Marine Le Pen e la Lega Nord, esercitano sui governi in carica pressioni molto forti, tali da condizionarne l'azione politica. Per converso, significa anche, che la UE non ha la forza necessaria e neppure gli strumenti per contrastare queste spinte endogene che lavorano per allontanare lo spirito unificatore. L'errore dei legislatori europei è stato quello di non cogliere la nascita di queste esigenze localistiche fin dalla loro nascita ed operare per ricondurle all'interno dell'alveo europeo, valorizzandone i contenuti positivi, come la salvaguardia delle tradizioni, ma senza essere in grado di smorzare gli eccessi negativi come la paura del diverso; anzi in alcuni casi è stata proprio l'istituzione comunitaria a fare in modo di essere percepita come ostacolo al mantenimento delle particolarità locali, ma viceversa, di essere un fattore di omologazione proveniente dall'alto. Si è mantenuto un atteggiamento burocratico quando i tempi consentivano una certa tranquillità per affrontare un cambiamento graduale, ma il tempo è passato invano e le situazioni contingenti come le crisi economiche ed i cambiamenti epocali delle primavere arabe si sono abbatuti in maniera che i lenti tempi di risposta della UE non potessero elaborare una risposta adeguata.
venerdì 24 giugno 2011
Il ritiro USA: una vittoria talebana?
Il repentino ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan pone
interrogativi e domande sul futuro di Kabul. Intanto il primo effetto provocato è il ritiro, in numero proporzionale ai militari USA dei soldati delle truppe francesi. Si sta operando un abbandono del paese? Per certi versi la ritirata americana è paragonata al sistema adottato trent'anni prima dai sovietici, che con il loro abbandono hanno provocato la guerra civile ed il conseguente insediamento dei talebani, con la conseguente dittatura islamica. E' pur vero, che quello che lascia Obama è una nazione con maggiori anticorpi contro il verificarsi di quella ipotesi, tuttavia la struttura messa in piedi per favorire il passaggio alla democrazia di Karzai, non pare ancora completamente autonoma per regggere possibili attacchi alla sua integrità. Il pericolo maggiore riguarda i territori al confine con il Pakistan, che non sono stati completamente bonificati e dove i talebani hanno, di fatto, messo in piedi una struttura parallela a quella ufficiale di Kabul. Ora, se il ritiro americano, in primis, ed occidentale, di conseguenza, significa che l'Afghanistan non è più ritenuto una fonte di pericolosità per il mondo occidentale e si ritiene che i pericoli del terrorismo, per i quali è stata iniziata la guerra, siano del tutto finiti, lo sganciamento dall'operazione afghana, ha una qualche giustificazione, anche se rimangono dei dubbi legittimi sulla reale risoluzione del problema. Se, invece, l'obiettivo era sanificare del tutto la nazione afghana e portarla in un alveo di democrazia compiuta, allora il ritiro avviene in anticipo sulla realizzazione del progetto. Occorre prestare attenzione, perchè alla fine i due obiettivi, alla fine, sono lo stesso. Si può dire di non temere più il terrorismo talebano e nello stesso tempo lasciare parte del paese agli integralisti islamici? Si può credere che, allora, la reale intenzione di una guerra sanguinosa, sia stata la sconfitta totale del terrorismo proveniente dall'Afghanistan? Se la risposta a queste due domande è positiva, il significato più profondo è che gli USA escono da Kabul con una mezza sconfitta. E' vero che Obama si è ritrovato a gestire una cosa non iniziata da lui e che uno dei suoi obiettivi elettorali era proprio il ritiro dei soldati USA, ma se si guarda la situazione da un punto di vista più alto, la questione riguardava l'intero mondo occidentale ed il suo rapporto con il terrorismo islamico. In quest'ottica non si può parlare di missione compiuta, ma di un risultato abborracciato che lascia la questione in sospeso. Il dato finale è che la soluzione tanto cercata non è stata trovata, nonostante l'ingente investimento economico ed umano. Non vi è, cioè, la sicurezza che il terrorismo talebano non rialzi la testa e torni a colpire quell'occidente che viene visto come invasore sconfitto, come fu per l'Armata Rossa.
interrogativi e domande sul futuro di Kabul. Intanto il primo effetto provocato è il ritiro, in numero proporzionale ai militari USA dei soldati delle truppe francesi. Si sta operando un abbandono del paese? Per certi versi la ritirata americana è paragonata al sistema adottato trent'anni prima dai sovietici, che con il loro abbandono hanno provocato la guerra civile ed il conseguente insediamento dei talebani, con la conseguente dittatura islamica. E' pur vero, che quello che lascia Obama è una nazione con maggiori anticorpi contro il verificarsi di quella ipotesi, tuttavia la struttura messa in piedi per favorire il passaggio alla democrazia di Karzai, non pare ancora completamente autonoma per regggere possibili attacchi alla sua integrità. Il pericolo maggiore riguarda i territori al confine con il Pakistan, che non sono stati completamente bonificati e dove i talebani hanno, di fatto, messo in piedi una struttura parallela a quella ufficiale di Kabul. Ora, se il ritiro americano, in primis, ed occidentale, di conseguenza, significa che l'Afghanistan non è più ritenuto una fonte di pericolosità per il mondo occidentale e si ritiene che i pericoli del terrorismo, per i quali è stata iniziata la guerra, siano del tutto finiti, lo sganciamento dall'operazione afghana, ha una qualche giustificazione, anche se rimangono dei dubbi legittimi sulla reale risoluzione del problema. Se, invece, l'obiettivo era sanificare del tutto la nazione afghana e portarla in un alveo di democrazia compiuta, allora il ritiro avviene in anticipo sulla realizzazione del progetto. Occorre prestare attenzione, perchè alla fine i due obiettivi, alla fine, sono lo stesso. Si può dire di non temere più il terrorismo talebano e nello stesso tempo lasciare parte del paese agli integralisti islamici? Si può credere che, allora, la reale intenzione di una guerra sanguinosa, sia stata la sconfitta totale del terrorismo proveniente dall'Afghanistan? Se la risposta a queste due domande è positiva, il significato più profondo è che gli USA escono da Kabul con una mezza sconfitta. E' vero che Obama si è ritrovato a gestire una cosa non iniziata da lui e che uno dei suoi obiettivi elettorali era proprio il ritiro dei soldati USA, ma se si guarda la situazione da un punto di vista più alto, la questione riguardava l'intero mondo occidentale ed il suo rapporto con il terrorismo islamico. In quest'ottica non si può parlare di missione compiuta, ma di un risultato abborracciato che lascia la questione in sospeso. Il dato finale è che la soluzione tanto cercata non è stata trovata, nonostante l'ingente investimento economico ed umano. Non vi è, cioè, la sicurezza che il terrorismo talebano non rialzi la testa e torni a colpire quell'occidente che viene visto come invasore sconfitto, come fu per l'Armata Rossa.
giovedì 23 giugno 2011
La Siria in difficoltà sul piano internazionale
La Siria contrattacca sul piano diplomatico. La pressione internazionale sul regime siriano, dovuta alle feroci repressioni, provoca un'alzata di scudi da parte del capo della diplomazia siriana, il ministro degli esteri Walid al Mualem. La tesi del complotto ai danni del regime è la spiegazione prevalente che viene data dal ministro: agenti europei, di nazioni non bene identificate, starebbero dietro alle manifestazioni che vogliono rovesciare Assad. Inoltre anche Al Qaeda si sarebbe mossa nelle stessa direzione. E' chiaro che la teoria del ministro fa acqua ed è una contraddizione in termini. Ipotizzare, seppure in maniera velata, una alleanza tra il movimento terroristico più estremo ed emissari europei è veramente un tentativo maldestro, che svela la confusione che regna nell'apparato amministrativo di Damasco. Il ministro degli esteri siriano contrasta anche la tesi europea che richiede un cambio nelle leggi del paese con il fatto che il presidente Assad starebbe per dare il via ad un cambio effettivo nella costituzione del paese e giustifica le repressioni con il tentativo governativo di mantenere l'ordine e la legalità nel paese. Quello che appare, dai confusi tentativi della burocrazia siriana, è il tangibile timore di un pericoloso isolamento, dovuto principalmente alla pressione turca, che h oramai portato il paese a essere nel centro delle discussioni delle cancellerie internazionali, anche più della stessa guerra libica. Per Damasco si tratta di una situazione totalmente nuova da gestire, come difatti, mostrano gli scarsi risultati. La Siria non è abituata a vedere mostrati sulla piazza internazionale i propri fatti interni, forte di uno storico controllo rigidissimo sui mezzi di comunicazione; ma ora anche Assad pare vittima di internet, che garantisce all'opposizione strumenti di comunicazione totalmente nuovi e che possono sfuggire al controllo della censura. E' stata proprio la congiuntura portata dai mezzi di comunicazione con la crisi economica il fattore scatenante dell'attuale situazione siriana. Per l'ONU e l'occidente è il momento di schiacciare sull'acceleratore delle sanzioni per dare speranza a chi combatte per la presenza della democrazia in Siria.
mercoledì 22 giugno 2011
Cresce il numero dei rifugiati
Sale il problema dei rifugiati nel mondo. Le guerre, le carestie ed i disastri naturali sono la causa dello sviluppo esponenziale del numero dei richiedenti asilo, ma la pressione maggiore a cui le nazioni sono sottoposte, dalle masse dei rifugiati, contrariamente a quanto si crede non è nei paesi industrializzati, il cosi detto primo mondo, ma nei paesi in via di sviluppo. E' significativo registrare che i maggiori paesi che danno rifugio sono: Pakistan, Iran e Siria, ed anche considerando un rapporto di rifugiati con il reddito per abitante, i paesi in via di sviluppo sono notevolmente avanti rispetto al mondo industrializzato. Lo scenario che si para davanti ad un osservatore attento, presenta subito uno squilibrio di grande portata, i paesi ricchi non fanno molto per risolvere il problema. Non solo, inoltre hanno messo tutti in piedi, indiscriminatamente, sistemi legali atti ad ostacolare ed ostracizzare l'ingresso dei rifugiati all'inerno dei loro territori. Si tratta, evidentemente, di un modo di preservare risorse e livello di vita, in un momento di grossa crisi economica, non sacrificando alcuna parte di reddito per dare aiuto. Anzi, l'incremento del successo elettorale di partiti e formazioni che coprono un ampio spettro, che va dal localismo fino alla xenofobia più marcata, hanno accentuato questa modalità di esclusione. Ma è irreale che paesi più poveri, affetti da problemi endemici di carenza strutturale, con povertà conclamata, possano farsi carico della gran parte della massa dei rifugiati. La prima ragione dello stato di cose attuale è una impreparazione storica dei paesi ricchi, che hanno vissuto prima da colonizzatori materiali, poi da sfruttatori economici dei paesi poveri, senza mai porsi la questione che la storia avrebbe, prima o poi presentato il conto, si è trattato di andare avanti su uno stato di cose sedimentato e stratificato che non ha mai creato nei governi una mentalità di gestione dell'accoglienza; a questa mancanza si è cercato di supplire con strategie improvvisate, fino alla chiusura di questi ultimi tempi, vista come soluzione alla loro stessa incapacità. La seconda ragione, è figlia della prima, la mancanza di capacità di governare il fenomeno da partae delle organizzazioni sovranazionali è dovuta al fatto, che gli organi di comando e controllo sono composti, in maggior parte da rappresentanti dei paesi ricchi, così il cane si morde la coda. D'altro canto questi paesi sono i maggiori finanziatori degli enti sovranazionali e così il cerchio si chiude. La soluzione immediata non esiste, ma è chiaro che la situazione sta diventando di una portata difficilmente ancora gestibile, senza un adeguato coordinamento, ma sopratutto con uno stravolgimento nella modalità di affrontare le cose, la bomba a tempo non può che scoppiare
martedì 21 giugno 2011
USA: ritiro anticipato da Kabul e posibili sviluppi
L'approssimarsi, sempre più veloce, delle elezioni americane, accelera il ritiro anticipato degli USA, dalla guerra afghana. Obama ha bisogno di mietere consensi in maniera esponenziale e raggiungere l'obiettivo di un ritiro anticipato può significare la mossa decisiva in chiave elettorale. Gli USA non negano neppure più l'evidenza, come fatto fino ad ora, di avere in corso trattative con i talebani, per arrivare ad una qualche conclusione. Il fatto che non vi sia più alcun tipo di rammarico nell'ammettere le relazioni ufficialmente con i peggiori nemici, significa che la necessità di uscire dal pantano afghano si è fatta più pressante. Obama deve comunque combattere su più fronti, non solo quello elettorale, sganciarsi da Kabul, significa anche liberare risorse, sia logistiche che economiche, per affrontare le nuove emergenze che si affacciano sullo scacchiere. Non è un caso che la questione palestinese sia costantemente monitorata. L'amministrazione USA, pur essendo il principale alleato di Israele potrebbe dovere intervenire come forza di dissuasione, oltre che di protezione, proprio nei confronti di Tel Aviv, se la situazione dovesse degenerare, anche grazie ai nuovi assetti del mondo arabo. Inoltre lo scenario siriano, cui dietro sta l'Iran ed il conseguente atteggiamento della Turchia, membro della NATO, potrebbero richiedere forme di intervento da valutare.
lunedì 20 giugno 2011
Isrele mette in pericolo il rattato di Oslo
Israele ha paura del riconoscimento dell'ONU per la Palestina. Mentre si avvicina la data della discussione per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, Tel Aviv teme che il processo di riconoscimento internazionale inneschi una azione irreversibile che la costringa ad una trattativa da posizione di svantaggio. La battaglia per ora è tutta diplomatica, ma Israele mostra un timore significativo e si agita come una belva ferita. La minaccia di disconoscere il trattato di Oslo, segna un punto critico fino ad ora mai raggiunto. Intanto brilla il silenzio USA, che pur lavorando sottotraccia, sul piano pubblico ostenta una distanza che ha una sola valenza: Israele non gode dell'appoggio del suo maggior alleato sullka questione. Il governo in carica a Tel Aviv sta isolando il paese in un momento particolarmente delicato, i sommovimenti politici ai suoi confini consiglierebbero una tattica contrassegnata da maggiore cautela, ma la direzione presa va nel senso opposto. Stressare la situazione sul piano internazionale, può costringere l'intera scena a schierarsi dalla parte della Palestina, che in fondo richiede, solo un riconoscimento internazionale, praticamente a costo zero. La strategia rigida di Israele non può che essere perdente, sia che la Palestina ottenga il riconoscimento, sia che non l'ottenga, in questo secondo caso l'atto formale sarà solo rinviato, ma la discussione che ne potrebbe discendere potrebbe provocare danni ancora maggiori per Tel Aviv, come dimostra la pressione di questi giorni di soggetti sovranazionali come la Lega araba. Ad un osservatore esterno appare lampante come il riconoscimento palestinese, sia ormai un atto dovuto e costituisca un primo fondamentale passo nel processo di pacificazione. Il problema, a questo punto è che il governo in carica in Israele non voglia realmente regolare le cose, ma se così fosse sarebbe meglio chiarirlo del tutto, con tutte le conseguenze del caso. Infatti anche sul fronte interno l'opposizione sta montando e la partita è ancora tutta aperta.
Isrele mette in pericolo il rattato di Oslo
Israele ha paura del riconoscimento dell'ONU per la Palestina. Mentre si avvicina la data della discussione per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, Tel Aviv teme che il processo di riconoscimento internazionale inneschi una azione irreversibile che la costringa ad una trattativa da posizione di svantaggio. La battaglia per ora è tutta diplomatica, ma Israele mostra un timore significativo e si agita come una belva ferita. La minaccia di disconoscere il trattato di Oslo, segna un punto critico fino ad ora mai raggiunto. Intanto brilla il silenzio USA, che pur lavorando sottotraccia, sul piano pubblico ostenta una distanza che ha una sola valenza: Israele non gode dell'appoggio del suo maggior alleato sullka questione. Il governo in carica a Tel Aviv sta isolando il paese in un momento particolarmente delicato, i sommovimenti politici ai suoi confini consiglierebbero una tattica contrassegnata da maggiore cautela, ma la direzione presa va nel senso opposto. Stressare la situazione sul piano internazionale, può costringere l'intera scena a schierarsi dalla parte della Palestina, che in fondo richiede, solo un riconoscimento internazionale, praticamente a costo zero. La strategia rigida di Israele non può che essere perdente, sia che la Palestina ottenga il riconoscimento, sia che non l'ottenga, in questo secondo caso l'atto formale sarà solo rinviato, ma la discussione che ne potrebbe discendere potrebbe provocare danni ancora maggiori per Tel Aviv, come dimostra la pressione di questi giorni di soggetti sovranazionali come la Lega araba. Ad un osservatore esterno appare lampante come il riconoscimento palestinese, sia ormai un atto dovuto e costituisca un primo fondamentale passo nel processo di pacificazione. Il problema, a questo punto è che il governo in carica in Israele non voglia realmente regolare le cose, ma se così fosse sarebbe meglio chiarirlo del tutto, con tutte le conseguenze del caso. Infatti anche sul fronte interno l'opposizione sta montando e la partita è ancora tutta aperta.
sabato 18 giugno 2011
L'Italia ancora in Libia?
La riunone del partito della Lega Nord, componente del governo italiano, potrà decidere le prossime mosse della politica estera italiana. Una delle minacce principali, dopo le sconfitte nelle elezioni delle amministrative e dei referendum, è stata quella di togliere i fnanziamenti per la guerra in Libia, alla quale l'Italia partecipa nella coalizione dei volenterosi. Quale membro della NATO, Roma è stata praticamente obbligata a partecipare, ma con scarsa convinzione ed i maggiori oppositori erano proprio nelle fila della Lega Nord. Il risultato elettorale negativo ha accelerato la situazione, la Lega pensa che per recuperare il suo elettorato perduto, uno dei mezzi sia proprio il taglio delle spese militari contingenti, per girare la voce di bilancio verso capitoli più spendibili in chiave elettorale. Non è un mistero che proprio dalla base del partito siano arrivati ripetuti solleciti per un uso più oculato delle risorse. Questo gesto sarebbe significativo in chiave interna, ma condannerebbe il già compromesso prestigio internazionale del bel paese. Un'Italia che si ritira dalla coalizione, per meri problemi elettorali, scivolerebbe nel punto più basso della propria credibilità. La questione è importante, sopratutto se si pensa che con la Libia, il rapporto italiano è privilegiato, abbandonare la contesa vorrebbe dire precludersi ogni futuro rapporto con un nuovo governo nato dalla parte ribelle. Inoltre sono sul piato i rapporti con gli USA, che non tollererebbero uno sganciamento repentino. Per Berlsconi il problema è scottante, si trova letteralmente tra l'incudine ed il martello.
giovedì 16 giugno 2011
L'asse Mosca-Pechino
"La comunità internazionale può portare un aiuto significativo per non lasciare deteriorare la situazione, ma nessuna forza straniera si deve ingerire negli affari interni delle nazioni". Questa è la dichiarazione congiunta di Russia e Cina, sottoscritta da Dmitri Medvedev e Hu Jintao, durante la visita del premier cinese a Mosca. I due paesi sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU e la dichiarazione rappresenta più di una dichiarazione di intenti, si tratta di una pietra tombale quasi definitiva, sulle speranze di risolvere, per via militare, tramite la benedizione dell'ONU, le crisi che si stanno man mano affacciando nel teatro internazionale. Cina e Russia auspicano l'adozione di mezzi che passino solo per la via pacifica per risolvere i conflitti. E' palese che questo mezzo sia il migliore ma non sempre la via del negoziato pare percorribile. D'altra parte la dottrina abbracciata da Cina e Russia, riguardo alla politica internazionale, non contempla, come già molte volte ribadito, l'ingerenza degli affari interni dei paesi coinvolti. La posizione non è contestabile e rappresenta un legittimo modo di rapportarsi con altri stati, d'altro canto, però, il veloce cambiamento degli assetti del panorama internazionale, impone anche, specialmente alle organizzazioni internazionali, ed in particolar modo all'ONU, una risposta che richiede sempre di più il requisito della rapidità. Talvolta bloccare in lunghe ed estenuanti trattative, situazioni particolarmente e potenzialmente esplosive può essere molto pericoloso. La conseguenza immediata di questa decisione sino-russa, sarà l'impossibilità di ricorrere all'ombrello ONU, come copertura dell'intervento militare, ciò provocherà, se e quando si renderà necessario, che i protagonisti dovranno agire in proprio. Questo fatto renderà senz'altro più complicate le relazioni internazionali e si porrà sempre più frequentemente la domanda sull'utilità della stessa ONU. Infatti l'atteggiamento di Pechino e Mosca blocca sul nascere lo spazio di manovra militare delle Nazioni Unite. Con questo fatto non sembra più rinviabile una riforma dell'ONU, come già richiesto dalla Merkel, in modo da garantire una indipendenza politica e di manovra effettiva.
L'ONU denuncia la Siria
L'ONU denuncia pubblicamente la repressione siriana. Sono state infatti arrivate numerose denunce, riguardo a torture ed uccisioni, presso l'ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite. A rivolgersi all'ufficio dell'ONU sono stati diversi testimoni e molte vittime delle forze di sicurezza siriane. Secondo queste denunce i morti sarebbero 1.100 ed i detenuti oltre 10.000. Tra i morti numerosi si contano i donne e bambini. L'accanimento delle forze siriane è stato tale anche verso i feriti, impedendo loro di essere soccorsi e curati dal personale medico. Il regime siriano ha colpito diversi civili disarmati mediante l'uso di cecchini posti sui tetti di palazzi pubblici in zone molto popolate. Negli ultimi giorni sono entrati in azione anche elicotteri, che hanno colpito dal cielo, specialmente nella città di Jisr al Shughur. Intanto continua la fuga verso il territorio turco di diversi profughi siriani, che sono costretti alla fuga per potere salva la vita. Sul fronte dell'informazione continua il divieto del regime per i giornalisti stranieri, che non possono documentare le violenze di Assad. Nel frattempo, a Damasco il governo ha organizzato una manifestazione imponente di sostegno al regime, richiamando nelle vie principali un gran numero di persone. La strategia del governo siriano è di addebitare la situazione del paese a gruppi terroristici che agirebbero su ispirazione straniera. La presa ufficiale dell'ONU pone ora la Siria in una posizione più scomoda, perchè pone all'attenzione del Consiglio di sicurezza la situazione nel paese. Pare, tuttavia, difficile che si arrivi, nell'immediato, ad una risoluzione che preveda l'uso della forza, come per la LIbia. Russia e Cina, già bruciate, per la loro astensione, che ha garantito l'intervento militare, sono sempre più restie ad entrare nelle sfere di interesse interno di altri stati ed il prolungato impegno libico delle forze occidentali, non fa che giocare a favore del regime di Assad.
martedì 14 giugno 2011
Hezbollah al governo in Libano
Hezbollah è il socio di maggioranza del nuovo governo del Libano. La notizia risulta a tutti gli effetti un grosso intralcio per la pace e la stabilità sia del paese che della regione. Hezbollah è presente nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dagli USA e dalla UE. Il movimento rappresenta una milizia armata di orientamento scita. Significativo che il primo governo estero a presentare le proprie felicitazioni sia stato quello siriano, direttamente per bocca del Presidente Assad. Nonostante le dichiarazioni di prassi, che hanno affermato l'unitarietà del governo come esecutivo di tutto il popolo libanese, è da subito apparso evidente, che quello costruito non è un organo amministrativo rappresentante di tutte le parti, sopratutto religiose del paese, ed infatti immediatamente dopo la dichiarazione dell'insediamento, si sono registrati disordini ad opera, sopratutto delle minoranze religiose, che non si sono sentite abbastanza rappresentate. Quello che si prospetta è un paese con un governo allineato sulle posizioni oltranziste iraniane, nemico dichiarato di Israele e filo siriano. Sul piano interno vi è il concreto pericolo che il Libano possa rivivere le cruente lotte intestine che hanno contrassegnato il suo recente passato. Le dimostrazioni scattate subito dopo l'insediamento del governo, rischiano di essere solo un piccolo assaggio del confronto che si potrà scatenare. Difficile credere che Hezbollah non cederà al metodo, per forza di cose, di usare il pugno di ferro contro ogni forma di opposizione. Ma è sul piano internazionale che si sollevano ancora maggiori preoccupazioni: l'andamento della repressione siriana, dove elementi di Hezbollah sono stati segnalati, insieme con i Pasdaran iraniani, come feroci interpreti del duro metodo di Assad contro i civili oppositori, il crescente protagonismo iraniano sul teatro regionale, che di Hezbollah è finanziatore, ed infine il rigido atteggiamento israeliano sul tema della creazione dello stato palestinese, rischiano di essere componenti micidiali di un cocktail, cui si aggiunge il governo Hezbollah in Libano, che ha tutte le premesse per causare l'esplosione della situazione dell'intera situazione medio orientale. Lo scenario che si prefigura per il Libano è quello di andare verso una alleanza sempre più stretta con Siria ed Iran, in un abbraccio mortale per il paese dei cedri. E' inevitabile a questo punto che Israele ed USA ammassino sempre più armamenti sulle frontiere di Tel Aviv e paradossalmente, anche e nonostante i conflitti sotterranei che corrono tra americani ed israeliani, per lo stato palestinese, Hezbollah al governo del Libano, può essere un fattore di riavvicinamento tra le due amministrazioni, perchè nemico conclamato dei due stati.
lunedì 13 giugno 2011
La Turchia pensa ad un intervento militare in Siria
La Turchia starebbe considerando l'opzione militare al proprio confine con la Siria. A causa delle pesanti ritorsioni contro i manifestanti, molte persone hanno passato i confini con la Turchia per sfuggire alle violenze del regime siriano, la questone è di primaria importanza, perchè Ankara ha praticamente una guerra ai suoi confini, che rischia di destabilizzare la regione con ripercussioni proprio sul paese del Bosforo. Un primo effetto sono, appunto i tanti campi profughi nati sul suolo turco per accogliere i fuggitivi siriani, ormai allo stremo per la feroce repressione di Damasco. La Tutrchia ha più volte sollecitato riforme radicali ad Assad per risolvere le questioni rivendicate dai manifestanti, ma la soluzione praticata dal governo siriano è andata nella direzione opposta. Fin dalle prime fasi della primavera araba, la Turchia è stata eletta a modello per le nascenti democrazie, sia per la propria capacità di conciliare la democrazia con la religione islamica, sia per il prestigio regionale guadagnato, grazie ad un evidente progresso economico ed a una sempre maggiore influenza politica, sopratutto nella regione. Va detto che i principi ispiratori della politica estera turca sono stati definiti neo ottomani, proprio per l'azione centrale che Ankara sta compiendo nella regione. Ora in forza di questo indirizzo di politica internazionale, la Turchia non può tollerare una sempre crescente violenza sul proprio uscio di casa. La minaccia di un intervento militare in territorio siriano ha, però, delle implicazioni che vanno aldila dell'ambito puramente regionale del teatro di crisi. Il nocciolo della questione è l'appartenenza turca alla NATO, dove riveste un ruolo cruciale proprio per l'area su cui si estende il suo territorio. In caso di risposta siriana, ancor peggio appoggiata da forze armate iraniane, sulla cui presenza in territorio siriano, si hanno forti sospetti, quale sarebbe l'escalation potenziale della vicenda? A quel punto ogni scenario dal più morbido al peggiore possibile potrebbe verificarsi.
sabato 11 giugno 2011
La Cina sempre più intollerante
Il problema dell'opposizione scuote la Cina. Il granitico Partito Comunista, ormai al potere da novanta anni, pare intenzionato a proseguire il suo dominio, sempre più contrastato, continuando a soffocare ogni piccola forma di dissidenza. La costituzione cinese, prevede per le elezioni locali, anche la possibilità di presentarsi al di fuori dell'organizzazione partitica a patto di non essere troppo fuori sintonia con le direttive vigenti. Tuttavia l'avvento di internet ha allargato la possibilità di comunicare il proprio pensiero nella rete, creando una pericolosa falla nel sistema, non più impermeabile, della rigida burocrazia cinese. L'apparato, in allarme, ha subito vietato questi micro blog, ritenuti, certamente a ragione, potenzialmente molto pericolosi. Il governo cinese ha imparato subito la lezione proveniente dalla primavera araba, dove il principale veicolo della protesta è stato proprio internet. Inoltre per ribadire, anche a livello politico che in Cina non vi è alcuna base giuridica per i cosiddetti candidati indipendenti, anche dal Congresso Nazionale del Popolo e dal periodico del Partito Comunista si sono levate voci per sottolineare questo assunto. L'espansione del livello di benessere ha comunque sedato gran parte della società cinese, contribuendo ad addormentare la coscienza civile del paese. La tattica pianificata dal Partito Comunista ha previsto, che con la diffusione dei beni le persone dovevano essere contente e non dovevano avere dei dubbi di sorta, così la via del capitaismo socialista avrebbe potuto proseguire, senza gli intoppi dei diritti sociali. Ma l'industrializzazione, ed anche la terziarizzazione, ha provocato la nascita di urgenze e bisogni che il monolite del partito aveva fino ad allora soffocato facilmente. Lo scambio e la circolazione delle idee hanno generato la nascita, seppure in parti minoritarie, ma sempre crescenti, della popolazione, di una coscienza nuova nell'ambiente cinese, i cui prodromi si erano verificati già con Tienammen, seppure solo nell'ambito studentesco. Era quella una Cina, comunque distante anni luce da quella attuale, dove le idee di contestazione potevano nascere e di fatto erano confinate, solo nelle aree della coltivazione del sapere. L'accesso sempre crescente ad informazioni prima irrangiungibili ha rivoluzionato l'approccio con la popolazione anche da parte dell'organizzazione governativa, che ha dovuto inasprire la guerra alla dissidenza, spesso con leggi e provvedimenti iniqui, che hanno sollevato la protesta e l'indignazione della comunità internazionale. Tuttavia questo inasprimento significa che il potere teme sempre di più che il proprio monopolio venga meno, ma anzichè praticare aperture, anche piccole, preferisce restringere ancora di più quelle minime occasioni di dissenso, prima tollerate, perchè ottenebrato da una paura fisica di esserne travolto.
venerdì 10 giugno 2011
L'Iran impegnato nella repressione siriana
Secondo testimonianze, che riportano dati oggettivi, l'Iran starebbe partecipando alle feroci repressioni in atto in Siria, con propri effettivi. I testimoni parlano di soldati con la barba, espressamente vietata agli appartenenti delle forze armate di Damasco, con uniformi nere, non presenti nel vestiario dei soldati di Assad ed infine dotati di armi sconosciute ed assenti dall'armamento del personale militare nazionale. Di fronte alle proteste dei paesi arabi l'atteggiamento iraniano è sempre stato di appoggio, nelle dichiarazioni, perchè si voleva esercitare l'influenza di Teheran per portare i nuovi possibili governi verso le posizioni anti occidentali e teocratiche iraniane. Nonostante non sia stata questa, per ora, la direzione presa dalla primavera araba, l'Iran ha lasciato la porta aperta a possibili sviluppi mantenendo un basso profilo, che lasciava comunque intendere, di vedere benevolmente l'affrancamento da regimi autoritari da parte dei popoli arabi. L'unica avversione manifestata da subito, in maniera chiara e netta, è stata quella contro la rivolta siriana. Immediatamente bollata come complotto americano e sionista, la protesta siriana ha creato viva preoccupazione al regime di Teheran, che conta su Assad come alleato chiave per la sua politica nel medio oriente. Per l'Iran perdere Damasco significa perdere la via d'accesso al confine israeliano, con conseguente depotenziamento delle proprie minacce. In chiave anti Israele, l'Iran conta su Siria, Hezbollah libanesi ed Hamas nella striscia di Gaza. Da questo quadro si comprende come proprio la Siria sia l'alleato più importante e fondamentale, nel piano anti israeliano, che pur essendo solo, attualmente, un esercizio di retrovia, consente a Teheran di recitare il ruolo di capofila nei paesi arabi, alla lotta contro il sionismo. E' un ruolo fondamentale nella politica estera iraniana perchè mette alcentro della propria azione l'avversione viscerale, sia agli USA che ad Israele. E' questa ragione che consente all'Iran la visibilità maggiore nella lotta anti occidentale in chiave islamica. Proprio per questo l'Iran non può permettersi di perdere la Siria, che rappresenta la chiave di volta della propria politica estera. L'impiego dei soldati iraniani, che hanno già fatto esperienza sul proprio terreno nella repressione delle proteste, rappresenta un aiuto tangibile ad un regime in chiara difficoltà, che non riesce più con le sue proprie forze a mantenere il controllo della situazione. Ora, per i siriani, ma anche per il mondo intero, il pericolo maggiore è che la Siria diventi una colonia iraniana. L'occidente deve temere questa evenienza, perchè se Assad è stato un dittatore repressivo, in campo internazionale è stato tanto abile da sfuggire alla tentazione di ergersi ad un qualche protagonismo ed il comportamento della Siria non ha mai destato grosse preoccupazioni, riuscendo ad arrivare perfino ad una qualche forma di intesa con Israele. Se l'Iran prendesse il sopravvento su Damasco in maniera tangibile per l'occidente sarebbe una grossa sciagura. Lasciare andare la Siria al proprio destino, senza pensare una forma di intervento significherebbe portare l'islamismo più estremo alla porta di casa.
giovedì 9 giugno 2011
Ancora fame in Africa
La fame torna ad essere protagonista in Africa. Per il Kenya, Etiopia ed il Malawi, seppure per cause diverse, si annunciano l'arrivo di carestie che potranno avere effetti drammatici. La scarsità di pioggia in Kenya ed in Etiopia nelle regioni di Mandera e Meda Welabu, territori rispettivamente di Kenya ed Etiopia, la grave siccità minaccia di creare una delle più gravi crisi alimentari degli ultimi tempi. Infatti in queste due regioni il tasso di piovosità nello scorso anno è stato solo il 30% della media registrata tra gli anni 1995-2010, si tratta di territori dove la malnutrizione colpisce già il 24% della popolazione. L'emergenza non ha solo a che fare con le condizioni metereologiche, si tratta anche della mancanza cronica di infrastrutture, che vadano in aiuto dell'agricoltura, che a sua volta soffre di atavica arretratezza. E' chiaro che gli aiuti ed i programmi delle organizzazioni internazionali non sono sufficienti e non assolvono il loro ruolo. Gli stessi stati europei, che si dannano per elaborare complicate strategie per bloccare l'immigrazione clandestina, non fanno abbastanza per eliminare, almeno parte delle cause che provocano questi fenomeni. Per il Malawi, stato in cronica difficoltà alimentare, la situazione rischia di peggiorare ancora, a causa del conflitto diplmatico con il Regno Unito, stato che sovvenziona il programma agricolo per i fertilizzanti dello stato africano. Il governo del Malawi sta attualmente rifiutando le sovvenzioni sui fertilizzanti, che riguardano il lavoro di 1,6 milioni di agricoltori, soltanto per una definizione inglese, che ha descritto il capo del governo come autocratico ed intollerante delle critiche. Così per un semplice fatto di puntiglio si mette in pericolo la sopravvivenza delle popolazioni presenti nelle zone agricole, dove il fenomeno della fame può tornare ad essere prepotente protagonista.
Nello Yemen un conflitto americano
Dietro la rivolta che agita lo Yemen, si combatte una guerra non dichiarata degli Stati Uniti. Infatti i cacciabombardieri americani perseguono quella che ritengono la minaccia più immediata per i loro interessi nella penisola arabica: le formazioni di Al Qaeda presenti in terra yemenita. In realtà non è un conflitto nuovo, le azioni americane compiute in quella direzione sono state sospese circa un anno prima per alcuni fallimenti, che hanno determinato la morte di popolazione civile. La cellula yemenita di Al Qaeda è ritenuta dagli USA come quella emergente, dopo i duri colpi inferti alla testa dell'organizzazione terroristica in Pakistan. Gli USA sono particolarmente determinati per proteggere le proprie installazioni militari presenti nel Golfo Arabo, obiettivo ritenuto molto sensibile agli attacchi di Al Qaeda. Tuttavia gli USA patiscono, come limitante, la rivolta presente nello Yemen. Pur considerando positiva la ribellione, in chiave democratica, gli americani sono intralciati dal fatto che gli attivisti di Al Qaeda si mescolano e si confondono con i dimostranti contro il regime. Questa difficoltà ha determinato un atteggiamento prudente e di seconda fila degli USA nei confronti dei dimostranti, ai quali hanno indicato la preferenza per una transizione ordinata e trasparente.
mercoledì 8 giugno 2011
Prime crepe nell'esercito siriano
Parti dell'esercito siriano iniziano a rompere con il regime ufficiale, ed è questa la paura più grande per il regime di Assad. L'apparato siriano si fonda su una macchina della repressione il cui monopolio è totalmente in mano al clan insediato al governo. Si tratta di un monolite che non è mai stato scalfito nel tempo, ma che non è mai stato impiegato, specialmente sul fronte interno, in maniera così massiccia, per cui non è mai stato sottoposto a sollecitazioni così pesanti. Il protrarsi della protesta e della conseguente repressione mostra ora delle crepe nel sistema coercitivo messo in piedi da Damasco. Fonti ufficiali parlano di interi reparti dell'esercito caduti in imboscate ad opera di uomini armati, ma l'evenienza pare troppo remota perchè si tratterebbe di reparti corazzati, praticamente non battibili se non da truppe equipaggiate con mezzi analoghi. Il sospetto è che si tratti di regolamenti di conti tra truppe fedeli al regime contro reparti che cominciano a soffrire l'impiego repressivo contro i civili. La questione è di fondamentale importanza nell'economia della questione siriana: senza l'unità della forza repressiva il regime è, di fatto, isolato e destinato a fine certa. Probabilmente l'imbarbarimento della dura risposta militare deriva da questa consapevolezza. Peraltro Assad non ha antagonisti sufficientemente motivati in campo internazionale, le misure prese dalla comunità internazionale sono infatti insufficienti a fermare il pugno di ferro verso gli oppositori. Quello che manca è la spinta necessaria a sanzionare adeguatamente il regime, al di la delle dichiarazioni di facciata e delle petizioni di intenti; con questo stato di cose il regime di Damasco non è abbastanza intimorito e continua indisturbato nella repressione. La questione è spinosa, la vicinanza della Siria all'Iran, impone la massima cautela, ma appare irreale che il regime cada da solo in tempi brevi, senza alcuna forma di pressione esterna. Si possono bene comprendere le remore degli USA, già impegnati su più fronti, ma, altresì, non è chiaro il temporeggiamento di UE e sopratutto ONU, che dovrebbero dare alla vicenda un peso ben maggiore di quello fino ad ora dedicatogli.
martedì 7 giugno 2011
Lo Yemen ancora nel caos
Gli USA e di principali stati europei chiedono, per lo Yemen, una transizione di potere pacifica, sostenendo l'iniziativa portata avanti dall'Arabia Saudita, paese dove si trova il contestato presidente Ali Abdullah Saleh, convalescente dopo i postumi delle ferite riportate nel bombardamento del palazzo presidenziale. Quello che si teme è che un possibile ritorno in patria del presidente, al potere da ben 33 anni, che potrebbe ulteriormente aumentare i disordini, già molto gravi. Nella giornata di ieri ancora morti, tra cui alcuni uomini che il governo in carica indica legati ad Al-Qaeda. Intanto il Consiglio di cooperazione del Golfo, che riunisce i paesi filo occidentali della penisola araba, non riesce a trovare un accordo che favorisca la distensione tra il presidente yemenita in carica ed il fronte delle opposizioni, non riuscendo di fatto ad interrompere le proteste anti regime che hanno provocato più di 450 morti e la fuga di migliaia di persone dai luoghi dove si sono verificate. I partiti politici insistono nella richiesta della nomina di un vice presidente, atto simbolico ritenuto il primo passo per un trasferimento del potere. L'obiettivo è ritenuto prioritario anche dal Consiglio di cooperazione del Golfo per attenuare le rivolte. Questa incrinatura nel regime in vigore da 33 anni può significarne il tramonto.
Dove va Israele?
I recenti fatti alla frontiera della Siria, la posizione sempre più arroccata del premier, le proteste, che seppure in minoranza, cominciano ad acquistare una grossa rilevanza nel paese, fanno nascere la domanda dove sta andando Israele? Il governo del paese sta assumendo una posizione sempre più isolata ed è significativo che la protesta monti anche dall'interno. Se per la comunità internazionale la creazione dello stato palestinese è ormai più che una esigenza necessaria per dare un concreto avvio al processo di pace, il governo di Tel Aviv sta facendo di tutto per andare nella direzione opposta. Le proposte del premier israeliano, infatti sembrano fatte apposta per contrastare ogni possibile forma di dialogo ed il gelo con il quale Obama ha congedato Netanyahu, la dice lunga sui sentimenti dell'amministrazione americana, nonostante gli applausi raccolti dal premier di Tel Aviv al congresso e provenienti dalla parte repubblicana. Il governo israeliano non pare essersi accorto dei cambiamenti politici che stanno avvenendo attorno ai suoi confini e pare vivere in un limbo per niente sicuro. L'atteggiamento dello struzzo che sta portando avanti Netanyahu, oltre ad essere irresponsabile, denuncia una miopia circa gli obiettivi da raggiungere molto preoccupante, non è vivendo alla giornata con una tattica attendista che si costruisce il futuro del paese. Frattanto i palestinesi stanno optando per tattiche di rivolta pacifiche, che gettano ulteriore discredito sull'azione dello stato israeliano: una cosa è effettuare una repressione a seguito di atti violenti, un'altra è sparare su dimostranti disarmati. I palestinesi sembrano aver capito la maggiore risonanza di queste tattiche e si avvicinano al cruciale appuntamento di settembre, quando verrà discussa all'ONU la richiesta palestinese della necessità di un loro stato libero e sovrano, con il favore dell'opinione pubblica. Cosa farà Israele se l'ONU riconoscerà questo diritto ai palestinesi? Già il solo fatto di riuscire a portare nella sede delle Nazioni Unite il problema porterà alla ribalta, sempre che ve ne fosse bisogno, un argomento che il governo israeliano preferiva fare passare sotto silenzio. La pressione mediatica che rischia di abbattersi su Israele potrebbe essere enorme e potrebbe determinare un isolamento ulteriore e non si tratterebbe di un magnifico isolamento.
lunedì 6 giugno 2011
La Russia critica sull'intervento in Libia
Mosca si dimostra sempre più in disaccordo con la guerra in Libia. L'astensione nell'ambito del Consiglio di sicurezza, sull'intervento in Libia era già stata concessa con difficoltà, con il solo intento umanitario per la protezione dei civili. Le tante escalation operative messe in campo dall'alleanza dei volenterosi hanno incrinato la già sofferta astensione, che di fatto, ha permesso l'azione militare. L'ultimo atto delle forze alleate contro Gheddafi, l'impiego degli elicotteri in azioni armate, ha suscitato grandi proteste da parte dell'amministrazione russa, per il livello militare raggiunto. L'impiego di aviazione leggera non pare, in verità, essere previsto dalla risoluzione dell'ONU sull'intervento in Libia, dove si parlava di intervento aereo, inteso come aviazione classica, per proteggere la popolazione civile. Gli obiettivi che si possono raggiungere con l'utilizzo di elicotteri sono ben diversi da quelli preventivati nella risoluzione, si tratta della possibilità di colpire forze avverse a distanza ravvicinata, è l'ultimo gradino prima di utilizzare truppe di terra. Il timore russo è che questa prassi si allarghi ad altri teatri critici, la dottrina di Mosca, in campo internazionale prevede, infatti, che sulle questioni interne non vi sia ingerenza esterna, tantomeno con il benestare dell'ONU. E' una visione opposta a quella americana, che preferisce, invece, agire con il beneplacito delle Nazioni Unite su scenari internazionali. Prendendo questa piega difficilmente la Russia fornirà ancora l'astensione per regolare altre questioni di politica interna di altri stati, anche in presenza di gravi violazioni a danno dei civili. La dottrina russa è condivisa da un'altra nazione che detiene il seggio permanente al Consiglio di sicurezza: la Cina, che forse a causa dei propri problemi interni preferisce evitare i riflettori.
domenica 5 giugno 2011
La Merkel sollecita la riforma del Consiglio di sicurezza dell'ONU
La cancelliera tedesca Angela Merkel, durante il discorso tenuto alla conferenza della Chiesa Evangelica Tedesca di Dresda, ha richiesto una riforma urgente del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Le ragioni sollevate dalla Merkel sono, in effetti condivisibili, in un mondo globalizzato, l'unico strumento di una qualche utilità per regolare le questioni internazionali è frutto del risultato della seconda guerra mondiale, ormai sessanta anni fa. Con le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali e politiche appare chiaro che la composizione del Consiglio di sicurezza sia ormai obsoleta. La cristallizzazione della composizione lascia inalterato l'equilibrio nato dalla fine del conflitto mondiale e non tiene conto dei nuovi soggetti nati dal procedee del corso della storia. La richiesta è anche giustificata dal fatto che se si vuole puntare , in modo certamente da definire, in uno strumento planetario che possa risolvere, almeno le situazioni più pericolose tra gli stati, non può essere bloccato dal diritto di veto di un membro che da sempre occupa quello scranno. La norma che regola la rotazione tra i membri non fissi non è più sufficiente a garantire l'equilibrio politico internazionale che l'attuale momento richiede. Occorre ridisegnare la mappa e le norme che regolano l'istituzione del Consiglio di sicurezza, anche in funzione di accelerare le sue decisioni, come impongono gli stretti tempi di una crisi che si presenta sullo scenario mondiale. Il problema sollevato dalla Merkel rivela la grande sensibilità verso un governo mondiale dei momenti difficili, necessario e non più rinviabile, nell'attuale teatro mondiale delle relazioni internazionali, dove sempre più elementi e varibili si legano tra di loro per concorrere sia alla creazione che alla risoluzione dei problemi emergenti. La collaborazione internazionale è sempre più necessaria anche nell'ottica di una prevenzione dei vari momenti di crisi, che spesso riguardano la vita stessa di un numero elevato di persone. La speranza che gli stati siano sensibili al problema, per studiare nuove norme per il Consiglio di sicurezza può creare le condizioni per nuove vie per la pace mondiale.
sabato 4 giugno 2011
La Cina teme l'anniversario di Tienenmen
Il governo della Repubblica Popolare Cinese teme il ventiduesimo anniversario di Tienanmen. La data cade in un lungo week end e si temono manifestazioni di opposizione al regime. Starebbero anche circolando voci che l'amministrazione di Pechino stia tentando di comprare il silenzio delle famiglie delle vittime per spegnere ulteriori possibilità di manifestazioni. In realtà pare molto difficile che l'apparato cinese riesca a contenere la protesta che sta montando sempre più massiccia e che non si lascerà sfuggire l'occasione di manifestare il proprio dissenso con le telecamere accese di tutti i network mondiali. Nel frattempo le forze di polizia cinese hanno intensificato la presenza sul luogo simbolo della dissidenza cinese, una presenza che dovrebbe, nell'intenzione del governo, dissuadere ogni forma di protesta. Ciò che preoccupa di più l'establishment cinese è lo scontato raccordo che la protesta può fare, richiamandosi alla primavera araba e convertire il tutto in primavera cinese. Sono infatti molti i casi di violazione dei diritti umani, che potrebbero scatenare rivolte analoghe a quelle della sponda sud del Mediterraneo, segnalati dalle varie organizzazioni semi clandestine, che si occupano della materia, anche se su questo aspetto Pechino ha dichiarato che mai come in questo momento in Cina sono rispettati proprio i diritti umani.
Il Brasile dichiara guerra alla povertà
Nonostante la crescita esponenziale e la scalata nella classifica dei paesi emergenti, il Brasile risulta essere ancora afflitto da una povertà cronica, che riguarda un gran numero di cittadini. La presidentessa Dilma Rousseff fissa un obiettivo assai ambizioso: un Brasile senza miseria. Il primo passo è eliminare la parte più estrema della povertà entro il 2014. La percentuale dell'otto per cento, circa due milioni di brasiliani, vive con circa 30 euro al mese, ed è questa la prima fascia sociale su cui saranno concentrati i primi sforzi al fine di innalzare il loro reddito. In campagna elettorale la Rousseff ha presentato come una priorità la lotta alla povertà nel paese ed ora ritiene che il momento sia opportuno per mantenere la promessa. Tuttavia prima ancora che parlare di investimenti economici e misure politico amministrative, la prima cosa da cambiare è la mentalità stessa della parte più povera della popolazione, che ritiene la povertà una fatalità della vita, impossibile da combattere. Certamente questa nuova mentalità va sostenuta da una battaglia su più fronti: miglioramento delle infrastrutture, innalzamento del livello dell'educazione, sviluppo rurale (dove è insediata la gran parte della popolazione affetta da povertà) e miglioramento delle politiche sociali. Proprio su questo fronte verteranno i primi interventi, che andranno a modificare lo strumento chiamato "Borsa familiare", il programma di trasferimento delle risorse pensato per integrare il reddito e tarato, dalla presidenza Lula, su dodici milioni di famiglie. L'incremento demografico registrato negli ultimi periodi ha però fatto registrare un milione e trecentomila bambini in più di quelli previsti, determinando l'insufficienza dello strumento stesso.
In più molte famiglie vivono in ambienti isolati e remoti del vastissimo territorio brasiliano ed anche spostarsi per chiedere l'integrazione del reddito costituisce un problema, per cui lo stato dovrà attivarsi per andare a promuovere e portare gli aiuti sociali. Non solo, il governo investirà molto sulle infrastrutture, che dovranno migliorare sensibilmente la qualità della vita delle famiglie più povere, acqua corrente, elettricità e sistemi fognari atti a vincere le malattie dovute alla scarsità di igiene. Di pari passo dovranno svilupparsi le condizioni economico sociali che possano favorire l'inserimento nel ciclo produttivo capaci di cogliere le occasioni provenienti dal mercato. Una delle ragioni della povertà che colpisce il Brasile è la poca o nulla qualificazione della forza lavoro, la mancata specializzazione è individuata come causa di povertà da sanare con dosi massicce di formazione professionale. Inoltre l'attivazione di procedure facilitate dell'accesso al micro credito può permettere la diversificazione produttiva sopratutto nel campo agricolo, grazie anche al sostegno tecnico, fornito dallo stato attraverso i propri agronomi. Se l'obiettivo sarà raggiunto nel 2014, il Brasile sarà la prima nazione in via di sviluppo a raggiungere l'obiettivo fissato dall'ONU nel 2000: ridurre la povertà estrema.
In più molte famiglie vivono in ambienti isolati e remoti del vastissimo territorio brasiliano ed anche spostarsi per chiedere l'integrazione del reddito costituisce un problema, per cui lo stato dovrà attivarsi per andare a promuovere e portare gli aiuti sociali. Non solo, il governo investirà molto sulle infrastrutture, che dovranno migliorare sensibilmente la qualità della vita delle famiglie più povere, acqua corrente, elettricità e sistemi fognari atti a vincere le malattie dovute alla scarsità di igiene. Di pari passo dovranno svilupparsi le condizioni economico sociali che possano favorire l'inserimento nel ciclo produttivo capaci di cogliere le occasioni provenienti dal mercato. Una delle ragioni della povertà che colpisce il Brasile è la poca o nulla qualificazione della forza lavoro, la mancata specializzazione è individuata come causa di povertà da sanare con dosi massicce di formazione professionale. Inoltre l'attivazione di procedure facilitate dell'accesso al micro credito può permettere la diversificazione produttiva sopratutto nel campo agricolo, grazie anche al sostegno tecnico, fornito dallo stato attraverso i propri agronomi. Se l'obiettivo sarà raggiunto nel 2014, il Brasile sarà la prima nazione in via di sviluppo a raggiungere l'obiettivo fissato dall'ONU nel 2000: ridurre la povertà estrema.
mercoledì 1 giugno 2011
I dirigenti cinesi sempre più preoccupati del fronte interno
Il capitalismo selvaggio instaurato dal comunismo cinese, senza i contrappesi delle democrazia, ha generato un profondo malcontento nella società cinese. Le profonde differenze create su di una società che fino a pochi anni prima era profondamente livellata, hanno provocato vere e proprie ribellioni, sfociate spesso in atti terroristici, che preoccupano le autorità cinesi, più di possibili nemici esterni. I dirigenti cinesi, da un lato hanno mantenuto la mancanza di diritti per consentire il basso costo del lavoro, vero motore dell'economia cinese, ma dall'altro non hanno saputo governare le frizioni tra le diverse classi, basate esclusivamente sul reddito, venutisi a creare per le profonde differenze. La questione è stata poi aggravata dall'aumento esponenziale della corruzione, fenomeno già presente in precedenza, ma dilagato con l'accrescere del PIL. La stessa conformazione territoriale della Cina, ha favorito i due fenomeni, diversi ma spesso collegati, la creazione di un ceto ricco, infatti, è andata di pari passo con l'aumento della corruzione. Questo è stato tanto più vero più la distanza dai centri di potere centrale aumentava, in modo che nelle zone periferiche si sono addensate le maggiori sacche di corruzione e le differenze sociali sono state sempre più marcate. La diffusione dei moderni sistemi di comunicazione ha permesso, come nel nord africa, la costruzione sia di un'autocoscienza, anche negli strati sociali più bassi, sia la presa d'atto dell'esistenza della profonda frammentazione sociale presente nel paese. I più alti ranghi della dirigenza cinese sono consapevoli di questa emergenza sociale, ma paiono più preoccupati del mantenimento dello status quo, anziche di elaborare strategie che possano attenuare il fenomeno. Quello che preme ai capi del Partito Comunista cinese è aumentare il controllo sulla società in modo da continuare ad innalzare il PIL, ma l'atteggiamento pare quello dello struzzo. Non prendere atto in maniera positiva della necessità di praticare aperture sul tema dei diritti, potrà condurre soltanto allo scontro frontale. Il destino cinese sarà quello di affrontare sempre di più il malcontento che si manifesterà in forme sempre più violente, come reazione al mancato miglioramento delle condizioni ed alla repressione come unico strumento per combattere l'insoddisfazione popolare.
L'AIEA punta il dito contro il Giappone
L'AIEA, Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, punta il dito contro il Giappone. Un'equipe dell'agenzia, incaricata di investigare sul disastro nucleare nipponico, capeggiata dal britannico Mike Weightman ha concluso che Tokyo ha sottostimanto la portata dell'evento, sia prima del cataclisma generato dallo tsunami, non dotando la centrale di Fukushima delle necessarie protezioni, sia dopo lo scoppio del reattore, quandio sia la ditta responsabile, che lo stesso governo giapponese, hanno ritardato la verità della pericolosità dell'incidente. Il Giappone, stato famoso per il rispetto delle procedure e della precisione, non esce bene dalla vicenda, vedendo minata la credibilità del suo governo. Inoltre anche la capacità tecnica dei nipponici subisce un inevitabile diminuzione di credibilità. Non avere dotato una centrale nucleare installata su di un fronte marino, ritenuto pericoloso proprio per fenomeni di tsunami, di opere atte alla difesa dell'infrastruttura, mette fine a molti luoghi comuni sulla perizia giapponese ed incolpa chiaramente i costruttori di pericoloso pressapochismo. L'immagine, sia politica, che tecnologica appare irrimediabilmente rovinata dalla durezza del rapporto AIEA, e fa riflettere sull'assenza di una normativa sovranazionale che regolamenti la materia, come dovrebbe essere, dato che gli effetti nefasti di un guasto nucleare si propagano agli stati confinanti.
L'AIEA punta il dito contro il Giappone
L'AIEA, Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, punta il dito contro il Giappone. Un'equipe dell'agenzia, incaricata di investigare sul disastro nucleare nipponico, capeggiata dal britannico Mike Weightman ha concluso che Tokyo ha sottostimanto la portata dell'evento, sia prima del cataclisma generato dallo tsunami, non dotando la centrale di Fukushima delle necessarie protezioni, sia dopo lo scoppio del reattore, quandio sia la ditta responsabile, che lo stesso governo giapponese, hanno ritardato la verità della pericolosità dell'incidente. Il Giappone, stato famoso per il rispetto delle procedure e della precisione, non esce bene dalla vicenda, vedendo minata la credibilità del suo governo. Inoltre anche la capacità tecnica dei nipponici subisce un inevitabile diminuzione di credibilità. Non avere dotato una centrale nucleare installata su di un fronte marino, ritenuto pericoloso proprio per fenomeni di tsunami, di opere atte alla difesa dell'infrastruttura, mette fine a molti luoghi comuni sulla perizia giapponese ed incolpa chiaramente i costruttori di pericoloso pressapochismo. L'immagine, sia politica, che tecnologica appare irrimediabilmente rovinata dalla durezza del rapporto AIEA, e fa riflettere sull'assenza di una normativa sovranazionale che regolamenti la materia, come dovrebbe essere, dato che gli effetti nefasti di un guasto nucleare si propagano agli stati confinanti.
La Germania abbandona il nucleare
La Germania esce dall'era nucleare, la data di spegnimento dell'ultima centrale atomica che resterà in attività viene fissata al 2022. Si interrompe così una storia iniziata nel 1960, che ha portato lo stato tedesco, ad essere la terza potenza sul suolo europeo in fatto di energia atomica. Nonostante che Gran Bretagna e Francia ribadiscano il loro impegno sul nucleare, sebbene maggiormente controllato, la Germania apre di fatto una via alternativa all'approvvigionamento ed alla distribuzione energetica, sia civile che industriale, capace di cambiare radicalmente il modo di pensare di un'intera nazione. La mossa rappresenta un cambiamento epocale ed il fatto che provenga da un paese tradizionalmente pragmatico come la Germania, significa che l'energia alternativa può funzionare anche per paesi con grandi complessi industriali e non soltanto per l'alimentazione civile. La gradualità dello spegnimento nucleare potrà permettere un passaggio senza traumi alla nuova forma energetica con investimenti tali da consentire l'incremento dei posti di lavoro coniugato alla necessità della lotta all'inquinamento, sentimento da sempre sentito dal popolo tedesco. L'investimento in denaro e conoscenza non è da poco, trasformare una parte preponderante del sistema energetico di un paese prettamente industriale come la Germania prevede uno sforzo sopratutto nella mentalità dell'apparato produttivo e statale non indifferente; la portata della novità è tale da consentire allo stato tedesco di fare da battistrada per l'Europa intera. Non solo, la decisone autonoma di Berlino pone tutti gli stati di fronte ad un discorso più ampio che riguarda l'ambiente di tutto il mondo, già duramente provato dall'ingente sfruttamento delle risorse non rinnovabili e dal conseguente elevato tasso di inquinamento. Regolare questi temi su ambiti internazionali è necessario ma difficoltoso, ma l'impulso che può dare un atto unilaterale di un paese importante può creare un effetto a catena, capace di generare un circolo virtuoso a favore dell'ambiente. Ora si aspetta che istituzioni sovranazionali come la UE, sostengano questa direzione con atti pratici e regolatori.
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